UN ESAME DELLE MOTIVAZIONI
IDEOLOGICHE, POLITICHE E STRATEGICHE
DI AMAL SAAD GHORAYEB
FONTE: Io Non Sto
Con Oriana
Le relazioni dell’Iran con i movimenti
di resistenza in Palestina ed in Libano non possono essere viste nella
stessa ottica con cui si osservano le relazioni iraniane con gli altri
attori arabi, statali o non statali che siano. Questa distinzione è
dovuta all’asse di resistenza che unisce la Repubblica Islamica dell’Iran
a Hezbollah e ad Hamas, oltre che alla Siria; è dovuta anche e soprattutto
alla centralità della causa palestinese, che sostiene questa alleanza
strategica e determina i parametri della politica estera iraniana nel
suo complesso.
Per raggiungere una più significativa
comprensione dei rapporti che l’Iran ha con il mondo arabo, è interessante
esaminare la natura e gli scopi del suo impegno nei confronti della
causa palestinese usando le seguenti variabili causali: ideologia, sicurezza
nazionale, interessi strategici e “sicurezza ontologica”, ovvero
sicurezza della propria identità. A loro volta queste variabili sono
condizionate da determinanti storiche, religiose, culturali e politiche,
che hanno conferito un’aura sacrale alla repulsione della Repubblica
Islamica per Israele ed alla causa palestinese, intese come costanti
ideologiche e strategiche. Dal momento che la causa palestinese e, per
estensione, l’ostilità nei confronti di Israele rappresentano l’essenza
della stretta relazione che esiste tra la Repubblica Islamica e Hezbollah,
che sarà discussa nell’ultima parte di questo scritto, le variabili
su ricordate spiegano anche i forti legami che esistono tra l’Iran
ed il movimento di resistenza libanese.
Le radici ideologiche
dell’attenzione iraniana per la causa palestinese
Origini storiche
Recentemente, il presidente Mahmoud
Ahmadinejad ha dipinto la causa palestinese come “la più importante
del nostro tempo, e la più grande ingiustizia della storia” [1];
se ne deduce l’assoluta centralità. Questo modo di sentire era già
stato fatto proprio in precedenza, nello stesso anno, dall’ayatollah
Akbar Hashemi Rafsanjani -generalmente considerato un protettore, se
non proprio l’ideatore, dell’opposizione riformista incarnata dal
Movimento Verde- in un suo incontro con il leader della jihad islamica
palestinese Ramadan Abdullah Mohammed Shallah, in cui la Palestina venne
definita come “la principale preoccupazione dell’Iran” [2].
Ancora più significativo della più o meno sincera affermazione di
Rafsanjani è il fatto che anche i cosiddetti pragmatisti e moderati
come lui, in materia di politica estera sentono ancora la necessità
di rendere omaggio alla Palestina e di evidenziare il fatto che essa
ha un’importanza fondamentale nel discorso politico iraniano, nel
solco della tradizione khomeinista. Nonostante esistano molte differenze
politiche tra i due principali schieramenti, entrambi avanzano pretese
sul Khatt al Imam, il sentiero dell’Imam Khomeini, e sui principi
di politica estera che egli enucleò; il primo di essi è rappresentato
dalla demonizzazione dello stato di Israele e da un pari rispetto portato
verso la Palestina.
Almeno quindici anni prima dello scoppio
della Rivoluzione Islamica, inaugurando la sua campagna rivoluzionaria
nel pieno degli anni Sessanta, Khomeini aveva posto la questione palestinese
al centro delle sue preoccupazioni. Prima, durante e dopo la rivoluzione
la Guida Suprema, l’ayatollah Seyyed Ali Khamenei si è mosso sulle
orme dell’Imam assegnando alla Palestina, in una sorta di leitmotiv
della sua retorica, lo status indiscusso di problema più importante
per tutto il mondo islamico [3], e facendo riferimento ad esso con maggior
frequenza rispetto a qualsiasi altra questione nel corso di una storia
di produzioni retoriche lunga oltre due decenni [4].
Dopo la guerra di Gaza nel gennaio 2009, la Guida Suprema fece cenno
alla nazione palestinese come ad una che “merita veramente di essere
indicata come quella che più rovesci ha sopportato nel corso della
sua storia” [5]. L’attuale Guida Suprema dell’Iran utilizza
inoltre la questione palestinese come metro per misurare l’impegno
di qualcuno nei confronti della “libertà e dei diritti umani”:
una cartina di tornasole per il presidente Obama e per il suo slogan
che inneggia al “cambiamento”, che apparentemente non ha portato
secondo Khamenei ai risultati sperati, dato che l’amministrazione
americana continua a “mentire spudoratamente sulla questione palestinese
ed anche su altre” [6].
L’istituzionalizzazione di queste
posizioni su Israele e Palestina, intesi come pilastri della politica
estera iraniana, può essere fatta risalire alla storia contemporanea
dell’Iran, che è stata segnata dal retaggio della dominazione straniera
rappresentata dagli Stati Uniti e da Israele, fermi sostenitori del
tirannico regime dello shah Pahlavi. Decenni prima dello scoppio della
rivoluzione, Khomeini ed altri ulema si erano opposti con determinazione
alle strette relazioni che lo shah intratteneva con Israele. Tra le
ragioni di questa opposizione c’era anche il modo in cui Pahlavi aveva
trasformato l’economia iraniana facendola diventare un mercato per
grandi quantità di beni importati da Israele, intanto che aumentavano
le esportazioni di greggio verso Israele per soddisfarne le richieste [7].
Il dissenso venne spazzato via dal famoso apparato repressivo della
Savak, che era stato fondato e sostenuto da CIA e Mossad, fino allo
scoppio della rivoluzione [8], cosa che spinse Khomeini a chiedersi una
volta se “lo Shah non fosse un israeliano” [9].
Accuse come questa, rivolte contro
la dipendenza dello “shah traditore” dagli Stati Uniti e
da Israele, finirono per costare l’arresto a Khomeini il 3 giugno
1963; a sua volta questo causò un’insurrezione popolare di protesta
nota come “Movimento del 15 khordad” che culminò finalmente
nella Rivoluzione Islamica dell’Iran quindici anni dopo.
Le radici della Rivoluzione Islamica
vanno cercate in effetti nella reazione all’egemonia statunitense
e all’infiltrazione di Israele nell’economia e nel sistema di sicurezza
iraniano. La rivoluzione fu dunque al tempo stesso una rivolta contro
la monarchia ed una guerra di liberazione contro l’imperialismo statunitense
e contro la pesante intromissione israeliana; lo slogan che ne riassumeva
gli obiettivi era “Indipendenza,libertà, Repubblica Islamica” (Esteqlāl,
āzādī, jomhūrī-ye eslāmī).
Parallelamente all’esortazione di
Khomeini a liberare l’Iran dall’imperialismo, avanzava la sua esortazione
a liberare la Palestina dal regime sionista; entrambi erano riassunti
dallo slogan “Oggi l’Iran, domani la Palestina” [10].
Per arrivare a questo, nell’ottobre 1968 Khomeini emise una fatwa
religiosa in cui si stabiliva l’obbligo per i credenti a destinare
una parte del khoms (la tassa destinata a fini religiosi) perché
servisse ad aiutare i combattenti palestinesi. La fatwa era a suo modo
priva di precedenti, dal momento che i beneficiari palestinesi del khoms
appartenevano all’OLP, un’organizzazione laica e non sciita.
Una volta raggiunto il potere, uno
dei primi atti del governo rivoluzionario fu la chiusura dell’ambasciata
israeliana e la sua sostituzione con la prima ambasciata palestinese
in tutto il Medio Oriente. Lo stesso anno, Khomeini dichiarò l’ultimo
venerdì del mese di Ramadan “giornata di Al Quds” [11]
(“giornata di Gerusalemme”) intendendo con questo fare atto di “solidarietà
internazionale dei musulmani a sostegno dei legittimi diritti del popolo
musulmano della Palestina”; la giornata era intesa anche come “giornata
dei deboli e degli oppressi dall’arroganza delle potenze” [12].
Si propugnava il sostegno per la Palestina sia sul piano morale che
su quello religioso, secondo la dicotomia utilizzata da Khomeini dei
mustakbirim (oppressori) contro i mustad’afin (oppressi):
“Noi stiamo sempre e comunque dalla parte degli oppressi. I palestinesi
sono oppressi dagli israeliani, e dunque non ci schieriamo a loro fianco” [13].
Allo stesso modo, il concomitante rifiuto
di riconoscere ad Israele il diritto ad esistere è anch’esso
connotato da argomentazioni laiche e morali in merito al diritto dell’autodeterminazione
nazionale. Lo stato ebraico viene considerato uno stato illegittimo,
fondato a spese dei diritti di un altro popolo che sono stati usurpati.
