L'IMPATTO UMANO E AMBIENTALE DELLA RECESSIONE

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blankDI EMILIY SPENCE
Global Research

Fin troppo spesso le notizie di cronaca si concentrano su episodi discreti di attualità a spese di un approccio più sintetico per gli avvenimenti notevoli. Se è importante che il pubblico venga a conoscenza dei principali eventi mentre essi succedono nel mondo, a volte questo può portare alcuni osservatori a “non vedere la foresta a causa degli alberi”.

Per questo potrebbe essere facile non scorgere il nesso tra la recessione globale (e la possibile depressione futura) e il continuo declino del benessere ambientale e l’aumento della popolazione. Ciononostante queste tre sfere sono profondamente intrecciate. Ecco alcuni particolari di tale relazione.

Cominciamo con l’attuale declino economico: un motivo parziale dell’agitazione creatasi a livello globale per l’indebolimento del dollaro americano è che fornisce una chiave per misurare il valore degli altri patrimoni. In sostanza, molti paesi ed individui, direttamente e non, assegnano la propria forza fiscale basandosi sullo standard del dollaro. Particolarmente quando portano il debito pubblico USA, che è attualmente ben al di sopra di 9 trilioni di dollari.Inoltre, praticamente tutto il debito nazionale degli USA che appartiene a stranieri è detenuto da investitori privati, ad eccezione delle banche centrali, che ne detengono il 64%. Per lo più l’entità della porzione di questa somma in mano estera è praticamente un terzo della valuta totale in circolazione! Per l’appunto, i numeri resi noti dalla Federal Reserve per lo scorso giugno 2007 fissano questa somma a 755 miliardi di dollari.

Parallelamente il saldo della carta di credito della famiglia americana media è del 5% del suo reddito annuale (con un reddito medio USA per famiglia attualmente di 43200 dollari), oltre il 40% delle famiglie americane spende più di quello che guadagna, le bancarotte personali negli USA sono raddoppiate negli ultimi dieci anni e il debito generale dei consumatori ha raggiunto i 2,46 trilioni di dollari nel giugno 2007 (escludendo i 440 miliardi che ruotano intorno ai prestiti di partecipazione per immobili, i 600 miliardi di debito per le seconde ipoteche e un debito complessivo di 9 trilioni di dollari per le ipoteche). Come tale, il debito rotativo totale dei consumatori americani è cresciuto fino a 904 miliardi la scorsa estate.

Perché è successo questo? In parte perché gli stipendi reali della maggior parte dei lavoratori sono rimasti in stallo o sono diminuiti a partire dal 1975. Perciò molti americani hanno reagito prendendo dei prestiti per mantenere o migliorare il proprio livello di vita.

Come metteva in guardia Polonio, il personaggio dell’Amleto di Shakespeare, “non prendere e non dare a prestito” e certamente, sorgono problemi se si fa sia l’una o l’altra cosa. Tuttavia chiunque, persino un individuo che non riveste nessuno di questi due ruoli, può avere problemi quando il valore della valuta che mantiene cade in picchiata.

Allora perché la valuta americana perde il potere? La risposta dipende in parte dal modo in cui è stato conquistato da principio e sicuramente, il suo merito relativo è generato da un certo numero di fattori. Tra questi, includiamo che il paese che lo emette abbia un’economia solida (un surplus economico piuttosto che una nazione debitrice), qualcosa di valore universale ad essa legato e che [essa] rappresenta, come il metallo prezioso da cui il dollaro USA fu effettivamente troncato nel 1971 quando il Governo si rifiutò di scambiare una somma relativamente piccola di dollari detenuta da svariati altri governi con l’oro, o qualche altra bramata risorsa per la quale la sola valuta deve essere scambiata, qualcosa come il petrolio dell’OPEC. (Quest’ultima eventualità è il motivo per cui alcuni possessori di dollari trovano minacciosa la borsa iraniana, con i suoi piani di rifiutare il dollaro USA come pagamento per il petrolio e sospettano che i recenti guasti dei cavi fossero un tentativo intenzionale di ritardare l’attuazione dei suoi programmi [Vedi questi articoli pubblicati su Comedonchisciotte: 1, 2, 3, 4, 5, 6 N.d.r.]). In breve, senza uno standard monetario che abbia un proprio valore assegnatogli dall’essere attaccato a qualcosa ritenuto di valore indiscutibile, tende ad avere un valore incerto.

