DI FULVIO GRIMALDI*
PREFAZIONE
Un rompighiaccio dell’informazione giusta
La maggior parte dei crimini contro l’umanità hanno per origine e alibi
una menzogna e per scopo la costruzione di una società gerarchica che
garantisca il dominio dei pochi sui tanti. La negazione della verità e l’imposizione
di una soggezione generale all’inganno sono i meccanismi di potere
che ogni lotta di massa, nelle forme che vanno dalle elezioni alle rivoluzioni,
deve smascherare e neutralizzare se vuole avere possibilità di affermazione.
Non è una scoperta di tempi recenti. Si pensi alle verità rivelate delle
varie religioni, in particolare monoteistiche, alla falsa “donazione di
Costantino” che garantì alla Chiesa la base materiale per puntare al potere
temporale universale, alle demonizzazioni di interi popoli e credenze alla
base delle crociate e delle persecuzioni di massa succedutesi nel secondo
millennio, agli apodittici assunti “scientifici” che, negando qualità umane e
spirituali ai nativi di terre e risorse da conquistare, di popoli da soggiogare e
di civiltà da obliterare, giù giù fino ai falsi pretesti per le guerre, o per i
consumi di hamburger. Si pensi alla manipolazione di concetti come patria,
o democrazia e progresso con i quali si sono imposti, rispettivamente, la
guerra imperialista del ’15-’18, del tutto ingiustificabile se non per l’interesse
degli industriali delle armi, perché il contenzioso era già risolto dalla disponibilità
austro-ungarica, e gli eccidi, le devastazioni e rapine coloniali ai
danni di popolazioni da “civilizzare” o, addirittura, di popoli “inesistenti”,
come nel caso dei palestinesi. L’esito essendo quello risolutore dello scambio
dei carnefici con le vittime.
Spostatasi dalla politica all’economia, la tecnica dell’inganno ha visto la
parte dell’umanità con disponibilità di offrire profitti, perlopiù a proprio pesante
discapito, precipitare nell’attuale vortice di un consumismo patologico,
autodistruttivo non solo sul piano economico, ma altamente remunerativo
per i produttori del superfluo e del nocivo, mimetizzati dai noti “persuasori
occulti”. Esemplificano in modo drammatico questa evoluzione il farmaco
AZT che, fino a quando, verso la fine degli anni ’90, non venne ritirato dal
commercio, fu responsabile della massima parte dei decessi da presunto
Aids conclamato, oppure la megatruffa della benzina “verde” che, al prezzo
per la cittadinanza del rinnovo del parco automobilistico, sostituì al piombo,
relativamente innocuo, i killer benzene, policlici aromatici e polveri sottili.
Immersi in un oceano di bugie, propagandate ormai dalla quasi totalità di
una rete di comunicatori del tutto sinergica con i poteri costituiti, se non a
essi economicamente integrata, manteniamo quel tanto di sensibilità verso
valori innati come la solidarietà, la compassione, l’aspirazione alla giustizia,
per la decostruzione dei quali occorrono campagne particolarmente virulente
e totalizzanti. E’ il caso del ciclo di guerre continue e globali che,
iniziato sul morire del secolo dei grandi sconvolgimenti per l’emancipazione
degli oppressi e alienati e contro forme di dittature particolarmente efferate,
puntano al rovesciamento di quei processi e al ristabilimento, con lo strumento
dello sterminio armato e dell’annichilimento repressivo, di forme non
dissimili, nella sostanza, di dominio e di sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Ancora una volta la truffa si avvale di minacce inventate, o autoprodotte,
come il terrorismo, le armi di distruzioni di massa, i genocidi, e della correlata
necessità di reagirvi nel nome della democrazia e dei diritti umani.