Di qui l’aggiunta frequente dell’epiteto usurpatore nel caso si
nomini Israele. Al popolo palestinese andava dunque il pieno titolo,
e perfino l’obbligo, di recuperare tutta la Palestina storica perché
Khomeini non vedeva “alcuna differenza tra i territori del 1948 e
quelli del 1967”, dal momento che “l’intera Palestina era diventata
territorio di saccheggio”. In accordo con queste affermazioni Khomeini
ed altri che hanno seguito il suo sentiero hanno respinto ogni forma
di negoziazione per la pace con Israele, considerandole tutte illegali
dal punto di vista religioso. “Avere rapporti con Israele o con i
suoi agenti, politici o commerciali che siano, è proibito ed è contrario
all’Islam” [14]. Ali Akbar Mohtashemi, un religioso riformista
di primo piano (è stato anche un sostenitore del “movimento verde”)
ha dato eco a questa proibizione di tipo religioso quando ha affermato
che “prendere parte alla conferenza [di pace] di Annapolis è illegale
dal punto di vista religioso” [15].
Il fatto che si sia espresso in questi
termini significa che la questione palestinese per Khomeini non era
semplicemente una questione nazionale dalla portata che si limitava
al popolo palestinese, ma una questione che riguardava tutti i musulmani,
in quanto Gerusalemme era stata la loro “prima qibla” e dunque
“apparteneva a loro” [16]. Da questo derivava il fatto che ogni musulmano
aveva l’obbligo religioso e morale di “armarsi contro Israele” [17]
e di liberare Gerusalemme. Nella sua condizione di corpo alieno “impiantato
nel cuore del mondo islamico” dagli “oppressori” rappresentati
dalle superpotenze [18], Israele costituiva una minaccia all’esistenza
non soltanto di Gerusalemme e della Palestina, ma di tutto il mondo
arabo ed islamico. Questo “cancro”, questa “ghiandola infetta”
o, a volte, questo “virus”, secondo gli sprezzanti epiteti di Khomeini,
era un nemico “delle stesse basi dell’Islam” e “dell’umanità”.
Sul piano morale e su quello religioso veniva quindi fatto bersaglio
di anatemi: “il nucleo centrale del male”, il “fòmite della corruzione”.
Queste demonizzazioni ancora risuonano nella comunicazione politica
iraniana, assieme a riferimenti che definiscono Israele, in termini
religiosi “piccolo Satana”, “bandiera di Satana” e “incarnazione
di Satana”.
La distruzione del regime sionista
e la liberazione della Palestina
Data la propensione ad anatemizzare
Israele e la centralità della liberazione di Gerusalemme nella
politica dottrina dell’Iran, come logica precondizione del raggiungimento
dei suoi obiettivi la distruzione di Israele come stato sovrano è il
principale assunto dell’atteggiamento della Repubblica Islamica nei
confronti di esso. Negli ultimi anni questo concetto ha attirato molta
attenzione da parte dei mass media e del mondo politico, grazie all’estremamente
controverso recupero dello slogan compiuto da Ahmadinejad. La reazione
furibonda a livello internazionale che seguì al suo famigerato discorso
dell’ottobre 2005, tenuto nel contesto di una conferenza intitolata
“un mondo senza sionismo” e nel corso del quale Ahmadinejad avrebbe
auspicato che Israele venisse “spazzato via dalla carta geografica”
accese anche una sorta di controversia semantica sulla frase qui riportata [19].
Ad un esame più accurato, è chiaro che non è il popolo ebraico che
la Repubblica Islamica aspira a sradicare, quanto il regime sionista
che lo governa. Se contestualizzato, il discorso di Ahmadinejad rivela
che la sua era un’esortazione a sradicare “il regime sionista che
occupa Gerusalemme” posta in relazione al fatto che altri regimi apparentemente
invincibile hanno finito per crollare, come quello dello Shah, quello
di Saddam Hussein o la stesa Unione Sovietica. Il discorso si limitava
a predire il fatto che il regime d’Israele sarebbe andato incontro
allo stesso destino. Per questo personalità iraniane come il ministro
degli esteri Mottaki e il consulente di Khamenei per gli affari politici
e di sicurezza Ruhullah Husseinian hanno sottolineato entrambe che il
Presidente stava invocando un regime change in Israele piuttosto che
il genocidio dei suoi abitanti ebrei. Ahmadinejad lo ha esplicitamente
ammesso nel giugno 2007, quando chiese “Perché agli Stati Uniti è
permesso invocare un cambiamento del regime in Iran, mentre ai nostri
leader è proibito invocare la fine del regime sionista” [20]?
Forse la più elaborata e lucida
delucidazione ufficiale sulle intenzioni iraniane nel confronto con
Israele si trova in un discorso che Khamenei pronunciò nel novembre
2005, presentando l’argomentazione che segue. “Abbiamo un logico
e fondato interesse alla questione palestinese. Vari decenni fa lo statista
egiziano Gamal Abdel Nasser… affermò nei suoi slogan che gli egiziani
avrebbero ricacciato in mare gli usurpatori ebrei della Palestina. Alcuni
anni dopo Saddam Hussein… disse che avrebbe messo a ferro e fuoco
mezza Palestina. Ma noi non approviamo nessuna delle due cose. Noi crediamo,
secondo i nostri principi islamici, che né ricacciare gli ebrei in
mare né mettere la Palestina a ferro e fuoco siano cose logiche o ragionevoli” [21].
La proposta alternativa di Khamenei,
sostenuta da altre personalità iraniane Ahmadinejad compreso,
era quella di sradicare il regime sionista con i mezzi della diplomazia:
la sua abrogazione tramite referendum. L’idea di Khamenei era di tenere
un referendum “tra tutti i nativi palestinesi, musulmani, ebrei e
cristiani” per decidere che tipo di governo volessero [22].
L’uso del vocabolo nativi rende chiaro che gli ebrei israeliani rimarrebbero
fuori dal conto, cosa che si deduce anche dalla proposta dello stesso
Khamenei secondo cui il governo “avrebbe deciso in merito al destino
di coloro che sono immigrati in Palestina da altre parti del mondo” [23].
Siccome le parti coinvolte in questo contratto sociale sarebbero state
quella degli abitanti originali della Palestina storica e quelli della
diaspora palestinese, l’Iran avrebbe considerato “accettabile”
qualunque governo essi avrebbero deciso, che fosse “un governo musulmano,
cristiano, ebraico o di coalizione” [24].
In caso di fallimento di questa “soluzione”,
resistere ad Israele era l’unico altro accettabile mezzo tramite il
quale i palestinesi potevano riavere la loro terra e ripristinare la
Palestina storica. Dal momento che era per lo meno improbabile che Israele
accettasse il referendum proposto da Khamenei, la resistenza armata
diventava l’unica alternativa praticabile per la tutela dei diritti
dei palestinesi. Come dichiarato da Ahmadinejad, “non c’è dubbio
che la nuova ondata in Palestina spazzerà presto via questa disgraziata
macchia dalla faccia del mondo islamico” [25].
Dal punto di vista iraniano, l’obbligo
di liberare la Palestina tocca in primo luogo ai gruppi della resistenza
palestinese. Mancando una campagna concertata per la liberazione di
Gerusalemme da parte degli arabi, la strategia iraniana per contrastare
il regime sionista resta limitata alla fornitura di sostegno politico,
finanziario ed economico agli alleati in Palestina oltre che a Hezbollah.
L’Iran e la
guerra a Gaza
Alcune voci nel mondo arabo e non solo
hanno criticato l’Iran per non essere riuscito a tradurre la propria
retorica sulla Palestina in azioni concrete nel corso dell’invasione
di Gaza da parte di Israele nel 2009; simili accuse non considerano
l’asprezza dei toni con cui l’Iran si è rivolto ai governi arabi
sia durante che dopo il conflitto. Teheran ha minato quelle relazioni
così faticosamente ristabilite con i governi arabi tornando ad una
retorica incendiaria che ricorda quella degli ultimi anni Ottanta, quando
l’Iran stava “esportando la rivoluzione” nei paesi arabi vicini.
L’Iran ha danneggiato in questo modo un paio di decenni di riavvicinamenti
diplomatici iniziati dall’ex presidente Rafsanjani e continuati dal
presidente Ahmadinejad, il cui coinvolgimento nel mondo arabo aveva
lo scopo di contrastare la campagna intrapresa dall’amministrazione
Bush, volta a spronare contro l’Iran gli alleati arabi “moderati”
e a soffiare sul fuoco delle tensioni tra sunniti e sciiti. Le barricate
verbali e scritte erette dalla leadership iraniana contro i governi
arabi va considerata in questa ottica.
Ad ogni modo, considerato lo sfacciato
sostegno fornito da governi arabi, in particolare da quello egiziano,
all’avventura bellica israeliana a Gaza, per non parlare del fatto
che il regime di Mubarak era al corrente dell’invasione prima che
essa si verificasse, che adesso è ufficialmente confermato dai documenti
forniti da Wikileaks [26], il concetto che il pubblico ha della posizione
degli arabi è passato da quello di “complicità” e di sotterranea
“collaborazione” con Israele dei tempi della guerra nel luglio 2006
a quello di “cooperazione” e “partenariato” con lo stato sionista
nel contesto della sua guerra contro Gaza. A fronte di un tradimento
flagrante come questo, l’Iran non poteva più attenersi ad una politica
di basso profilo a petto dei suoi interlocutori arabi. Bollandoli come
“arabi traditori” [27], Khamenei deplorò il “silenzio assenso” [28]
degli stati arabi moderati, mentre Ahmadinejad attribuiva loro con cinismo
“sorrisi di soddisfazione” [29] a fronte del “genocidio senza precedenti”,
affermando che “essi stavano con il nemico, condividendone tutti gli
obiettivi” [30].
