Tarik Cyril Amar
tarikcyrilamar.substack.com
La sfida di assistere a un evento storico in tempo reale non è quella di notarlo. Questa è la parte più facile. Quello che è difficile è capire la sua importanza per il futuro, il vero significato degli eventi storici. Le recenti notizie provenienti dalla Corte Penale Internazionale (CPI) dell’Aia hanno confermato questa regola.
Il suo procuratore, Karim Khan, ha richiesto una serie di mandati di arresto che, in un modo o nell’altro, passeranno alla storia. La richiesta ufficiale è un lungo documento, ma i suoi punti chiave possono essere riassunti rapidamente. Riguardo a quello che Khan descrive come “un conflitto armato internazionale tra Israele e Palestina e un conflitto armato non internazionale tra Israele e Hamas che si svolge in parallelo“, egli accusa gli alti dirigenti di Hamas Yahya Sinwar, Mohammed Al-Masri (alias Deif) e Ismail Haniyeh di una lista di crimini contro l’umanità e crimini di guerra: sterminio, omicidio, cattura di ostaggi, violenza sessuale (incluso lo stupro), tortura, trattamenti crudeli, oltraggio alla dignità personale e altri atti disumani.
Khan accusa anche il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il Ministro della Difesa Yoav Galant di un’analoga serie di crimini contro l’umanità e crimini di guerra: affamare i civili come metodo di guerra, causare intenzionalmente grandi sofferenze o gravi lesioni, trattamenti crudeli, uccisioni intenzionali, attacchi intenzionali contro una popolazione civile, sterminio e/o omicidio, persecuzione e altri atti disumani.
Richiedere i mandati di arresto non significa che la CPI li abbia già effettivamente emessi. Perché ciò avvenga, tre dei suoi giudici, riuniti in camera preliminare, devono accogliere le richieste di Khan. Ma questo non fa molta differenza. In primo luogo, perché il rifiuto di tali richieste in questa fase è, come concordano gli esperti legali, “molto raro“.
In secondo luogo, e molto più importante, l’impatto politico della sola richiesta di Khan è già profondo e irreversibile. Anche se le sue richieste dovessero essere respinte in camera preliminare, un tale risultato non farebbe altro che danneggiare la già fragile credibilità della Corte Penale Internazionale, soprattutto se agisse con evidente parzialità, ad esempio accogliendo la richiesta di Khan per i leader di Hamas ma non per quelli israeliani. In questo improbabile scenario, il messaggio del rigetto delle richieste di arresto continuerebbe ad amplificarsi, anzi, non farebbe che aumentarne la risonanza.
Ma qual è il messaggio e quali saranno i suoi principali effetti? È certo che saranno politici piuttosto che strettamente giudiziari, perché una cosa che non accadrà – almeno non presto o facilmente – sono gli arresti veri e propri. La CPI è speciale in quanto, sulla base del suo Statuto di Roma del 1998, è l’unico tribunale internazionale permanente autorizzato a perseguire individui per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra. (A differenza della più vecchia Corte Internazionale di Giustizia, anch’essa con sede all’Aia, che può occuparsi di crimini simili ma solo quando ha come obiettivo uno Stato). Israele, in quanto Stato, è già sotto processo presso la Corte Internazionale di Giustizia, e probabilmente questo procedimento penale verrà accelerato dall’entrata della CPI nella mischia). Tuttavia, la CPI non dispone di una propria forza di polizia per detenere i sospetti e deve invece fare affidamento sui 124 Stati che hanno sottoscritto lo Statuto di Roma. Sia per i leader di Hamas che per quelli israeliani in questione, l’unico effetto dei mandati di arresto, probabilmente, sarà quello di rendere più complicati i loro viaggi, almeno per ora.
Ci sono molte altre buone ragioni per essere scettici sulla mossa di Khan. Questa è molto lontana da una semplice punizione per i cattivi in stile hollywoodiano. Per prima cosa, è molto tardiva. L’attacco genocida di Israele contro Gaza – e anche contro la Cisgiordania, con intensità minore ma sempre crescente – va avanti da sette mesi.
Anche i giuristi più prudenti dovrebbero agire molto più rapidamente in una simile emergenza. Per non parlare del fatto che la Corte Penale Internazionale ha ritardato per anni una ovvia e necessaria indagine sui crimini israeliani. C’è voluto un feroce genocidio, praticamente trasmesso in live-streaming, per darle la sveglia e, anche in questo caso, si è mossa con una velocità glaciale. Quindi, non idealizziamo Khan e la sua squadra. La storia potrebbe ricordarli più per il loro imperdonabile ritardo che per quello che hanno finalmente fatto, che in fondo è solo il loro lavoro.