Protagonista di questo imbroglio planetario il conclamato progetto statunitense,
esplicitato in vari documenti ufficiali da una elite economico-politico-
militare dotata di un cinismo forse senza pari nella storia umana, di imporre
il proprio dominio sull’universo mondo, vuoi attraverso la guerra guerreggiata,
vuoi attraverso la guerra economica perpetrata con la collaborazione
decisiva di organismi apparentemente sopranazionali quali l’ONU, il
Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, la Nato ed i suoi affini
in continenti come l’America Latina e l’Asia. Progetto al quale partecipano,
per quote di maggiore o minore minoranza, Stati del tutto complici come il
Regno Unito, l’Australia, Israele e, in forma a volte sommessamente
competitiva, Stati europei dalle rinnovate ambizioni colonialiste all’esterno
e autoritarie all’interno. Si veda, dopo le divergenze sulla guerra all’Iraq, la
sincronia con gli Stati Uniti di Germania e Francia in operazioni di intervento
colonialista come nel Sudan (la grande bugia del genocidio in Darfur),
Haiti (la presunta “dittatura” di Aristide), o Siria (dove si sono montati in
funzione di destabilizzazione antisiriana e antilibanese, con le solite mani,
l’assassinio del premier Rafiq Hariri e la successiva ennesima “rivoluzione
colorata” fomentata e foraggiata dall’articolazione Cia National Endowment
for Democracy). Più scoperta, tanto da risultare una preziosa cartina di tornasole,
anche perché contrastata da una insolitamente efficace
controinformazione, nonché da un terrorismo statunitense in questo caso
ripetutamente smascherato e provato, l’operazione di questo segno da mezzo
secolo diretta contro Cuba e che ora incomincia ad articolarsi contro i
paesi latinoamericani di democrazia progressiva, antimperialista, se non rivoluzionaria,
come il Venezuela di Hugo Chavez e la Bolivia di Evo Morales.
Abbiamo subito la tragedia balcanica che, in virtù di un complotto
eurostatunitense di lunga lena, con alfiere per l’Italia il governo di
centrosinistra di Massimo D’Alema, ha smembrato la Jugoslavia spezzettando
la regione in minifeudi etnico-confessionali, propizi al controllo
geostrategico delle regioni asiatiche e del progressivo assedio a Russia e
Cina. Viene in mente in questo contesto, a proposito di truffe totalizzanti, la
vicenda, di cui sono stato interprete duramente represso dal quotidiano di
sinistra per il quale scrivevo, dell’associazione serba Otpor (assai affine alla
Lega Nord negli scopi assegnati di destabilizzazione nazionale) e della Radio
privata di Belgrado B-92, entrambe riconosciute sia da destra che da
sinistra come autentica espressione di un movimento di contestazione democratica
e progressista al governo di Slobodan Milosevic e poi scoperte e
dimostrate strumenti eversivi al diretto servizio delle potenze occidentali
impegnate nella distruzione della Jugoslavia non allineata, socialista e
multietnica. Il disvelamento di Radio B-92, filiale serba della rete di propaganda
USA in Europa Radio Liberty e di Otpor, prodotto della solita National
Endowment for Democracy e del Quantum Fund dello speculatore George
Soros, portò anche all’identificazione delle complicità e subalternità di tante
realtà politiche e associative, soidisant umanitarie, solidaristiche e pacifiste,
che in Italia contribuirono alla mistificazione balcanica. Consapevolezza
giunta purtroppo fuori tempo massimo e, del resto, poi scrupolosamente
sepolta sotto una coda di paglia lunga dal Tirreno fino al Danubio.
Le poche ricerche e controanalisi che hanno portato, seppure
tardivamente, a incidere nel tessuto già compatto della menzogna imperialista
sulla Jugoslavia, menzogna articolata lungo elementi portanti come la “città
martire di Sarajevo”, la “strage di Sebrenica”, la “pulizia etnica in Kosovo”,
la “dittatura di Milosevic”, “l’ultranazionalismo serbo”, sono finora del tutto
mancate, salvo gli isolati tentativi di pochissimi (in Italia) informatori onesti e
scrupolosi, in relazione a quello che è sicuramente il nodo politico, strategico,
mediatico, culturale al centro del mondo in questo inizio millennio: l’Iraq,
il suo ruolo nel mondo arabo, nel terzo mondo e nel contesto internazionale
a partire dalla rivoluzione anticolonialista del 1958, il lungo assedio israelostatunitense,
la prima Guerra del Golfo, i 13 anni di embargo del milione e
mezzo di morti, la seconda aggressione del 18 marzo 2003, le successive
inenarrabili efferatezze delle forze occupanti, una Resistenza che a ragione
ha richiamato alla memoria il Vietnam e le grandi lotte di liberazione nazionale
nel Terzo Mondo e contro il nazifascismo. Il lavoro di Valeria Poletti è,
da questo punto di vista, “epocale”. Rompendo una blindatura del silenzio e
della disinformazione embedded, sostenuti dall’ignavia senza precedenti di
coloro che avrebbero dovuto assumersi precise responsabilità giornalistiche,
Valeria ha saputo, con un lavoro ineccepibile dal punto di vista di fonti,
documentazione, probità di giudizio, offrire alla tragico-eroica vicenda del
popolo iracheno un quadro inoppugnabile di verità e di giustizia. E’ questa
un’opera che non potrà non responsabilizzare in maniera spietata chiunque
da questo momento in poi vorrà perseverare in un inganno – o subirlo passivamente
– che è costato la vita, la libertà, il benessere, la sovranità, la storia
e, diononvoglia, il futuro al popolo portatore della più antica civiltà del mondo
e oggi autentico garante della possibilità di resistenza e di vittoria di tutti gli
oppressi.