Con una mossa priva di precedenti dall’inizio
dei suoi disaccordi con il mondo arabo, l’Iran ha indicato nell’Egitto
un bersaglio non soltanto a causa delle sue responsabilità nell’assedio
di Gaza, ma anche a causa del suo “pubblico sostegno” ad Israele
così come lo ha descritto il giornale israeliano Haaretz [31].
Allontanandosi con decisione dall’abituale modo diplomatico che usa
per esprimersi, l’ex ministro degli esteri iraniano Manouchehr Mottaki
ha denunciato i “traditori della causa palestinese, che pochi giorni
prima dell’attacco hanno riferito ai palestinesi che la situazione
era tranquilla” [32] in un poco velato riferimento al regime di
Mubarak, ed il falso senso di sicurezza che questo aveva infuso tra
le file di Hamas prima dell’attacco israeliano. Anche se incolpabile
con meno evidenza rispetto al governo egiziano, neppure la monarchia
saudita sfugge all’esecrazione iraniana, come si evince dalla lettera
scritta da Ahmadinejad al re saudita Abdallah bin Abdul Aziz in cui
si faceva pressione perché “rompesse il suo silenzio” sul “massacro
che stava avendo luogo a Gaza, e prendesse una posizione chiara sull’assassinio
dei suoi figli, che sono cari all’intera comunità dei credenti” [33].
Nell’elargire reprimende ai governi
arabi per il loro tradimento della causa palestinese e facendo assumere
gli stessi toni alle sue relazioni con essi, la Repubblica Islamica
dell’Iran è andata rafforzando il proprio ruolo di difensore dei
diritti dei palestinesi, assumendo parimenti quello di “paese più
attivo nel sostegno al terrorismo” secondo la lista dei “paesi che
sostengono il terrorismo” [34] redatta dal Dipartimento di Stato americano,
della quale l’Iran fa parte dal 1984. Come rivelato dai Country
Reports on Terrorism del 2009 curati dal Dipartimento di Stato,
“L’Iran è rimasto il principale sostenitore dei gruppi che si oppongono
in modo implacabile al processo di pace in Medio Oriente”, ovverosia
Hamas, altri gruppi palestinesi e Hezbollah, ai quali l’Iran ha continuato
a fornire “sostegno logistico, finanziario e materiale” [35].
Considerato nel contesto storico delle attività sovversive statunitensi
in Iran, recentemente portate all’evidenza dai disordini seguiti alle
elezioni del 2009 istigate in gran parte da una trama israeliano-statunitense,
gli stretti legami della Repubblica Islamica con i movimenti di resistenza
e con le organizzazione che respingono il cosiddetto “processo di
pace” la rendono vulnerabile alle macchinazioni di Washington e di
Tel Aviv [36]. La proposta di un “grande patto” avanzata
da due esponenti degli ambienti liberali di Washington, Flynt Leveret
e Hillary Mann Leverett, costituisce un’ulteriore dimostrazione del
fatto che il sostegno alla causa palestinese minaccia la sicurezza nazionale
dell’Iran. Come evidenziato dagli autori di questa proposta, Teheran
accetterebbe di abbandonare il proprio impegno a favore dei palestinesi
ed il suo sostegno per i movimenti di resistenza in Palestina, oltre
che quello per Hezbollah, e che farebbe anche ulteriori concessioni
se gli Stati Uniti interrompessero i loro tentativi di provocare un
regime change [37].
La sicurezza nazionale e gli
interessi strategici come fattori determinanti del sostegno iraniano
alla Palestina
L’impegno iraniano per la causa palestinese
non costituisce solo una minaccia per la sua stabilità politica, ma
compromette anche i suoi interessi strategici. Nonostante l’ossessione
statunitense per il programma nucleare iraniano e l’inefficace tentativo
di mettervi un freno tramite l’imposizione di sanzioni, è più che
probabile che Washington chiuderebbe un occhio sul programma iraniano
per gli armamenti nucleari, o addirittura contribuirebbe ad esso come
ha fatto con i suoi alleati (Germania, Belgio, Canada, Grecia, Italia,
Olanda e Turchia) nel contesto della politica di condivisione delle
armi nucleari all’interno della NATO, se Teheran cessasse di sostenere
i movimenti di resistenza in Palestina e in Libano. Questa inferenza
è legittimata dalla continua associazione che l’amministrazione Bush
ha fatto tra il presunto piano iraniano per la realizzazione di armi
di distruzione di massa e l’alleanza dell’Iran con “gruppi terroristi”.
Nello stesso ordine di idee l’allora consigliere per la sicurezza
nazionale Condoleezza Rice, che affermò: “Il sostegno diretto che
l’Iran fornisce al terrorismo regionale e planetario, nonché i suoi
aggressivi sforzi di sviluppare armamenti di distruzione di massa smentiscono
ogni buona intenzione che l’Iran ha mostrato nei giorni successivi
al peggior attacco terroristico della storia” [38].
Il problema fondamentale di Washington, dunque, non è l’asserito
intento dell’Iran di sviluppare delle armi nucleari, quanto il fatto
che a svilupparle sia uno stato alleato della resistenza palestinese.
Nonostante il coinvolgimento iraniano
nella causa della liberazione della Palestina storica lo esponga nel
medio termine a minacce alla sua sicurezza provenienti dall’esterno
(così come ad intromissioni estere che fomentano i rischi contro la
sicurezza interna), e danneggi nel breve termine alcuni dei suoi interessi
strategici, il rispetto dei principi ideologici della Repubblica Islamica
ha permesso all’Iran di conseguire nel lungo termine ottimi risultati
in entrambi i campi. In primo luogo, la lunga storia di intromissioni
israeliane negli affari interni del paese, che risale all’epoca precedente
la Rivoluzione Iraniana, lascia figurare Israele come una minaccia permanente
per l’indipendenza dell’Iran e, per esteso, anche per la sua stabilità
politica.
Una conferma di questa conclusione
è data dall’asserzione di Mohtashemi secondo cui la liberazione
della Palestina è necessaria per la salvaguardia del sistema politico
iraniano: “Ovviamente se la nazione palestinese tornasse in possesso
dei propri legittimi diritti, anche la minacce contro la Repubblica
Islamica dell’Iran, che provengono dall’estero, risulterebbero sensibilmente
ridotte” [39]. Ahmad Khatami, che appartiene al Consiglio
degli Esperti che affianca l’opera della Guida Suprema, gli fa eco;
nel pieno dell’aggressione israeliana al Libano del 2006 Khatami affermò:
“Oggi difendiamo Hezbollah. Hezbollah, infatti, sta difendendo la
nostra stessa sicurezza” [40]. La stessa cosa traspare dalla dichiarazione
di Velatati secondo cui “Israele non sarà in grado di avere campo
libero nella regione fino a quando lo Hezbollah libanese continuerà
ad esistere” [41].
In secondo luogo, un “do ut des”
con gli americani a proposito della Palestina non è considerato dagli
iraniani come qualcosa che possa garantire la salvaguardia della sicurezza
nazionale contro le sollevazioni interne, o che possa garantire loro
di poter raggiungere senza ostacoli i propri obiettivi strategici. I
principi ideologici della sovranità, dell’indipendenza, dell’autosufficienza
e della dignità non sono dei valori astratti ma delle necessità strategiche
che risultano dall’esperienza storica iraniana in materia di dominazione
straniera. La caduta del regime dello Shah, che era sostenuto da Israele
e dagli Stati Uniti, ha insegnato agli iraniani che le politiche di
dipendenza messe in pratica dall’Iran prerivoluzionario erano il mezzo
più sicuro per rimanere deboli dal punto di vista strategico e per
arrivare al collasso del paese. Una percepita perdita di dignità nazionale
e di sovranità metterebbe oggi in questione la credibilità rivoluzionaria
ed islamica del sistema e la sua capacità di tutelare gli interessi
nazionali, portando quindi ad una destabilizzazione.
Questo ragionamento logico viene formulato
da Mottaki, in un appello rivolto ai paesi arabi e musulmani affinché
sostengano la causa palestinese intesa come mezzo utile per la loro
stessa sicurezza nazionale: “adoperarsi per la Palestina non è una
spesa, ma un investimento per la sicurezza dei nostri paesi” [42].
Durante la guerra a Gaza, Khamenei condensò la sua opinione sul come
un più approfondito impegno per la causa palestinese potrebbe rafforzare
la sicurezza nazionale dei paesi arabi in un silenzio monito rivolto
ai governi che non avevano sostenuto la resistenza palestinese, che
sarebbero finiti pur senza volerlo a soffrire di una destabilizzazione
provocata dal dissenso interno [43], dal momento che “le loro popolazioni si
sono ‘risvegliate’ e pretendono adesso più sostegno per la Palestina” [44].
In considerazione di questi avvertimenti,
l’Iran ritiene la prospettiva di un “Grande Patto” sulla Palestina
come foriera di un destino simile a quello condiviso dagli alleati arabi
degli Stati Uniti, che ben difficilmente possono rappresentare una storia
di successo per quanto riguarda il campo dell’emulazione della Repubblica
Islamica. Secondo Teheran gli Stati Uniti utilizzano l’assistenza
militare e politica che offrono a questi governi come uno strumento
per ottenere concessioni politiche che legano mani e piedi quei paesi
agli USA. Inoltre, il fatto di aver tradito la Palestina e quello di
dipendere dagli Stati Uniti per la stabilità del loro fronte interno
fanno sì che in Iran si considerino gli stati arabi come paesi che
hanno perso la loro sovranità nazionale, la loro indipendenza ed il
peso politico che avevano nella regione, per non parlare della loro
legittimità popolare.