Nel frattempo l’economia USA in sé non può crescere. Questo è dovuto in parte alla globalizzazione dell’industria, che ha creato lavori nei paesi del secondo e terzo mondo togliendone molti agli americani, che non possono mantenere i loro alti tassi di consumo di prodotti a causa della crescente mancanza di opportunità di impiego, dei ridotti sgravi fiscali, dei prezzi delle merci (comprese quelle di prima necessità) in rialzo, e dell’incalzante inflazione. Quindi non c’è da stupirsi se mentre salgono i prezzi del petrolio e dei generi alimentari, così fanno anche i numeri di preclusioni dei riscatti sulle ipoteche delle case, e il valore degli immobili in generale si sta abbassando dappertutto.

Contemporaneamente non è una sorpresa che gli stipendi americani vengano mantenuti depressi dall’esistenza di una proliferazione di manovalanza disoccupata, in relazione al minor numero di lavori a disposizione. Al tempo stesso come ci si potrebbe aspettare, la già enorme popolazione dei senza tetto, si ingrandisce a macchia d’olio. In effetti, il numero di americani persistentemente senza un tetto, di quelli con ripetuti episodi o di quelli che sono stati senza tetto per lunghi periodi, coinvolge tra 847 000 e 3 470 000 individui, molti dei quali sono bambini e veterani di guerra disoccupati. In altre parole quasi 3,5 milioni di persone di cui circa 1,35 milioni minorenni, sono a rischio di rimanere senza tetto ogni anno negli USA (Dati per il 2007 del National Law Center on Homelessness and Poverty).

Al tempo stesso, una maggiore fornitura dall’esterno di manovalanza farà sì che saranno persi più posti di lavoro, con il risultato che i cittadini americani avranno a disposizione anche meno denaro per acquistare sia la merce prodotta localmente che quella importata. In relazione, anche la crescita economica di altri paesi rallenterà, poiché le esportazioni non verranno più accaparrate velocemente negli USA. Tuttavia, questa era una conseguenza che da tempo aspettava di evidenziarsi dato che dal 2000, un totale di 3,2 milioni di posti di lavoro di fabbrica – uno su sei – sono spariti dal suolo americano e così tanto di recente, lo scorso dicembre 2007 si è verificato il più basso tasso di crescita dell’impiego negli USA degli ultimi quattro anni, quando simultaneamente il tasso di disoccupazione è sbalzato di 0.3 punti percentuali a quasi il 5%. Considerando le enormi perdite in altri settori dell’impiego – come in quelli collegati all’edilizia, ai servizi fiscali e alle vendite – è facile vedere come la spesa americana anche per prodotti esteri relativamente a buon mercato, fosse destinata ad andare in picchiata. Come poteva essere altrimenti quando la disponibilità di posti di lavoro adeguati e gli stipendi ragionevoli sono a tutti gli effetti largamente scomparsi?

Ciononostante questa situazione generale non è stata negativa per quelli nelle fasce economiche più alte, poiché la loro capacità di pagare magri stipendi da secondo o terzo mondo associata al fatto che ricevono un alto rendimento dai prodotti finiti acquistati dai clienti del primo mondo, ha creato un vantaggio economico. Per l’appunto con meccanismi come questo i ranghi dei milionari e dei miliardari si sono ampiamente allargati. (Il numero dei milionari nel mondo si è gonfiato ad 8,7 milioni e il numero di miliardari in tutto il mondo ha raggiunto il record di 793; questi ultimi detengono 2,6 trilioni di patrimoni e acquisiscono personalmente una straordinaria quantità di risorse). Sono cresciuti anche i margini di profitto in generale di molte società transnazionali come i giganti farmaceutici, del petrolio e di altri giganti industriali.

Tenuto conto di tutto, non c’è modo per gli americani anche con una paga minima oraria fissata a 5.85 miseri dollari, di poter competere con paghe estere di 1 dollaro l’ora, e neppure di ammortizzare i costi fondamentali associati ai loro affitti, alle loro ipoteche, all’aumento dei prezzi dei generi alimentari e del petrolio, ai crescenti pagamenti per le assicurazioni sanitarie e alle spese di base. Per l’appunto, si è verificato un declino generale degli acquisti negli USA e se questa non è una buona notizia per i fornitori, dà una tregua all’ambiente.

La ragione è che il rallentamento degli affari, seppure infausto da un punto di vista economico, fa bene all’ambiente, che non può continuare ad essere preso d’assalto ad un livello persino superiore per poter avere un rendimento economico ancora maggiore dallo sfruttamento delle sue risorse in gran parte limitate. Per come stanno le cose gli ecologisti prevedono che se continuano gli attuali tassi di deforestazione, le foreste pluviali scompariranno dal pianeta entro la fine del secolo, il che farebbe estinguere un numero smodato di specie animali e vegetali nel mondo, oltre a produrre effetti sul clima globale in modi imprevedibili. (Attualmente il tasso annuale di deforestazione globale è dell’ .8 per cento).