Le informazioni, gli approfondimenti di questo libro, autentiche rivelazioni
per la maggioranza dei lettori, capovolgeranno, a chi in buonafede si
appresta alla lettura di questo impareggiabile e ricchissimo documento, quanto
finora aveva ritenuto credibile e condivisibile dell’immane tsunami di falsità
e imposture con cui l’imperialismo occidentale, coadiuvato dall’opportunismo
e dalla passività di chi avrebbe dovuto saper reagire, ha letteralmente
lobotomizzato l’opinione pubblica. Per noialtri operatori dell’informazione
che, in quasi totale isolamento e contro il complice boicottaggio dei mezzi
d’informazione, pur sedicenti imparziali e “democratici”, abbiamo riferito
nel corso di decenni e fino all’aggressione in corso su vicende, popolo, protagonisti
della più importante storia del nostro tempo, questo lavoro appare
un autentico vindice del diritto alla verità e una rivalsa sacrosanta nei confronti
delle diffamazioni e degli ostracismi subiti, ancor prima che da noi, da
un intero, valoroso e nobile popolo e dalla sua dirigenza.
E qui mi sia consentito
un ricordo personale e, peraltro, assai significativo. Allora inviato
speciale al Tg3, alla mia direttrice, reporter ed editorialista prima e dopo di
quelle che vengono definite le più prestigiose testate nazionali e addirittura
presidente della Rai, proposi intorno al 1997 di andare in Iraq per qualche
reportage su un paese che, pur bombardato quotidianamente e strangolato
da un embargo totale, non appariva più da tempo in nessuna cronaca o
inchiesta. La risposta, che riassume quanto andiamo scrivendo qui, fu: “Vai
pure, ma guai a te se mi fai vedere un solo bambino iracheno ammalato di
uranio o moribondo per fame. Mica voglio fare un favore a quel delinquente
di Saddam e criminalizzare l’Occidente”. Una deontologia, questa, peraltro
condivisa da quasi tutti, che la pose in singolare sintonia con l’allora segretaria
di Stato Madeleine Albright quando, interrogata da studenti americani
se fosse valsa la pena aver ammazzato mezzo milione di bambini iracheni
con l’embargo, rispose: “Si, mi pare che fosse un prezzo giusto”. Quando le
ricordai l’episodio nella trasmissione di Michele Santoro, la direttrice se la
cavò rampognandomi: “Avresti fatto meglio a occuparti della frana di Sarno”.