Da questo punto di vista il sostegno
alla causa palestinese si è rivelato fino ad oggi un vantaggio
strategico per l’Iran, consentendogli di esportare la propria cultura
politica basata sulla liberazione della regione dalle influenze straniere;
questo, a sua volta, ha contribuito a rafforzare l’Iran come potenza
regionale. Il Presidente della Majilis spiega in modo stringato che
“L’Iran è potente nella regione, e gode di una vasta popolarità,
perché difende l’indipendenza dei vari paesi e si oppone al predominio
statunitense” [45]. Viene citata anche un’affermazione del
comandante in capo delle forze armate, Seyyed Hassan Firuzabadi secondo
la quale sostenere i palestinesi è nell’interesse strategico e nell’interesse
nazionale iraniano, come modo per assicurare al regime un più forte
sostegno in tutto il mondo musulmano e per garantire all’Iran un ruolo
eminente negli affari regionali [46].
In Iran si è convinti che conservando
la propria indipendenza rispetto all’Occidente il paese rimarrà poco
ricattabile in qualunque campo, cosa che invece colpisce gli alleati
degli Stati Uniti nella regione. Alla luce della loro dipendenza da
Washington, i politici arabi moderati sono stati costretti ad abbandonare
la causa palestinese, indebolendo così la legittimità popolare verso
i loro sistemi politici, in cambio della sicurezza del loro governo
che va intesa come contrapposta alla sicurezza nazionale e che in ultima
analisi deve la sua stessa sopravvivenza alle misure repressive messe
in atto apposta per garantirla.
La Repubblica Islamica dell’Iran
considera quindi la sua politica estera come un paradigma di quella
che i governi arabi dovrebbero seguire. In contrasto con la logica del
realismo adottata dagli emuli dell’ex presidente egiziano Hosni Mubarak,
secondo cui la resistenza non aveva retto ad una prova del nove fatta
coi parametri di costo e beneficio [47], l’Iran intende dimostrare che ideologia
ed interesse nazionale non sono cose che si escludono a vicenda, se
il perseguimento di una non va a detrimento dell’altra. Nella formulazione
epistemologica della Repubblica Islamica, principi e valori politici
possono essere riconciliati con gli interessi strategici e possono anche
rafforzarsi a vicenda. In base alla stessa considerazione la coerenza
dell’identità politica della Repubblica Islamica può coincidere
con la sua sicurezza nazionale ed esserne al tempo stesso un elemento
costituente.
La sicurezza ontologica
Questa è la ragione per cui la
Repubblica Islamica rifiuterà con ogni probabilità non soltanto
i contenuti, ma la logica stessa che sta alla base del “Grande Patto”
proposto da Leverett, nel caso la proposta venisse fatta propria in
via ufficiale dall’amministrazione Obama. La raccomandazione fatta
da Leverett ai responsabili della politica statunitense, che dovrebbero
mostrare chiaramente che il loro intendimento non è quello di “cercare
di cambiare la natura del regime iraniano, ma di cambiare invece le
politiche che Washington considera fonte di problemi” si contraddice
da sola, ed appare riduttiva perché ignora il fatto che la vera natura
del sistema politico iraniano non si basa soltanto sulla teologia islamica
sciita e sulla sua liturgia, ma è formata nella sua essenza dalle sue
linee politiche, soprattutto da quelle considerate sgradite negli Stati
Uniti. Di fatto le politiche che Washington vorrebbe cambiare comprendono
una parte essenziale dell’autopercezione dell’Iran in quanto stato
islamico. La proposta di Leverett identifica, erroneamente, le politiche
di sicurezza nazionale iraniane con la sicurezza fisica del sistema
intesa come una sua mera sopravvivenza in quanto entità istituzionale,
e non con la sicurezza identitaria del regime, con il fatto che esso
rappresenta un “agente di tipo del tutto peculiare” [48],
con la sua “sicurezza ontologica” [49]. Pretendendo un cambiamento di rotta da parte
dell’Iran ma assicurando al tempo stesso la volontà di mantenerne
inalterata la forma islamica del governo, Washington minaccia la sicurezza
ontologica dell’Iran di rappresentare un tipo sui generis di agente
politico islamico.
La Repubblica Islamica deriva la propria
identità politica e religiosa dell’interpretazione dell’Islam
fornita da Khomeini, che concepisce l’Islam come “la religione di
individui dediti alla militanza, che intendono impegnarsi per la verità
e la giustizia. L’Islam è la religione di coloro che desiderano la
libertà e l’indipendenza. L’Islam è la scuola di coloro che lottano
contro l’imperialismo” [50]. La concezione dell’Imam si erge in assoluta
contraddizione con la “versione difettosa” ed apolitica promossa
dai “servi dell’imperialismo”, che priva l’Islam del suo intrinseco
potenziale “rivoluzionario” riducendolo ad una religione dotata
di “qualche principio etico” e “priva di alcunché da dire sulla
vita umana in generale e su come dovrebbe essere ordinata la società” [51],
togliendo così ai suoi aderenti la possibilità di raggiungere “la
libertà” [52].
Dal momento che il cambiamento di rotta
che gli USA vogliono implicherebbe l’abbandono da parte dell’Iran
della lotta contro l’imperialismo e l’ingiustizia, andrebbe contro
la sua indipendenza e la sua libertà come stato ed implicherebbe la
fine del sostegno a movimenti di resistenza che difendono i diritti
degli oppressi, un’adesione autentica alle richieste poste provocherebbe
la concreta trasformazione della natura del sistema politico, che da
autenticamente islamico secondo i criteri di Khomeini assumerebbe le
vesti di un Islam zoppicante e dunque distorto. L’essenza del sistema
politico e le politiche da esso seguite sono più sinonimi che categorie
mutualmente escludentesi: ogni cambiamento nei fondamenti della politica
estera iraniana renderebbe “non islamico” il sistema politico. Cosa
più importante, ogni mutamento fondamentale negli obiettivi della politica
estera dell’Iran, in mancanza di un corrispondente cambiamento nelle
politiche mediorientali degli Stati Uniti, significherebbe essenzialmente
che lo stato iraniano ha stravolto i propri principi fondanti, minato
la propria identità e di conseguenza se stesso. Se l’Iran diventasse
uno degli alleati moderati dell’America nella regione, la Rivoluzione
Islamica perderebbe ogni significato e la Repubblica Islamica verrebbe
meno alle ragioni della sua stessa esistenza, ritornando all’identità
prerivoluzionaria che le era propria ai tempi dello Shah.
Dal momento che agiscono sul piano
sociale, gli stati sovrani sono minacciati dalla prospettiva della “insicurezza”
quando il loro comportamento si scontra con le aspettative associate
alla definizione che di se stessi forniscono come peculiare tipo di
attore [53]. Queste aspettative derivano da routine consolidate
e dai ruoli interpretati contro gli altri partecipanti all’agone internazionale,
tramite i quali “gli attori giungono a sapere chi sono ed in che modo
possono comportarsi” [54]. Gli stati adottano in modo più o meno stabile
i comportamenti tipici del loro ruolo nel determinare le identità,
che a loro volta conformano le preferenze e gli interessi degli attori,
permettendo agli attori stessi di mettere in pratica la loro preziosa
consapevolezza nell’agire per “compiere delle scelte” [55].
Nonostante molte delle politiche seguite dagli stati conducano a risultati
che minacciano la loro sicurezza sul piano fisico, la questione ha un’importanza
secondaria rispetto alla stabilità percepita dell’identità che essi
si sono costruiti, e della corrispondente consapevolezza nell’agire.
Uno stato sovrano può così adottare in modo abituale pattern comportamentali
conflittuali e pericolosi al pari di altri più sicuri. Allo stesso
modo la sicurezza ontologica è “perfettamente compatibile con l’insicurezza
sul piano meramente fisico” [56], come indicano la politica estera dell’Iran
e le istanze cui esso resta fedele.
La rivoluzione fu in parte guidata
dalla lotta per la libertà e l’indipendenza nazionale; la stessa
esistenza della Repubblica Islamica sorse dunque in qualche misura per
reazione, e la sua identità fu connotata in senso difensivo. L’Iran
divenne uno stato preoccupato di proteggere la sua indipendenza e la
sua dignità, fondate su basi del tutto nuove. Il timore di una dominazione
straniera era così radicato nella cultura politica che furono messe
a punto delle salvaguardie costituzionali per proteggere il paese dal
controllo straniero e per proteggere il discorso meta politico della
sua indipendenza, o della sua iperindipendenza, come la definisce un
certo studioso [57]. Nell’articolo 152 della costituzione si
legge: “La politica estera dell’Iran si basa sul rifiuto di ogni
forma di dominazione, sia che si tratti di esercitarla sia che si tratti
di subirla, sulla salvaguardia dell’indipendenza del paese… sulla
difesa dei diritti di tutti i musulmani, e sul non allineamento rispetto
alle superpotenze egemoniche”.