Altrettanto brutte sono le previsioni per la vita oceanica, che viene attualmente “completamente sfruttata”, “sfruttata oltre limite” o “significativamente esaurita” per il 71-78% secondo le Nazioni Unite. In aggiunta, molti tipi di piante e animali acquatici sono sull’orlo dello sterminio totale e il 90% di tutti i grandi pesci sono già estinti.

Aggiungiamo a tutto questo che secondo studi recenti dell’ONU, le terre aride con tendenza alla desertificazione coprono oltre un terzo della distesa di terra del pianeta, che sostenta più del venti per cento della popolazione umana. Mentre crescono le esigenze di questi delicati ambienti, essi diventano sempre meno capaci di sostenere la vita. Come tale, il tasso di desertificazione globale sta aumentando rapidamente, anche se i tassi effettivi variano da luogo a luogo.

Tenendo tutto questo in mente non possiamo aspettarci una crescita economica ancora maggiore, e neppure una popolazione umana ancora in espansione. Al contrario, dobbiamo collettivamente ridurre in modo drastico l’uso personale delle risorse, arginare la produzione (a causa delle pressioni sull’ambiente causate dal riscaldamento globale e da altre ripercussioni industriali) e affrontare un mondo che fornirà probabilmente un’offerta ridotta di lavoro.

In effetti, non possiamo neanche tollerare un aumento della temperatura di 5.5-7 gradi Farenheit (3-4º Celsius) a causa del carico di carbonio derivante dall’industria e dal trasporto delle merci. Perché farlo assicurerebbe solo che la vita dell’uomo sarebbe insostenibile su gran parte del globo e, probabilmente, impedirebbe l’impollinazione di molte piante coltivate. Accanto ai cambiamenti dei pattern delle precipitazioni piovose, la mancanza di impollinazione scatenerebbe una diminuzione drastica della produzione di alimenti.

Indipendentemente dal fatto che un tale caldo estremo si verifichi o meno, la popolazione globale secondo l’International Data Base dovrebbe crescere dai 6 miliardi del 1999 a 9 miliardi entro il 2042, un aumento del 50 per cento che richiederà solo 43 anni. Questo, naturalmente ha implicazioni allarmanti per il mondo naturale già sfruttato al massimo (comprese le sue riserve d’acqua), per il mercato del lavoro, la disponibilità di cibo, i prezzi dei prodotti e un sempre maggiore riscaldamento globale.

Quindi come ce la caveremo contro questi sinistri fattori? Innanzitutto, dobbiamo riconoscere la necessità assoluta di ostacolare la crescita del PIL in tutti i paesi, arginare la popolazione in maniera pro-attiva e ridurre il consumo generale. In altre parole, non possiamo ricevere risultati positivi dall’aspettativa che una miriade di ambienti producano una cornucopia illimitata di beni, specie quando le nostre stesse vite dipendono dalla riduzione massiccia dei gas serra e dal mantenimento di un’ampia diversità di ambienti salubri e intatti. In secondo luogo, dobbiamo rapidamente sviluppare una folta schiera di “lavori verdi” per compensare la scarsità di quelli che tengano conto di politiche che vincolino all’intenzionale contenimento della produzione con intenso dispendio energetico. In terzo luogo, dobbiamo creare velocemente un’economia capace di fornire, su ampia base, l’elettricità derivante da alternative benigne ai combustibili fossili.

Sarebbe inoltre opportuno che le persone formassero piccole comunità autosufficienti su piccola scala, per attraversare la recessione. Di certo, la loro instaurazione coadiuverebbe il distacco dalle aziende transnazionali che sfruttano la manodopera, fornirebbe un impiego regionale e ridurrebbe la dipendenza dal petrolio, dato che meno merci comprese quelle di prima necessità, richiederebbero il trasporto su vasta scala se prodotte localmente.

L’unione di una recessione, della crescita della popolazione, del picco del petrolio, di urgenti carenze di acqua, cambiamento climatico e di altri disastrosi impatti ambientali ci sfidano ad agire immediatamente. Ciò non deve necessariamente essere disastroso se iniziamo collettivamente ad effettuare i cambiamenti essenziali dell’ordine necessario. Se non lo faremo, i risultati potrebbero ben essere catastrofici su una scala a malapena immaginabile da chiunque. Con fermezza e risoluzione, incominciamo tutti immediatamente ad intraprendere le modifiche cruciali.

Emily Spence è una sostenitrice dell’ambiente e dei diritti umani che vive nel Massachusetts centrale.

Titolo originale: “The Recession’s Human and Environmental Impacts”

Fonte: http://www.globalresearch.ca/
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17.02.2008

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di MICAELA MARRI

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