Quella che Valeria Poletti narra è, senza retorica e senza intenti apologetici,
l’epopea di una nazione che si è posta di traverso a un gigantesco tentativo
di ricupero del dominio coloniale perduto grazie alle esemplari lotte del
secolo scorso, riferita con il taglio scrupoloso del ricercatore di razza. Tale
tentativo, esplicitato con chiara protervia nel Programma per un nuovo secolo
americano (PNAC, Program for a new American century), formulato fin
dagli anni ’90 dal gruppo cristiano-sionista pervenuto al potere con i brogli
del 2001, con il concorso, se non su ispirazione, di un Israele che tale obiettivo
racchiudeva già nelle sue carte fondanti, e poi racchiuso nei piani strategici
ufficiali del governo Bush, ha oggi assunto la formula del “Grande
Medio Oriente”. Un progetto geopolitico e geostrategico che riesuma in chiave
imperialistica e di capitalismo ultraliberista la politica colonialista delle potenze
europee dei secoli scorsi, sradicando definitivamente quello che già
allora ne fu il nemico principale e alla fine vittorioso, negli anni che vanno
dalla rivoluzione dei Giovani Ufficiali di Nasser all’affermazione di governi
laici e progressisti nell’arco tra Algeria e Iraq, passando per quello che è
rimasto il nodo centrale, simbolico e strategico, dello scontro: la rivoluzione
nazionale palestinese. Sotto la cortina fumogena della “democratizzazione”
degli Stati della regione, il progetto si propone di smantellare ogni realtà
statuale araba, a partire da quelle non rimaste, dalle loro origini post-ottomane,
nella sfera di dominio anglo-franco-americana come lo sono rimasti Arabia
Saudita, Emirati, Oman, Kuwait, Qatar, Marocco e da quelle successivamente
non ancora ricuperate come lo sono stati Egitto, Yemen e, tra contraddizioni,
Algeria, Libia e Libano. Cioè eminentemente Iraq, Siria e Sudan.
Lo
scenario che ne dovrebbe emergere sarebbe una nazione araba frantumata
in microrealtà pseudostatali lungo linee etniche e confessionali. Una realtà
araba che, immemore della millenaria unità culturale, linguistica e religiosa
di popoli rimasti relativamente omogenei e sinergici sotto gli ottomani, ma
arbitrariamente frazionati dal colonialismo europeo dall’accordo Sykes-Picot,
si presti docilmente a essere terra di rapina, di mercato e di manodopera a
basso costo per le transnazionali occidentali e piattaforma militarizzata euroamericana
in vista della penetrazione verso i grandi rivali Russia e Cina.
Inevitabilmente, nel piano israelo-euro-statunitense un destino analogo non
potrà non spettare all’Iran, contro il quale il ricorrente agitar di sciabole
imperialista si deve considerare in buona misura virtuale finché Teheran resterà,
con le sue formazioni politico-militari sciite in Iraq, il collaboratore e
garante principale della permanenza degli occupanti in quel paese.
È al di là di ogni dubbio, a dispetto delle fandonie su Saddam “uomo
degli americani”, che l’ostacolo principale a tale progetto era costituito dall’Iraq.
Un paese che, dall’esaurirsi del ruolo egiziano e dalla rivoluzione
anticolonialista del 1958, salvo una breve interruzione filo-angloamericana
sotto il dittatore Aref negli anni ’60, fino all’attuale sbalorditiva resistenza di
popolo, civile e militare, ha rappresentato un polo nazionale e progressista
la cui influenza si estendeva ben oltre lo spazio arabo e diventava punto di
riferimento per i popoli in lotta in misura paragonabile a Palestina, Cuba e
Vietnam. Forza demografica, posizione geostrategica di cerniera tra i due
continenti emergenti Africa e Asia, travolgente sviluppo economico, industriale,
agricolo, culturale, potenza militare sostenuta dal campo socialista e
collaudata nella lunga guerra contro l’Iran, un avanzatissimo assetto sociale
che fungeva da magnete ideologico per milioni di diseredati e senza-diritti
dei paesi circostanti, nonché il ruolo politico di coagulo delle istanze
progressiste e nazionali, antimperialiste e antisioniste, facevano dell’Iraq
baathista la mina letale sul cammino dell’espansionismo israeliano, degli
appetiti egemonici iraniani e, soprattutto, della riconquista imperialista.
Le aggressioni militari ed economiche, succedutesi ininterrottamente dal
1991 attraverso l’embargo genocida e gli ininterrotti bombardamenti sulle
no-fly zones, fino all’attuale repressione stragista della Resistenza e della
popolazione in genere, con l’impiego costante di armi di distruzione di massa
e degli squadroni della morte sponsorizzati dai fratelli sciiti al potere in
Iran, hanno dovuto essere accompagnati da una guerra psicologica senza
precedenti nella storia, superiore perfino alla demonizzazione di ogni cosa
serba o, prima, comunista. Il fatto tanto stupefacente quanto desolante è che
a questo bombardamento mediatico, che ha poi escluso addirittura dalla
curiosità professionale degli informatori e studiosi ogni pur minima attenzione
alle voci che provenivano dal campo opposto, hanno completamente
ceduto anche le forze di sinistra, con particolare ignavia quelle italiane.