La Repubblica Islamica ha anche istituzionalizzato
ed integrato nella costituzione la propria narrativa di giustizia e
di resistenza, sottolineando in mezzo agli altri obiettivi la propria
“fraterna dedizione nei confronti di tutti i musulmani ed il proprio
espresso sostegno agli oppressi di tutto il mondo”. La “lotta contro
l’oppressione”, come tema ricorrente sia sul piano costituzionale
che nella retorica politica, ha un ruolo centrale sia nella costituzione
che nella definizione di sé della Repubblica Islamica dell’Iran;
lo stesso ruolo centrale che i principi di libertà hanno nelle costituzioni
democratiche occidentali [58]. Il più vicino alleato della Repubblica Islamica,
il leader di Hezbollah Seyyed Hassan Nasrallah spiega: “L’Iran
non lascerà mai soli i popoli di questa regione e neppure i movimenti
di resistenza. Per l’Iran e per la sua Guida Suprema, per i leader
politici e per il popolo stesso la causa del popolo palestinese è nelle
preghiere, nei digiuni, nella devozione notturna. Rimarrà un loro principio
fino al Giorno del Giudizio” [59]. Fino a quando il tema della resistenza verrà
riconosciuto da amici e nemici dell’Iran come una caratteristica fondante
della sua politica estera, e come una sorta di “imperativo comportamentale” [60],
il concetto di resistenza non farà che entrare sempre più profondamente
a far parte dell’identità politica della Repubblica Islamica. La
relazione che esiste tra aspettative altrui e propria identità può
essere spiegata con la teoria dei ruoli, che afferma che ogni identità
è legata ai ruoli che un attore impersona e alla conseguente “comprensione
condivisa di quanto ci si attende” dall’attore stesso [61].
Ciascun attore quindi interiorizza sia il ruolo sia le aspettative in
materia di comportamenti che sono associate ad esso, che portano così
alla formazione di una identità specifica [62].
Per tutte queste ragioni è altamente
improbabile che la Repubblica Islamica sigli un Grande Patto con Washington:
così facendo perderebbe la propria identità di paese indipendente,
cercatore di giustizia e dedito alla resistenza, e questa identità
è molto più necessaria alla sopravvivenza della Repubblica Islamica
di quanto lo sia la sua sicurezza come entità organizzativa. La sicurezza
come entità ideologica rappresenta una priorità strategica per un
attore ideologico come l’Iran, dal momento che non può affrontare
un cambiamento della propria identità; anche se rimanesse intatta dal
punto di vista organizzativo, uno stravolgimento identitario metterebbe
la parola fine all’esperienza della Repubblica Islamica dell’Iran,
che diventerebbe in tal caso qualcosa di completamente diverso.
L’impegno iraniano per la causa
palestinese alla base della sua alleanza
con Hezbollah
L’impegno ideologico e strategico
di Hezbollah verso la Palestina
Oltre all’esaminare la cause ideologiche,
politiche e strategiche alla base dell’impegno iraniano per la causa
palestinese, uno studio che mostri in che modo questo impegno rappresenti
anche la base delle relazioni tra Iran e Hezbollah, che dell’Iran
è il più vicino alleato, è utile per mettere in migliore evidenza
la natura esatta della dedizione di Teheran alla Palestina ed i suoi
scopi.
La relazione organica che esiste tra
i due attori si basa sulle radici storiche e culturali di ciascuno,
su una ideologia religiosa e politica condivisa e sulle prospettive
strategiche, centrate su una lotta per l’esistenza che ha il suo nemico
in Israele e che come tale definisce l’identità politica sia di Hezbollah
che della Repubblica Islamica. Hezbollah non soltanto condivide la demonizzazione
di Israele e la conseguente santificazione della causa palestinese operata
dall’Iran, ma deve la sua stessa ragione di esistere alla lotta contro
Israele, che come tale è alla base della sua identità politica. Facendo
propria l’esortazione che Khomeini rivolgeva ad ogni musulmano di
“armarsi contro Israele” Hezbollah crede anche di avere “il dovere
religioso” (“al wajib al shari’i”) di resistere ad Israele,
e l’obbligo di fornire assistenza militare ai palestinesi [63].
In questo modo, al di là ed al di sopra della lotta contro Israele
in Libano, questo movimento di resistenza colloca la liberazione della
Palestina dall’occupazione israeliana, che viene considerata un obbligo;
in questo modo Hezbollah fa proprio dal punto di vista ideologico l’impegno
di aiutare i palestinesi a raggiungere l’obiettivo dell’indipendenza
nazionale.
La dedizione alla causa palestinese
e l’ostilità verso Israele servono a consolidare i legami tra Iran
e Hezbollah: ognuna delle due parti loda l’altra per il sostegno ai
palestinesi e per l’impegno profuso nel tenere testa ad Israele. Hezbollah
considera l’Iran come l’avanguardia della resistenza in tutta la
regione, “l’unica voce che si leva contro il progetto sionista”,
come affermato da Nasrallah [64]. “L’Iran fa vedere chiaramente che è
orgoglioso di sostenere senza condizioni la resistenza in Libano e in
Palestina, laddove a tutti gli altri si fa chiaramente intendere che
è bene non farlo” [65].
Per quanto riguarda la Repubblica Islamica,
la resistenza che Hezbollah impone ad Israele la obbliga a fornire sostegno
al movimento, come espresso dalla rassicurazione di Khomeini secondo
la quale “il popolo iraniano non vi abbandonerà” [66].
Al di là della perseveranza con cui resiste ad Israele, Hezbollah viene
esaltato anche per l’effetto che le sue iniziative hanno sui palestinesi.
In un caso del genere, Khamenei ha attribuito il manifestarsi dell’Intifada
di Al Aqsa nel settembre del 2000, quattro mesi dopo l’ignominioso
ed unilaterale ritiro di Israele dal Libano del sud, al successo militare
che Hezbollah aveva conseguito cacciando lo stato ebraico dal Libano
meridionale [67]. Nel 2009, dopo la guerra di Gaza, Khamenei
ha dichiarato: “Il Libano è diventato il cuore del Medio Oriente
di oggi: la vittoria degli abitanti di Gaza nella guerra che è durata
ventidue giorni è stata il frutto della vittoria che ha arriso alla
resistenza islamica nella guerra libanese dei trentatré giorni” [68].
Hezbollah non cerca di accampare crediti
lanciando un’intifada palestinese o contribuendo all’attività militare
di Hamas, ma ne acquisisce perché i destini dei due movimenti di resistenza
in Libano ed in Palestina sono strettamente intrecciati l’uno all’altro.
Come affermato da Nassrallah nel 2008, “[La resistenza] costituisce
un progetto, ed il movimento di resistenza, proprio in quanto movimento,
ha uno sviluppo, un destino ed un obiettivo che sono unici anche se
all’interno del movimento esistono diversi partiti, diverse fazioni,
diverse credenze, diverse sette e diverse linee di pensiero intellettuale
e politico… I movimenti di resistenza nella zona, specialmente in
Libano e in Palestina, si completano a vicenda e presentano contiguità…” [69].
Stando così le cose, Hezbollah pensa che il risultato della guerra
contro Israele nel 2006 abbia avuto conseguenze dirette anche sul fronte
palestinese: “…I risultati di questa battaglia in Libano si vedranno
in Palestina. Se vinciamo, saranno dei vincitori anche loro. Nel caso,
non lo voglia il cielo, venissimo sconfitti, anche i nostri fratelli
palestinesi verranno messi a dura prova ed affronteranno condizioni
da tragedia” [70].
Allo stesso modo l’indebolimento
di correnti della resistenza palestinese come Hamas potrebbe avere effetti
negativi sul movimento libanese. Lo attesta la dichiarazione di Nasrallah
al tempo dell’offensiva israeliana contro Gaza: “Quello che sta
succedendo a Gaza avrà delle conseguenze non solo per Gaza o per la
Palestina, ma per l’intera ‘umma. Dobbiamo continuare a lavorare…
dobbiamo fare ogni sforzo possibile per difendere la nostra gente” [71].
In un precedente discorso, Nasrallah
aveva parlato dell’Intifada come della “nostra prima linea”, cosa
che inquadra a tutti gli effetti il sostegno ad essa come “non soltanto
un obbligo, ma anche una necessità” che Hezbollah intende soddisfare
“non solo con le parole, ma anche concretamente” [72].
In effetti l’assistenza militare di Hezbollah alla resistenza palestinese
è in gran parte dovuto a considerazioni di ordine strategico, intese
come contrapposte a quelle di tipo puramente ideologico o dal carattere
di imperativo morale.
Il sostegno
militare alla resistenza palestinese
Nonostante il movimento di resistenza
non sia mai intervenuto direttamente in Palestina dal punto di vista
dell’aspetto militare, esso non ha escluso a priori la prospettiva
che prima o poi la cosa non accada. Nell’ottobre del 2001, un anno
dopo l’inizio della Seconda Intifada, Nasrallah disse: “Siamo pronti
ad intervenire direttamente nell’Intifada se il bene della resistenza
palestinese rendesse inevitabile il ricorso a questa opzione” [73].
