DI AMIRA HASS
Ha’aretz
Il cinismo inerente all’atteggiamento delle istituzioni dello Stato ebraico verso i sopravvissuti all’Olocausto non è una novità per coloro che sono nati e vivono tra di essi. Siamo cresciuti assistendo all’enorme divario tra la presentazione dello Stato di Israele come il luogo per la rinascita del popolo ebraico e il vuoto che esiste per ogni sopravvissuto all’Olocausto e per la sua famiglia. La “riabilitazione” personale dipendeva dalle circostanze di ciascuna persona: quelle più forti contro le altre che non trovavano appoggio dalle istituzioni dello Stato. Durante gli anni ‘50 e ‘60 abbiamo assistito alla degradante visione dei nostri parenti come coloro che sono andati “quali pecore al macello”, la vergogna dei nuovi ebrei, i Sabras, per i loro sfortunati parenti della diaspora.
Si potrebbe dire che durante primi due decenni, gran parte di questo atteggiamento poteva essere attribuito alla mancanza di informazione e alla mancanza di capacità, estremamente umana, di cogliere il pieno significato del genocidio industrializzato perpetrato dalla Germania. Ma la consapevolezza degli aspetti materiali dell’Olocausto iniziò molto presto, con le istituzioni ebraiche e sioniste che iniziavano dai primi anni ‘40 a discutere la possibilità di chiedere risarcimenti.Nel 1952 fu firmato un accordo di risarcimento con la Germania, in base al quale il paese acconsentiva a pagare centinaia di milioni di dollari all’Israele per coprire i costi dell’assorbimento dei sopravvissuti e il pagamento della loro riabilitazione. L’accordo obbligava la Germania, allo stesso tempo, a risarcire individualmente i sopravvissuti, ma la legge tedesca faceva una differenza tra coloro che appartenevano alla “cerchia di cultura tedesca” e gli altri. Coloro che erano capaci di dimostrare un legame con la cerchia superiore ricevevano somme più alte anche se erano emigrati appena in tempo dalla Germania. I sopravvissuti ai campi di concentramento esterni a questa cerchia ricevettero la ridicola somma di cinque marchi al giorno. I rappresentanti di Israele ingoiarono questa distorsione.
Ciò è parte delle radici del cinismo finanziario che viene esposto oggi ai media, per diverse ragioni: l’età avanzata e la salute in peggioramento dei sopravvissuti, l’intenzionale indebolimento dello Stato sociale, la presenza di sopravvissuti provenienti dall’ex unione sovietica che non erano inclusi nell’accordo di riparazione, l’attivismo mediatico di organizzazioni sociali non governative e il gradito arruolamento di giornalisti che si occupino di affari sociali.
Essi sono scioccati dalla differenza che c’è tra l’appropriazione ufficiale dell’Olocausto, che è percepita in Israele come comprensibile e giustificata, e l’abbandono dei sopravvissuti.
Trasformare l’Olocausto in un patrimonio politico serve a Israele, in primo luogo, nella sua lotta contro i palestinesi. Mentre l’Olocausto si trova ad un estremo della scala, insieme alla (giustamente) colpevole coscienza dell’Occidente, l’espulsione del popolo palestinese dalla sua patria nel 1948, viene minimizzata e offuscata.
La frase “sicurezza per gli ebrei” è stata consacrata ad esclusivo sinonimo di “lezioni dell’Olocausto”. Ed è ciò che permette a Israele di discriminare sistematicamente i suoi cittadini arabi. Per quarant’anni la “sicurezza” ha giustificato il controllo della Cisgiordania e di Gaza e di persone che erano state espropriate del loro diritto di vivere assieme ai residenti ebrei, cittadini israeliani strapieni di privilegi.
La sicurezza serve per la creazione di un regime di separazione e discriminazione su base etnica, in stile israeliano, sotto gli auspici di “colloqui di pace” che vanno avanti all’infinito. Trasformare l’Olocausto in un patrimonio permette a Israele di presentare tutti i mezzi della lotta palestinese (persino i non armati) in un altro anello della catena antisemita il cui culmine è Auschwitz. Israele si assegna il permesso di utilizzare nuovi tipi di sbarramenti, muri e torri di guardia militari attorno alle enclave palestinesi.
Separare il genocidio del popolo ebraico dal contesto storico del nazismo e dai suoi fini di omicidio e assoggettazione, e la separazione dalla serie di genocidi perpetrati dai bianchi al di fuori dell’Europa, ha creato una gerarchia di vittime alla cui testa stiamo noi. I ricercatori dell’Olocausto e dell’antisemitismo incespicano nelle parole quando a Hebron lo Stato compie operazioni di pulizia etnica tramite i suoi emissari, i coloni, e ignorano le enclave e il regime di separazione che esso sta mettendo in piedi. Chiunque critichi le politiche di Israele verso i palestinesi viene denunciato come antisemita, se non come negazionista dell’Olocausto. Assurdamente la delegittimazione di qualunque critica di Israele rende solo più difficile confutare la futile equazione che viene fatta tra la macchina di sterminio nazista e il regime israeliano di discriminazione e occupazione.
L’abbandono istituzionale dei sopravvissuti viene giustamente denunciato a tutti i livelli. La trasformazione dell’Olocausto in un patrimonio politico per il suo uso nella lotta contro i palestinesi è alimentato dalle stesse scorte di cinismo ufficiale, ma fa parte del consenso.
Amira Hass scrive per Ha’aretz. E’ autrice di Drinking the Sea at Gaza
Fonte: http://www.haaretz.com/
Link: http://www.counterpunch.org/hass04202007.html
20.04.2007
Scelto e tradotto per www.comedonchisciotte.org da ALCENERO