Tragicamente,
non meraviglia più da tempo che, per esempio, sull’esplosione
di proteste, ben pianificate in Occidente dai lucidi fautori dello “scontro di
civiltà”, contro un’islamofobia planetaria (vignette, magliette, propaganda
denigratoria dei musulmani e del loro profeta) al cui confronto il tanto deprecato
antisemitismo fa la figura del sedicesimo, si abbiano nel principale
talk-show televisivo italiano titoli come “La persecuzione del cristiani nel
mondo”. O si faccia governare il dibattito della rubrica radiofonica Rai di
massimo ascolto da noti corifei di Israele come Giuliano Ferrara e Gad Lerner,
finti contradditori sotto la compiaciuta conduzione di un sodale dell’
“ultraisraeliano” e postfascista ministro degli esteri Fini.
Nel giro di poche ore le geremiadi di presunto segno illuministico per
l’insensibilità islamica verso quella che una pubblicistica razzista,
truculenta e ingiuriosa pretendeva di far passare per “libertà
d’espressione”, sullo sfondo da imbrattare della sacrosanta indignazione di
masse già sbeffeggiate, perseguitate, diffamate e aggredite al di là di ogni
sopportazione, si mutò acrobaticamente in vituperio ferocissimo nei
confronti di chi, in una manifestazione per Palestina e Iraq, aveva osato
impegnare la sua di “libertà d’espressione” in striscioni di sostegno alla
resistenza di questi popoli. Sarebbe stato più facile scoprire un corano in
tasca al ministro leghista Calderoli, truculento rilanciatore delle
vignette anti-Maometto pubblicate in Danimarca e poi, lungo una ben
elaborata catena di provocazioni, in vari altri paesi fino a giungere sulla
biancheria intima del più ardimentoso dei crociati padani, che trovare in
una qualsiasi “libera espressione” dei media, da destra a manca, un pur
flebile accenno a ciò che questa operazione con ogni evidenza era. Cioè la
mossa, tempestiva come tutte le volte che urgeva neutralizzare una delle
ininterrotte debacles politiche, militari, etiche o umanitarie degli
aggressori, che, partendo da una provocazione ben studiata, avrebbe
scatenato, anche con l’uso di agenti in loco, quello che sugli schermi
occidentali sarebbe stato presentato come la solita visione di turbe barbare
dissennate, fanatiche, violente. Con ciò raggiungendo lo scopo strategico di
rinfocolare lo “scontro di civiltà”, condizione decisiva per la
continuazione della guerra globale e quello tattico di stornare l’attenzione
dall’ennesimo orrore angloamericano. In questo caso le nuove foto delle
torture ad Abu Ghraib, il video del massacro di bambini a Basra per mano di
lanzichenecchi di Sua Maestà, lo scandalo da impeachment delle illegittime
intercettazioni di Bush. E chissà che altro.
Naturalmente tutto questo è la
nota, deprecatissima “dietrologia” (e chissà se Valeria, sottraendo alle
intossicazioni e agli occultamenti la storia dell’Iraq di Saddam, non
diventi bersaglio della stessa stigmate). “Dietrologia” come lo è quella che
sospetta, tra le voragini e le toppe della versione ufficiale, come l’11
settembre possa aver a che fare qualcosa sia con la fragilissima posizione
di Bush dopo i brogli in Florida che lo elessero presidente, sia con la
necessità, per lanciare la famosa guerra globale e permanente e uno stato di
polizia all’interno, di un “grande evento traumatico che scuotesse
l’opinione pubblica statunitense” e le facesse metabolizzare mezzo trilione
di spese militari in cambio della morte della pace e dello svaporamento di
ogni sicurezza sociale. “Evento traumatico tipo Pearl Harbour” espressamente
auspicato nei documenti PNAC e, pubblicamente, da Condoleezza Rice.
Ubbie, naturalmente. Proprio come quelle di chi mette in discussione i tableau
gotici nei quali l’Occidente cristiano inserisce i leader suoi nemici, da Ho
Ci Min a Fidel, da Mao a Ben Bella, dal Saladino a Saddam.