Questo ragionamento ha fatto sì che Hezbollah non intervenisse nel
massacro che Israele ha compiuto nella enclave di Gaza, controllata
da Hamas, nel dicembre 2008 e nel gennaio dell’anno seguente. All’epoca
un’azione armata di Hezbollah non avrebbe portato alcun beneficio
a Hamas perché il suo status di movimento di resistenza nazionale in
grado di difendere il suo popolo ne avrebbe sofferto molto, e la stessa
ragion d’essere del movimento sarebbe entrata in discussione. Inoltre,
dal momento che Hamas è riuscito a sostenere l’aggressione israeliana
con le proprie forze, senza soffrire danni significativi a livello di
organizzazione gerarchica o di infrastrutture militari, Hezbollah non
ha ritenuto indispensabile intervenire in proprio. Soltanto se Hamas
fosse rimasto a dissanguarsi sul campo di battaglia, a causa dell’eliminazione
dei suoi alti quadri o se le sue infrastrutture militari fossero state
gravemente danneggiate minandone drasticamente l’efficienza bellica
e lasciando intravedere la possibilità di un crollo, Hezbollah sarebbe
entrato nella mischia.
Hezbollah si è fermato ad un
passo dall’intervenire militarmente durante la guerra a Gaza, ma è
invece intervenuto a livello politico così come ha fatto l’Iran,
mettendo in atto un’aperta contestazione politica al regime di Mubarak.
Nasrallah ha esortato il popolo egiziano e gli alti gradi dell’esercito
a fare pressione sul governo egiziano perché aprisse la frontiera di
Gaza. I leader di Hezbollah, inoltre, hanno affermato che anche
se il movimento non aveva considerato dei nemici coloro che lo avevano
tradito durante la guerra di luglio, “considereremo nostri nemici
coloro che si prestano a collaborare contro Gaza e contro il suo popolo” [74].
Di fatto, quando la complicità araba nei confronti di Israele raggiunse
il suo culmine durante la guerra del 2006, Nasrallah evitò di esortare
le masse arabe a fare pressione sui loro governi e neppure i rapporti
complessivi di Hezbollah con le stesse autorità peggiorarono gran che,
mentre invece peggiorarono considerevolmente, soprattutto con l’Egitto,
sia durante che dopo la guerra a Gaza. All’epoca della guerra di luglio
Hezbollah temeva di inasprire le proprie relazioni con i regimi arabi
e non voleva esasperare i toni evocando lo spauracchio sciita e facendo
salire la tensione tra sunniti e sciiti; tutti questi timori, nel gennaio
2009, non c’erano più.
Al di là dell’appoggio politico,
Hezbollah ha fornito ai palestinesi assistenza militare, assicurando
ai gruppi di resistenza addestramento ed armi. Com’è emerso nel corso
della guerra a Gaza, il modo di combattere di Hamas ha assunto caratteristiche
simili alle tattiche utilizzate da Hezbollah durante la guerra di luglio,
che comprendono tra l’altro l’uso di bunker sotterranei e
di reti di gallerie, nonché un modo simile di utilizzare il lancio
di razzi; tutte cose che fanno pensare ad una presenza considerevole
di Hezbollah nell’addestramento dell’ala militare di Hamas.
Nasrallah è andato vicino ad
ammetterlo, quando ha detto che “la resistenza a Gaza ha imparato
la lezione [della guerra di luglio] meglio di quanto abbiano fatto gli
israeliani” [75]. La più recente strategia militare di Hamas,
più che aver semplicemente ricevuto addestramento, pare essersi conformata
alla “nuova scuola di guerra” fondata dal leader militare di Hezbollah
Imad Mughnieh, morto assassinato (si dice che egli stesso abbia addestrato
ed equipaggiato personalmente svariati gruppi palestinesi nel corso
degli anni), che unisce metodi di combattimento convenzionale e non
convenzionale in una concezione di guerriglia che serve non soltanto
alla liberazione di un territorio occupato, ma anche alla sua difesa
dagli aggressori esterni.
Oltre e più di questo, Hezbollah
ha scopertamente fornito ai gruppi della resistenza palestinese armamenti
ed altri aiuti di tipo militare. Il caso più recente si è
verificato nell’aprile 2009, quando le autorità egiziane annunciarono
pubblicamente che avevano smantellato quella che veniva ritenuta una
“cellula terroristica” di Hezbollah che a loro detta stava preparando
attacchi contro obiettivi israeliani ed egiziani sul suolo egiziano.
Rispondendo alle accuse, Nasrallah ammise che uno dei principali sospettati
coinvolti nella vicenda, Sami Chehab, era a tutti gli effetti un membro
del partito che stava fornendo assistenza alla resistenza palestinese:
“Alla frontiera tra Egitto e Palestina, Chehab stava mettendo in atto
un’azione di tipo logistico per aiutare i fratelli palestinesi a trasferire
personale ed equipaggiamento destinati ad appoggiare la resistenza in
Palestina”. Nasrallah aveva continuato dicendo “Se aiutare i palestinesi
è un crimine, io ammetto pubblicamente di averlo perpetrato… se si
tratta di un capo d’accusa, è un capo d’accusa di cui siamo orgogliosi.
Non è la prima volta, e la cosa è nota a tutti, che fratelli di Hezbollah
vengono arrestati mentre cercano di introdurre armamenti per i palestinesi
nel territorio della Palestina occupata” [76]. In effetti, nel marzo 2002 lo stesso Nasrallah
aveva rivelato che tre ufficiali di Hezbollah fatti prigionieri dai
giordani mentre stavano cercando di contrabbandare armi verso la West
Bank appartenevano in effetti al movimento. Usando vocaboli simili a
quelli del discorso tenuto nell’aprile del 2009, Nasrallah aveva all’epoca
sostenuto che “fornire armi ai palestinesi è un dovere… è vergognoso
che una cosa simile venga considerata un crimine” [77].
Il discorso sulla distruzione
di Israele e la creazione di una nuova consapevolezza araba
Al di là ed al di sopra dell’impegno
ideologico e strategico di Hezbollah verso la causa palestinese e del
sostegno militare che ha fornito alla resistenza, c’è il suo ruolo
di primo piano nel contribuire a familiarizzare il pubblico arabo con
il concetto di imminente distruzione di Israele. L’idea dello sradicamento
dello stato di Israele diffusa a suo tempo da Khomeini ha ritrovato
una forte eco con Ahmadinejad ed è finita per trovare un proprio posto
nelle affermazioni fatte in pubblico da Hezbollah, soprattutto dopo
il ritiro unilaterale israeliano dal libano nel 2000 e, in modo anche
più incisivo, dopo la guerra del luglio 2006. Nel periodo di tempo
trascorso dai tempi in cui lo slogan era popolare all’inizio degli
anni Ottanta e i tempi successivi al 2005, quando Ahmadinejad è divenuto
presidente, l’idea dello sradicamento operato da forze esterne ha
lasciato il posto ad una più pacifica, anche se altrettanto implausibile,
idea di uno sradicamento dell’interno; in altre parole, quella di
una dissoluzione da dentro, ottenuta per via democratica: l’idea della
“cancellazione tramite referendum” che abbiamo già esposto. Con
l’arrivo alla ribalta di Ahmadinejad, il discorso sulla distruzione
di Israele ha mutato nuovamente forma, venendo rivolto contro il governo
israeliano più che contro lo stato nazionale propriamente detto.
Per scomporre, riconcettualizzare e
ridefinire Israele e con esso l’intero progetto di resistenza, sono
stati introdotti un nuovo vocabolario su Israele ed un nuova concettualizzazione
di esso, utili per demistificare lo stato sionista e fare a pezzi il
mito della sua invincibilità. Chiamata da Laura Khoury e da Seif Dana [78]
il nuovo Israele, questa operazione di riconcettualizzazione è stata
ispirata dalla ben nota raffigurazione di Israele fatta da Nasrallah
nel maggio del 2000, in cui esso viene definito come “più debole
della tela di un ragno” [79]. Dal momento che l’umiliante ritiro israeliano
ha fornito il contesto per un simile ritratto, Nasrallah stava chiaramente
cercando di togliere dalla consapevolezza collettiva degli arabi il
concetto di Israele inteso come entità imbattibile, e di collocare
al posto di esso una consapevolezza nuova [80]. Questa “battaglia della consapevolezza”,
secondo la definizione di Nasrallah [81], non ha solo l’obiettivo di provare che
Israele può essere sconfitto militarmente, come a detta di Hezbollah
dimostrano il suo ritiro nel 2000 e la sua sconfitta nel 2006, ma anche,
e più significativamente, quello di provare che in ultima analisi ne
è possibile la distruzione. Afferma Nasrallah: “Dal ritiro del 2000
in poi, la questione non è più stata se fosse o meno possibile combattere
l’esercito di Israele o sconfiggerlo. Queste non erano più cose in
discussione. La questione era se mai se questa entità statale potesse
o meno cessare di esistere, se Israele potesse essere spazzato via dal
novero dell’esistente. Sì, mille volte sì, Israele può essere spazzato
via dal novero dell’esistente” [82].