In secondo luogo, è molto deludente vedere solo due funzionari israeliani presi di mira, almeno in questo momento. È vero che gran parte della società israeliana partecipa a questi crimini e che – come per i tedeschi e il nazismo – perseguire letteralmente ogni singolo responsabile potrebbe essere praticamente impossibile. Tuttavia, ai vertici e all’avanguardia, per così dire, questo genocidio in corso è stato opera di una pletora di politici facilmente identificabili (perché non accusare tutto il cosiddetto Gabinetto di Guerra, tanto per cominciare?), insieme a soldati e poliziotti di alto e basso livello.
E che dire dei noti rappresentanti di quella che passa per essere la “società civile” israeliana che, ad esempio, hanno sistematicamente bloccato gli aiuti umanitari per le vittime (in collusione, ovviamente, con i funzionari israeliani). Non dimentichiamo nemmeno il contributo dei media israeliani: le parole contano. Anche l’istigazione al genocidio è un crimine. Nel 2008, il Tribunale penale internazionale per il Ruanda aveva giustamente condannato il cantautore Simon Bikindi, non per un omicidio, ma per un discorso omicida. Khan, a onor del vero, è stato chiaro sul fatto che potrebbero esserci altre incriminazioni.
In terzo luogo, il fatto che Khan abbia preso di mira simultaneamente i leader israeliani e di Hamas ha attirato critiche acute e plausibili. A ben vedere, le sue richieste di arresto tradiscono un desiderio insincero di segnalare una simmetria che, in realtà, non esiste. La violenza di Hamas durante e dopo l’attacco del 7 ottobre ha sicuramente alcune caratteristiche criminali che meritano di essere perseguite. Il sequestro di ostaggi, ad esempio, è un caso evidente, mentre la violenza sessuale sistematica, presunta ancora una volta da Khan e usata pesantemente come punto di riferimento della propaganda israeliana, non è stata finora confermata da prove. Il punto chiave, tuttavia, è che, secondo il diritto internazionale, la lotta armata di Hamas è fondamentalmente legittima perché la resistenza armata è un diritto chiaro e incontrovertibile dei palestinesi.
Hamas e i suoi alleati hanno sempre e legittimamente attaccato obiettivi militari israeliani; lo hanno fatto – non esclusivamente ma in larga misura – anche il 7 ottobre. In effetti, lo sbalorditivo, seppure temporaneo, successo militare della resistenza palestinese in quel giorno, che aveva demolito la concezione suprematista israeliana di invincibilità, è una delle ragioni della ferocia patologica della risposta israeliana.
Per non parlare del fatto, semplice ma solitamente trascurato, che, con il resto del mondo che ha praticamente lasciato le vittime palestinesi di Israele al loro destino, Hamas, le Brigate Qassam e i loro alleati sono l’unica forza in campo che si frappone tra le vittime del genocidio palestinese e i perpetratori israeliani. Un fatto scomodo che provoca sensazioni di dissonanza cognitiva? Allora incolpate chi, tra la comunità internazionale, non ha difeso i palestinesi.
Israele, d’altra parte, è fondamentalmente nel torto, proprio come la resistenza palestinese è fondamentalmente nel giusto. Israele non può rivendicare il diritto all'”autodifesa” contro una popolazione che occupa. In realtà, in quanto potenza occupante (sì, anche di Gaza, nonostante l’ingannevole “ritiro” del 2005), ha degli obblighi nei confronti di quella popolazione in base al diritto internazionale, diritto che snatura nel suo grottesco contrario.
Per esempio, se secondo il Comitato Internazionale della Croce Rossa dovrebbe “assicurare […] che i bisogni fondamentali della popolazione di Gaza siano soddisfatti […] che Gaza sia rifornita di cibo, forniture mediche e altri beni di base necessari per consentire alla popolazione di vivere in condizioni materiali adeguate“, Israele ha regolarmente bloccato, affamato e massacrato i palestinesi, anche prima di quest’ultima escalation.
In breve, Hamas ha commesso alcuni crimini all’interno di una legittima lotta di liberazione, come hanno fatto praticamente tutte le organizzazioni di resistenza nella storia, senza per questo perdere la propria legittimità principale secondo il diritto internazionale. Ma, sempre secondo il diritto internazionale, l’intera lotta di Israele è un unico grande crimine. Questa è la differenza chiave che l’approccio [simmetrico] di Khan ha offuscato.