Ciò che, però, resta tuttora difficile da accettare, nonostante i deprimenti
precedenti del “Milosevic dittatore” o di “Osama, autore dell’11 settembre”,
“Al Qa’ida, nemico globale degli USA”, è il totale allineamento della sinistra
tutta, politica e mediatica, a dispetto della ricchissima e inoppugnabile
pubblicistica inversa, soprattutto statunitense, dei paradigmi delle centrali di
disinformazione dei servizi occidentali. Una dimostrazione di subalternità
che, insieme a quello di un provincialismo prono alle potenze, anche
mediatiche, reca il segno della complicità oggettiva e di cui dovrebbero chiedere
conto sia le popolazioni aggredite e sterminate, sia i partigiani delle
nuove resistenze, sia coloro che avrebbero potuto e voluto, se informati,
offrire a costoro la propria solidarietà, simultaneamente avanzando sul cammino
della propria emancipazione.
Ricordo, da inviato speciale nella seconda guerra del Golfo nel 2003, le
grasse risate e i termini spregiativi che rispondevano, dagli schermi della
CNN e della BBC, ai resoconti del conflitto che faceva l’allora ministro dell’informazione
iracheno Mohammed Saeed al-Sahaf. Ma quando il buon
ministro smentiva la caduta di Umm Kasr, il porto sul Golfo, vantato otto
volte in otto giorni dai media embedded, era lui che aveva ragione. Quando
annunciava che l’arrivo delle truppe dell’invasione a Baghdad avrebbe coinciso
con l’inizio della loro sconfitta, era lui che aveva ragione e da ridicolizzare
erano piuttosto coloro che avallavano le sparate di un presidente travestito
da top gun, dichiaratosi vincitore il 1 maggio, quando già ci si avviava verso
il millesimo morto statunitense. Coerentemente il mio quotidiano, “Liberazione”,
spaventato dall’alterità delle mie corrispondenze rispetto a quanto
raccontavano “affidabili inviate” come Botteri o Gruber, pensò prudente
minimizzare i miei articoli dal fronte sotto forma di “lettere al direttore”…
Non stupisce, quindi, per quanto umili, se, a parte qualche spiraglio ne “il
manifesto” dell’ottimo Stefano Chiarini, rara avis, siano rimaste in Italia senza
obiezione, addirittura senza la più elementare verifica che ne avrebbe
rivelato il carattere menzognero e strumentale, autentici stereotipi della
criminalizzazione dell’avversario come “la dittatura sanguinaria di Saddam,
con il suo seguito grand guignol di fosse comuni, abitudini efferate del capo
e dei suoi famigliari; lo sterminio degli sciiti nella rivolta del Sud (protagonisti
terroristi iraniani); i militari iracheni che strappavano i neonati dalle incubatrici
in Kuweit (bufala raccontata da una finta infermiera, vera figlia dell’ambasciatore
in USA); lo “sterminio” dei comunisti (al governo con il Baath
fino al 1979 e, quando Mosca ordinò al suo partito in Iraq di schierarsi con
l’integralista Khomeini, messi davanti alla scelta tra esilio e ingresso nel Baath;
con 140 giustiziati per alto tradimento per aver combattuto al fianco del
nemico); la repressione dei curdi (destinatari nel 1975, per la prima volta
nella loro storia e in questo solo paese, di una piena autonomia, di
autogoverno e di partecipazione al governo centrale, ma ribellatisi per istigazione
di due feudatari, Talabani e Barzani, al soldo di Israele); e, crimine
massimo, il Saddam “gassatore delle proprie genti” nel villaggio curdo di
Halabja nel 1988 (strage dimostrata poi da testimoni oculari, come dai servizi
segreti anche occidentali, incidente bellico degli iraniani, mai rettificato
dalla stampa occidentale).
La più insidiosa di queste operazioni di diffamazione, tanto classiche da
poter essere individuate, volendo, a prima vista, è stata quella che aveva
come evidente destinatario l’opinione pubblica di sinistra o, quanto meno,
democratica. Quella che, in assenza di un’accusa tanto infamante, avrebbe
potuto offrire una ben più consapevole ed efficace opposizione alla guerra e
al genocidio degli iracheni. Una leggenda iniziata a circolare dopo l’inizio
del conflitto tra Iraq e Iran, quando, con Henry Kissinger autore della frase
“vogliamo che i due paesi, minacce a Israele, si dissanguino a vicenda”, si
volle far apparire Saddam come il vendicatore della sconfitta subita dagli
USA con la cacciata dello Shah e, soprattutto, l’occupazione dell’ambasciata
da parte dei Guardiani della Rivoluzione. Occupazione che umiliò e favorì
la sconfitta nelle presidenziali del moderato Carter a vantaggio dell’ultrà
Reagan. E a conforto di ciò si addusse una singola fotografia in cui l’allora
inviato di Reagan, Donald Rumsfeld, stringe la mano a Saddam Hussein.