L’idea di cancellare Israele dalla
regione assumeva le vesti di una predizione razionale, dedotta dalla
fresca esperienza della sconfitta israeliana, allo stesso tempo ricoprendo
il ruolo di prescrizione emotiva. Secondo la previsione di Nasrallah
l’imminente sconfitta di Israele era “orma decisa” e si sarebbe
probabilmente verificata “nel corso di pochi anni a venire”, sulla
base di “una legge storica e divina al tempo stesso, che non lascia
scampo” [83]. La previsione si basa sul fatto che secondo
Hezbollah la natura dello stato di Israele è subordinata al suo apparato
militare, che ne definisce l’essenza stessa e l’identità, e che
costituisce il fondamento dello stato. Una volta che i militari avranno
provato il sapore della sconfitta per la prima volta, le fondazioni
stesse dello stato verranno scosse ed Israele inizierà a crollare,
mentre sia coloro che vi vivono sia coloro che vivono negli stati confinanti
acquisiranno consapevolezza della sua sostanziale fragilità. Coerentemente
con questo assunto, Nasrallah ha cercato di presentare la “minaccia”
di una guerra di Israele contro il Libano come se fosse una “opportunità”
di liberare la Palestina. Nasrallah ha spiegato anche che “Se possiamo
distruggere questo esercito, e se Dio vorrà lo distruggeremo, se possiamo
sconfiggere questo esercito, e se Dio vorrà lo sconfiggeremo… in
quale futuro potrà mai sperare Israele? Se l’esercito di Israele
venisse sconfitto in Libano, non è inverosimile pensare che la benedizione
di Allah ci consentirebbe di arrivare con gli autobus ed i furgoni fino
alla moschea di Al Aqsa” [84].
Come si può notare da quanto
su esposto, il “nuovo concetto di Israele” diffuso da Hezbollah
è cambiato, diventando una predizione o una promessa più che un intento
prescrittivo: Hezbollah renderebbe più facile l’eliminazione del
regime sionista sconfiggendo l’esercito israeliano in Libano. In effetti,
benché la liberazione della Palestina sia considerata in primo luogo
e soprattutto un dovere dei palestinesi, l’Iran considera Hezbollah
come una forza indispensabile per arrivare a sradicare lo stato israeliano.
Il concetto è stato espresso da Ahmadinejad, che ha affermato che “chiunque
voglia mettersi a tu per tu con Hezbollah e con gli altri paesi della
regione adesso sa quale risultato ne otterrebbe. Questo è segno della
sconfitta sofferta dall’entità statale sionista e da coloro che la
difendono” [85]. In risposta all’asserzione di Nasrallah
secondo cui l’assassinio del principale comandante militare di Hezbollah
Imad Mughnieh, verosimilmente attribuibile allo stato di Israele, aveva
segnato “la fine dell’esistenza [di Israele]” e della sua promessa
di reagire ad essa con una “guerra aperta” contro lo stato sionista,
il comandante delle Guardie della Rivoluzione, Mohammad Ali Jafari,
aveva previsto: “Nel prossimo futuro, assisteremo alla distruzione
di questo microbo canceroso, di Israele l’aggressore, grazie alle
abili mani dei soldati della comunità di Hezbollah” [86].
Il successo conseguito da Hezbollah
in questo tentativo di introdurre presso il pubblico l’idea della
debolezza strategica di Israele e della sua assenza di prospettive può
essere misurato anche partendo dai racconti delle personalità israeliane,
dei mass media e dell’ambiente accademico. La consapevolezza espressa
dalla commissione Winograd sul fatto che “una organizzazione di tipo
semimilitare composta da poche migliaia di uomini ha resistito per alcune
settimane al più forte esercito di tutto il Medio Oriente” [87]
rappresenta a tutti gli effetti un’ammissione di fatto che Hezbollah
era riuscito ad infrangere il mito dell’invincibilità militare di
Israele. Inoltre, in quella che appare come una conferma del ritratto
fatto da Nasrallah di una guerra il cui risultato avrebbe avuto ripercussioni
in tutta la regione, il resoconto della commissione Winograd ha riconosciuto
anche che il fallimento di Israele nella guerra avrebbe avuto “implicazioni
di lunga portata per noi e per i nostri nemici”[88].
La principale di queste implicazioni è data dal fatto che la linea
di pensiero di Nasrallah pare sia stata interiorizzata da molti arabi,
come notato in un elaborato compreso negli autorevoli “Sondaggi annuali
di opinione della popolazione araba” di Shibley Thellami, realizzato
dopo la guerra del luglio 2006. Il sondaggio ha scoperto che il 46%
degli interpellati in sei paesi arabi diversi credeva che Israele fosse
“più debole di quanto sembri” e che “la sua sconfitta definitiva
fosse solo questione di tempo” [89]. Oltre a questo, il valore militare di Hezbollah
ha cancellato le illusioni di molte persone nella regione che pensavano
che la superiorità militare fosse qualche cosa di valutabile solo per
mezzo del solo potere di fuoco e della mera superiorità tecnologica.
Questa conclusione echeggia nelle attestazioni del Reut Institute,
un influente think tank israeliano che fa riferimento esclusivamente
del governo locale: “Superiorità militare non significa superiorità
strategica” [90]. L’Istituto va avanti lamentando il fatto
che “La capacità di sopravvivere mostrata dalla rete della resistenza
nonostante le rappresaglie israeliane danneggia il potere di deterrenza
di Israele e la sua immagine come potenza militare” [91].
Oltre e più di questo il Reut
Institute attesta, in una serie di articoli pubblicati dal suo programma
di sicurezza nazionale, il successo conseguito dal discorso di Hezbollah
sulla inevitabile distruzione del regime sionista. Gli articoli adottano
un certo numero di concetti sviluppati in questo programma, quali “resistenza
permanente”, “rete della resistenza” (che fa riferimento a Hezbollah,
oltre che a Hamas, alla Jihad Islamica e all’Iran), “logica
di implosione”, “delegittimazione di Israele” e “promozione
di una soluzione basata su un solo stato” [92]. Molti articoli della serie fanno riferimento
ai discorsi di Nasrallah indicandoli come prove della minaccia esistenziale
costituita da questi concetti. L’estratto che segue riassume la tesi
di fondo cui gli articoli sono improntati.
“La rete della resistenza
si comporta nei confronti di Israele secondo una logica politica basata
sulla teoria dell’implosione, secondo la quale Israele non sarà
rovesciato militarmente, ma piuttosto subirà
pressioni su un grosso numero di fronti che in ultima analisi condurranno
alla sua implosione come stato sovrano. Questa logica auspica la fondazione
di uno stato islamico arabo-palestinese al posto di Israele” [93].
Nella stessa direzione va l’avvertimento
del capo di stato maggiore generale delle Forze Israeliane di Difesa
Gabi Ashkenazi: “all’orizzonte si prospettano pericoli alla nostra
stessa sopravvivenza” [94]. È interessante notare che l’ammonimento
di Ashkenazi arrivava a meno di una settimana dalla dichiarazione di
Nasrallah secondo cui “Israele ha perso la sua prima guerra… è
destinato a cadere, e cadrà”, il che fa pensare che la predizione
del capo di Hezbollah non fosse dovuta a mera magniloquenza, ma avesse
qualche fondamento reale.
Le opinioni espresse in questo articolo
sono espressione personale dell’autore e non corrispondono necessariamente
a quelle di Conflicts Forum.
Amal Saad Ghorayeb è un’accademica
libanese indipendente ed un’analista politica; è autrice del volume
“Hizbullah: Politics and Religion” (Pluto Press, Londra, 2002).
Al momento sta cercando materiali per un libro, in pubblicazione presso
IB Tauris, sul sistema di alleanze iraniano in medio oriente. È stata
visiting scholar al Carnegie Endowment’s Middle East Centre
di Beirut e lecturer alla Lebanese American University.
[1] Ahmadinejad, Al-Alam
[2] Rafsanjani,
[3] Discorso
di Khamenei, 4 giugno 2006. http://news.bbc.co.uk/2/hi/middle_east/5045990.stm
[4] Osservazione
di Karim Sadjadpour contenuta in uno studio dei discorsi di Khamenei
intitolato “Reading Khamenei: The World View of Iran’s Most Powerful
Leader,” Carenegie Endowment for International Peace, 2008. Citato
in “Iran Supports Hamas, but Hamas is no Iranian ‘Puppet’”, www.cfr.org,
[5] Press
[6] Press
[7] Intervista
con l’Imam, 7 dicembre 1978 (16 Azar 1357). Sahifa-yi Nur,
Vol. 4, p. 30, citato inhttp://www2.irib.ir/worldservice/imam/palestin_E/5.htm
[8] Fardust,
Hussein and Ali Akbar Dareini. The Rise and Fall of
the Pahlavi Dynasty: Memoirs of Former General Hussein. Bangalore,
India: Motilal Banarsidass, 1999, 217
[9] 3 giugno
1963 (13 Khordad 1342). Sahifa-yi Nur, Vol. 1, p. 57.
[10] http://www2.irib.ir/worldservice/imam/palestin_E/14.htm
[11] Dal
messaggio dell’Imam che annuncia la Giornata di Al Quds, datato 7
agosto 1979. Sahifa-yi Nur, Vol. 8, p. 229.
