Gilad Atzmon
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Coloro che da un po’ di tempo seguono il mio lavoro avranno probabilmente già notato che in ebraico moderno non esiste una parola che significhi “pace” (nell’accezione di armonia e riconciliazione). Il termine ebraico Shalom (שלום) , in ebraico moderno viene interpretato come “sicurezza per gli Ebrei.” In Israele ci si riferisce ai “negoziati shalom” come ad un insieme predeterminato di condizioni che devono garantire la “sicurezza” degli Ebrei israeliani, nello specifico: sicurezza dei confini, disarmo degli Arabi, impegno degli Americani a fornire armi ad Israele, espansione economica e così via.
Da una cultura che manca di una chiara nozione di pace e di riconciliazione sarebbe irragionevole aspettarsi un percorso di concordia che conduca la regione verso l’armonia e la fratellanza. Sin dai tempi dell’illusorio accordo di Oslo, quando alcuni si erano rivelati abbastanza stupidi da credere che la pace potesse prevalere, era risultato evidente che quella sostenuta dai cosiddetti “entusiasti della pace” fra i legislatori israeliani (Shimon Peres & co) era solo la rappresentazione fantastica di un “Nuovo Medio Oriente,” la visione di un nuovo ordine regionale con al centro una cooperazione economica con lo Stato Ebraico. Il “sogno” di questo “nuovo Medio Oriente” comportava una coalizione di cosiddetti “stati democratici” che avrebbero sfidato il “Khomeinismo” attraverso un orientamento filo-occidentale ed un capitalismo spietato. Anche se l’agenda globalista era chiarissima agli occhi di Shimon Peres, gli unici punti dimenticati riguardavano i Palestinesi e la possibilità che ritornassero alla loro terra, ai loro frutteti, campi, paesi e città.
Shalom, nel suo significato in ebraico moderno è un’astrazione giudeo centrica, completamente svincolata dal concetto di diversità.
Il recente conflitto nella Palestina occupata (soprattutto gli scontri nelle città miste israelo-palestinesi) porta alla luce un altro concetto cruciale andato perduto nella traduzione in ebraico moderno.
Abbastanza sovente sentiamo i funzionari israeliani e i portavoce dell’Hasbara parlare di “coesistenza arabo israeliana,” la cosa curiosa è che in ebraico non esiste una parola che definisca il termine “coesistenza.” Mentre in inglese il termine implica un’esistenza armoniosa e pacifica di due o più entità, il termine ebraico per “coesistenza” è du ki-yum (דו קיום) e si traduce con due concetti separati: esistenza, cioè due entità che vivono fianco a fianco, ma anche differenziazione e la particolarità dei suoi elementi. Nell’espressione du ki-yum sono intrinseche la separazione, la distinzione e addirittura la segregazione degli elementi che lo compongono, du ki-yum fa una distinzione netta tra “Ebreo”e “Goy” (non Ebreo). Mentre il termine coesistenza è sinonimo di armonia, unione e assimilazione, du ki-yum non prevede la possibilità di una fratellanza umana. Lascia intendere che il successo nella “gestione dei conflitti” è rappresentato dal vivere “fianco a fianco,” non “insieme.”
Credo che, a questo punto, nessuno si sorprenderà nell’apprendere che in ebraico non esiste una parola nemmeno per “armonia.” I primi Israeliani, che avevano lavorato giorno e notte per far rivivere il linguaggio biblico rinominando ogni possibile concetto greco o latino, non si erano preoccupati di trovare una parola ebraica per “armonia.” Quando in Israele ci si riferisce all’armonia si usa la parola latina “harmonia” (רמוניה).
Ogni volta che tentiamo di approfondire la questione della pace nella regione, dovremmo accettare il fatto che una cultura che manca dei concetti di pace, armonia e coesistenza potrebbe non essere in grado di portare la regione ad una coesistenza pacifica e armoniosa. Se mai la pace prevarrà tra fiume e mare sarà solo perché Israele sarà stato costretto ad accettare questi concetti.
Gilad Atzmon
Fonte: gilad.online
Link: https://gilad.online/writings/2021/5/30/lost-in-hebrew-translation
30.05.2021
Tradotto da Ilaria Pagliarini per comedonchisciotte.org