Come se la stretta di mano a Parigi tra Le Duc To e Kissinger avesse avuto un
significato superiore al mero convenevole diplomatico. D’altronde nessuno
dette un peso altrettanto politico alle fotografie della distruzione di Osiraq,
centrale nucleare civile irachena, ad opera di pirati aerei israeliani che così
colpivano “l’uomo degli americani”.
L’Iraq sovrano ed antimperialista ha
avuto quel che ha avuto perché durante quasi mezzo secolo, più di ogni
altro paese arabo, ha sostenuto materialmente e politicamente la Resistenza
palestinese. Ricordo che due giorni prima dell’arrivo degli invasori a Baghdad,
il 9 aprile, vidi a Baghdad i mandati firmati da Saddam per il consueto pagamento
di 20.000 dollari a ciascuna delle famiglie di martiri palestinesi. Perché,
unico governo ad aver resistito su tale posizione, nazionalizzò i suoi
idrocarburi cacciando dal paese i monopolisti angloamericani. Perché non
si è mai fatto ricattare da offerte di consegne militari statunitensi (mai un’arma
pesante nordamericana ha raggiunto l’Iraq). Perché nel 1979, dopo la
resa di Sadat a Begin con l’accordo di Camp David, che abbandonava la
Palestina al suo destino, riuscì a costruire il Fronte del Rifiuto che raggruppa13
va non meno di 17 Stati arabi su 21 e impegnava tale fronte alla resistenza
contro Israele.
Perché aveva promosso un modello sociale, una distribuzione della ricchezza,
un’emancipazione delle donne, una sanità, un’istruzione, una dignità
e un’autostima che non avevano paragoni nella regione e oltre e che,
già per questo, rappresentavano un pericolo mortale per il progetto del Grande
Medioriente costruito nel segno del pensiero unico. Perché, infine, in tutti
quegli anni Baghdad era il centro di raccolta, progettualità, coordinamento,
organizzazione delle forze progressiste e antimperialiste dell’area e al di là
dell’area. Quanto al Saddam “armato dagli americani”, si pensi piuttosto
agli stanziamenti del Congresso USA a Teheran per tutta la durata dello scontro
Iraq-Iran, o ai piloti e agli armamenti israeliani offerti in aiuto all’Iran all’inizio
della guerra e con il cui ricavato una banda criminale poté, all’ombra di
Reagan, sostenere i contras contro il legittimo governo del Nicaragua.
Si deve dedurre da tutto questo che Saddam era un governante ineccepibile
e democratico ai sensi di quello che in Occidente, grazie a elezioni
neppure più tanto trasparenti, si opina essere democrazia? Certamente no.
Saddam ha governato in coalizione con altri partiti progressisti finché assedi
e conflittualità fomentate dall’esterno non hanno infranto questo pluralismo.
Poi l’Iraq è diventato uno Stato monopartitico e con un rigoroso controllo
sociale, matrice anche di repressioni e di vittime, ma non certo nella misura
di massa propalata in Occidente.
Del resto, come Cuba insegna e come mi
ripeté Uda Hammash, biologa e membro del Consiglio di Comando della
Rivoluzione, diffamata come “Dottoressa Antrace” per aver rivelato gli spaventosi
effetti dell’uranio USA, rimane assai difficile aprire porte e finestre di
un Paese, lasciare illimitate libertà individuali, quando un nemico mortale,
oltremisura cinico e possente, lavora incessantemente a infiltrarti, sovvertirti,
sabotarti, affamarti, ucciderti, mettendo così a rischio la prosperità e il futuro
dell’intero popolo. In quasi mille anni di dominio assoluto ottomano, gli
arabi hanno imparato a difendere spazi di autonomia e di identità mediante
la loro struttura tribale. Una struttura di cui il membro più autorevole, saggio,
valente era il capo riconosciuto. Altro, ieri e subito dopo, non datur. E
noi postrinascimento, postriforma, postilluminismo, postrivoluzione francese
e russa arriviamo lì, belli belli, e come il grillo parlante dall’alto della
parete nella bottega di Geppetto, esigiamo “democrazia!”. Quella di Bush e
Berlusconi, magari.