[12] Ibid.,
[13] www.irna.com/occasion/ertehal/english/saying/P2CH5.html
[14]
[15] Ali
Akbar Mohtashamipur: “The Arabs returned empty-handed” , Iran,
1 December 2007 tradotto dawww.mideastwire.com
[16] http://irna.com/occasion/ertehal/english/saying/
[17] http://irna.com/occasion/ertehal/english/saying/
[18] Per
altri esempi, cfr. http://irna.com/occasion/ertehal/english/saying/
[19] Si
veda ad esempio Jonathan Steele, Lost in Translation, The
Guardian, 11 giugno 2006, e la risposta di Ethan Bronner a quell’articolo:
Just How Far did they Go, those Words Against Israel?, New York
[20] Dudi
Cohen, Ahmadinejad doesn’t want Jews annihilation, Ynet News,
[21] http://english.khamenei.ir//index.php?option=com_content&task=view&id=73&Itemid=31
[25] Ewen
MacAskill e Chris McGreal, Israel should be
‘wiped off the map’ says Iran’s President, The Guardian, 27
[26] Cfr.
Cam McGrath, “WikiLeaks exposes Egypt’s duplicity in Gaza siege,”
The Electronic Intifada, 1 dicembre 2010, e Jared Malsin, “Gaza
govt: WikiLeaks exposé confirms our claims,” Ma’an News
[27] Lettera
di Khamenei a Haniyyeh, 17 gennaio 2009.
[28] Khamenei,
28 dicembre 2008, http://www.globalsecurity.org/military/library/news/2008/12/mil-081228-khamenei01.htm
[29] Citazione
da una lettera di Ahmadinejad al re dell’Arabia Saudita Abdallah bin
Abdul Aziz, Pressi TC, 15 gennaio 2009.
[30] Intervista
ad Ahmadinejad, Al-Alam, 14 gennaio 2009.
[31]
Haaretz, 9 gennaio 2009, citato da Amal Saad-Ghorayeb in “Will
Hizballah intervene in the Gaza conflict?” The
Electronic Intifada, 11 January 2009
[32] Manouchehr
Mottaki, ISNA, 11 gennaio 2009, “Will Hizballah intervene in the
Gaza conflict?” The Electronic Intifada,
[33] 15
[34] Country
reports on Terrorism, 2009: stati che sostengono il terrorismo, Dipartimento
di Stato.http://www.state.gov/s/ct/rls/crt/2009/140889.htm
[35] Country
reports on Terrorism, 2009: stati che sostengono il terrorismo, Dipartimento
di Stato.http://www.state.gov/s/ct/rls/crt/2009/140889.htm
[36] Cfr.
Seymour Hersh, “Preparing the Battlefield. The Bush Administration
steps up its secret moves against Iran”, 7 luglio 2008. Cfr. anche
Larissa Alexandrovna e Muriel Kane, “Leaked cable reveals US-Israeli
strategy for regime change in Iran. Wikileaks confirms reporting by
veteran journalist Seymour Hersh”, The Raw Story, 9 novembre 2010.
[37] Cfr.
Flynt Leverett e Hilary Man Leverett, “Time for a U.S.-Iranian ‘Grand
Bargain’”, New America Foundation Policy Paper, 7 ottobre 2008.
Flynt Leverett è stato responsabile per il Medio Oriente del National
Security Council, esparto di antiterrorismo per il Policy Planning Staff
della Segreteria di Stato ed analista esparto per la CIA. Hillary Mann
Leverett è stata tra le altre cose responsabile degli affari iraniani,
afgani e del Golfo Persico del National Security Council al tempo della
presidenza Bush, esperta per il Medio Oriente per il Policy Planning
Staff della Segreteria di Stato e consigliere politico per le questioni
mediorientali, centroasiatiche ed africane alla delegazione statunitense
[38] Citato
da PBS, Frontline, http://www.pbs.org/wgbh/pages/frontline/shows/tehran/axis/map.html
[39] Bill
Sami, “Iran: Intifada Conference in Tehran has Multiple Objectives”,
Radio Free Europe, 14 aprile 2006,http://www.rferl.org/featuresarticle/2006/04/a6170638-c079-4af1-b441-75dbba236340.html
[40] AFP,
[41]
[42] Manouchehr
Mottaki, ISNA, 21 gennaio 2009.
[43] Lettera
di Khamenei a Haniyyeh, 17 gennaio 2009.
[44] Mubarak
rebukes Hamas over Gaza war, YnetNews, 4 febbraio 2009.
[45] 15
gennaio 2008, “Iran Powerful and Popular in the region,”
http://daily1world.com/english/Middle-east/Iranpowerful-and-popular-in-region.html
[46] “Discorso
di saluto per il giorno di Al Quds, Kouross Esmaeli il 17 settembre
[47]
Mubarak rebukes Hamas over Gaza war, 4 febbraio 2009, YnetNews.
[48] Jennifer
Mitzen, “Anchoring Europe’s Civilizing Identity: Habits, Capabilities
and Ontological Security”, Journal of European Public Policy,
[49] Per
una dettagliata esposizione del concetto di sicurezza ontologica, cfr.
Jennifer Mitzen, “Ontological Security in World Politics: State Identity
and the Security Dilemma,” European
Journal of International Relations, Settembre 2006,
[50] Ayatollah
Ruhollah Khomeini, Islamic Government, The Institute For The
Compilation And Publication Of Imam Khomeini’s Work, p.8
[51] Ibid.,
[52] Ibid.
[53] Brent
Steele, “Ontological Security and the Power of Self-Identity: British
Neutrality and the American Civil War” ,Review of International
[54] Mitzen,
[56] Mitzen,
“Ontological Security”, p. 347.
[57] Cfr.
Homeira Moshirazdeh, “Discursive Foundations Of Iran’s Nuclear Policy,”
Security Dialogue, Vol. 38(4):521–543, 2007
[58]http://www.i
ranonline.com/iran/iran-info/Government/constitution-1.html
[59] Nasrallah,
discorso per il giorno di Al-Quds, 18 settembre 2009, Al-Manar
[60] Brian
Greenhill, “Recognition and Collective Identity Formation in International
Politics,” European Journal of International Relations,Vol.
[63] Saad-Ghorayeb,
[64] Nasrallah.
[66] Khomeini,
4 agosto 1987. “Excerpts from Khomeini Speeches”, New York Times
[67] Khamenei
citato in Jospeh al-Agha, “Hizbullah, Iran and the Intifada,” ISIM
Newsletter, gennaio 2002, p.35
[68] Khamenei
citato dalla IRNA, 4 marzo 2009
[69] Discorso
di Nasrallah, 16 luglio 2008, Al-Manar
[70] Intervista
di Nasrallah a Ghassan Ben Jeddou, 20 luglio 2006, Al-Jazeera
[71] Nasrallah,
28 dicembre 2008, Al Manar TV.
[72] Nasrallah,
Al Manar TV, 1 febbraio 2002. Citato in Eyal Zisser “The return
of Hizbullah”, The Middle EastQuarterly, autunno 2002,http://www.meforum.org/499/the-return-of-hizbullah#_ftnref18
[73]
[74] Cfr.
il discorso di Nasrallah del 7 gennaio 2007, Al-Manar TV.
[75] Nasrallah,
31 dicembre 2008, Al-Manar TV.
[76] Discorso
di Nasrallah, 10 aprile 2009, Al-Manar TV.
[77] Nasrallah,
marzo 2002, citato in Laleh Khalili, “Standing with My Brother: Hizbullah,
Palestinians, and the Limits of Solidarity,”Comparative Studies
in Society and History,49 (2), 2007, pp.289-290.
[78] Laura
Khoury e Seif Dana, “Hezbollah’s War of Position:The Arab–Islamic
Revolutionary Praxis,” The Arab World Geographer,
[79] Nasrallah,
25 maggio 2000, Bint Jubayl, Al-Manar
[80] Khoury
e Dana giungono, a p. 137, alle stesse conclusioni dell’autore.
[81] Nasrallah,
24 marzo 2008, discorso per I quaranta giorni dall’assassinio di Mughnieh.
[83] Nasrallah,
22 febbraio 2008, Al-Manar TV.
[84] Nasrallah,
18 settembre 2009, Al-Manar TV.
[85] Ahmadinejad,
intervista del 14 gennaio 2010, Al-Manar
[86] AFP,
“Iran predicts Hizbullah will destroy Israel”, 18 febbraio 2008
[87]http://www.mfa.gov.il/MFA/MFAArchive/2000_2009/2008/Winograd%20Committee%20submits%20final%20report%2030-Jan-2008
[88]http://www.mfa.gov.il/MFA/MFAArchive/2000_2009/2008/Winograd%20Committee%20submits%20final%20report%2030-Jan-2008
[89] Sondaggi
di questo tipo sono realizzati da Shibley Thellami in collaborazione
con Zogby. Includono campioni dai seguenti paesi: Egitto, Giordania,
Libano, Marocco, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.
[90] Reut
Institute, “Israel’s National Security Concept is Irrelevant”,
15 gennaio 2007, Tel Aviv, p.7
[91] The
Reut Institute, “The Logic of Implosion: The Resistance Network’s
Political Rationale”, ReViews,
no.9, 26 dicembre 2006, Tel Aviv.
[92] Cfr.
[93] The
Reut Institute, “The Logic of Implosion: The Resistance Network’s
Political Rationale”, ReViews,
[94] Jerusalem
Post, 20 febbraio 2008.
Traduzione da Conflicts Forum: http://conflictsforum.org/briefings/AmalSaadGhorayeb.pdf
Fonte: http://iononstoconoriana.blogspot.com/2011/08/amal-saad-ghorayeb-limpegno-iraniano.html