A tutto questo il lavoro di Valeria pone ampio rimedio. Anche se non si
pone l’obiettivo di rivalutare. La rivalutazione sta nella verità della sua accuratissima
ricostruzione storica. Una ricostruzione in parte a ritroso che, partendo
da quanto ai contemporanei è relativamente noto, i tre lustri delle
guerre, percorre la vita, le vicende di questo popolo e delle sue istituzioni
lungo un filo che, sorvolando a bassa quota la fase coloniale, successiva
all’estinzione dell’impero ottomano, via via ricostruisce una storia nazionale
nell’autenticità dei fatti, delle politiche e dei personaggi. Nulla viene trascurato
in questa ricostruzione se non, necessariamente visto lo scopo del
libro, il racconto dell’Iraq erede cosciente e non filologico di una civiltà
quadrimillenaria e di una rinascita culturale che, nel Terzo Mondo, ha per
parallelo solo quella della Cuba postrivoluzionaria. Potrà essere il tema per
un futuro impegno, di Valeria o di altri. Nel frattempo abbiamo abbastanza
da fare e da guadagnare seguendo Valeria nella sua traversata irachena delle
rivoluzioni, della costruzione nazionale, del petrolio, delle guerre e delle
alleanze, dei conflitti interni, dei complotti, delle menzogne e delle verità.
Per arrivare a quel riscatto che la più proterva delle operazioni di
mistificazione vorrebbe ora spacciarci come mero terrorismo, cercando di
confondere la Resistenza con le squadre della morte create dal noto John
Negroponte (di centroamericana sanguinaria memoria), chiamate al Qa’ida
e reclutate, oltreché tra i mercenari delle forze occupanti, tra i seguaci più
obnubilati della gerarchia sciita filo-iraniana a fini di guerra civile e di spartizione
del Paese.
Sembrerebbe incredibile, alla luce di un Paese che vanta una storia di
grande solidarietà con le forze della liberazione in tutto il mondo, ma è la
triste e anche turpe realtà: da oltre tre lustri l’Italia è intimamente legata al
destino di un paese che è un vero ombelico della geopolitica e della
geoeconomia mondiale. Da oltre tre lustri i suoi governi, le sue società e ora
anche suoi cittadini in armi sono direttamente – sanguinosamente, da quando
partecipammo ai bombardamenti del 1991 – coinvolti nelle vicende di
un popolo i cui antenati ci hanno dato il diritto, la scrittura, la ruota, la città,
la musica e i cui contemporanei hanno fornito al mondo degli sfruttati uno
degli esempi meno discutibili di liberazione e emancipazione. Da oltre tre
lustri la nostra informazione, di ogni segno, ripete superficiali, falsi e
criminogeni stereotipi su quel Paese, su quel popolo. Per il resto lo annega
nel silenzio. La nostra opinione pubblica, da oltre tre lustri, si vede negare la
verità. A quel popolo sono stati negati la nostra conoscenza, il nostro rispetto.
Eppure il nostro futuro ne dipende in una misura che nessun sa immaginare.
Ora Valeria Poletti ha posto, per prima in Italia, rimedio a tutto questo.
E credo che vada anche ricordata una presenza in rete che le è stata di
prezioso ausilio e che, seppure vox clamantis in deserto, con i suoi precisi
resoconti e commenti sull’Iraq di oggi, è in grado di gettare enormi fasci di
luce nel buio: www.uruknet.info . L’opera di Valeria è il rompighiaccio dell’informazione
giusta. Un giorno, quando l’Iraq avrà sicuramente vinto, meriterà
un’insegna a Baghdad, in piazza Al Tahrir. Il “Cavalierato della Repubblica”
lo lasciamo ad altre.
Fulvio Grimaldi è stato corrispondente di guerra per varie testate e giornalista RAI.
Fonte: http://www.uruknet.info
Link: http://www.uruknet.info/?p=s5747&l=e&size=1&hd=0
25.04.06