Ed è questo offuscamento che, con ogni probabilità, spiega una clamorosa anomalia nella sua applicazione. Come ha notato almeno un osservatore, i crimini di cui Khan accusa Netanyahu e Gallant ricalcano in modo quasi perfetto quelli elencati nella Convenzione ONU per il genocidio del 1948. In effetti, Khan ha messo in atto un trucco strano e inquietante: li ha accusati di genocidio, fingendo di parlare “solo” di crimini contro l’umanità e di crimini di guerra.
La spiegazione più plausibile di questa incoerenza è che ne avesse bisogno per mantenere la finzione dell’”equivalenza” tra Hamas e Israele. In realtà, però, è Israele e solo Israele a commettere genocidi. Se Khan avesse riconosciuto questo fatto cruciale nella sua richiesta di arresto, avrebbe dovuto riconoscere anche la principale differenza tra le due parti.
In ogni caso è importante notare ciò che le richieste di arresto non dicono, perché non possono: Non c’è alcun accenno alla propaganda standard di Israele secondo cui la resistenza palestinese in quanto tale sarebbe solo criminale (o “terroristica”). Al contrario, il rovescio della medaglia della mossa sospetta di Khan è che egli riconosce, implicitamente ma chiaramente, che la lotta armata palestinese nel suo complesso non è criminale, ma [che sono criminali] solo atti specifici al suo interno.
Con tutti i suoi difetti, sarebbe comunque miope sottovalutare il significato dei mandati di arresto di Khan, per diverse ragioni che non possono essere discusse tutte in questa sede. La più importante, in ogni caso, è che vedere il procuratore della Corte Penale Internazionale che accusa il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Yoav Gallant rappresenta un colpo mortale alla più importante risorsa politica di Israele: la sua impunità.
Il termine “più importante” va inteso in senso letterale, perché Israele non infrange occasionalmente la legge, come fanno molti Stati. Al contrario, Israele non potrebbe esistere nel modo in cui esiste senza violare costantemente la legge. Le annessioni formali e di fatto e gli insediamenti (Gerusalemme Est, le alture del Golan e la maggior parte della Cisgiordania), il suo arsenale nucleare, i suoi attacchi di routine (anche contro sedi diplomatiche) e gli assassinii al di fuori di Israele e, ultimo ma non meno importante, il suo regime di apartheid per sottomettere i palestinesi – tutto questo sfida sfacciatamente il diritto internazionale. (Perché l’apartheid non è solo il nome di un regime e di un crimine specifico, ormai storico, in Sudafrica. È piuttosto un crimine atroce e riconosciuto, proprio come, ad esempio, lo “sterminio“, anche se questo fatto è ancora troppo poco conosciuto). E questo prima ancora di iniziare a parlare in dettaglio dell’enorme numero di crimini contro l’umanità, crimini di guerra, pulizia etnica e genocidio contro i palestinesi che, ovviamente, risale a decenni fa.
Israele, insomma, non è un Paese normale. In realtà – espresso in un idioma centrista “liberale” – è il singolo e più evidente Stato canaglia al mondo, e ha goduto di uno straordinario privilegio di impunità. Come aveva sottolineato anni fa John Mearsheimer, semplicemente “non c’è responsabilità” per Israele. Si tratta, letteralmente, di uno Stato abituato a – e dipendente da – farla franca con l’omicidio.
Questa situazione è, sempre secondo le parole di Mearsheimer, “oltraggiosa“. Ma ciò che è più rilevante nel contesto delle recenti azioni della Corte Penale Internazionale è che questa impunità non è un lusso per Israele. È una necessità vitale. Per uno Stato così simile ad un’impresa criminale, l’essere tenuto a rispettare qualsiasi standard legale internazionale è fondamentalmente una minaccia. Come tutti i responsabili di un genocidio, Benjamin “Amalek” Netanyahu e Yoav “animali umani” Gallant sono individui orribili, ma sono sacrificabili. Ciò che l’establishment israeliano e le lobby internazionali di Israele temono davvero non è ciò che potrebbe accadere a questi due, ma l’effetto che i mandati di cattura contro di loro potranno avere sul futuro dello straordinario privilegio di Israele.
Qualunque siano le intenzioni di Khan, che lo abbia fatto deliberatamente o, forse, anche cercando di “ammorbidire il colpo“, come sospettano i suoi critici, le sue richieste aprono una breccia catastrofica e irreversibile nella corazza di impunità, finora indiscussa, di Israele. Pensateci: Se questo è il meglio che i vostri amici possono fare cercando di favorirvi, i vostri giorni potrebbero essere contati.
E che dire di quei leader occidentali, alti funzionari ma anche umili burocrati, che hanno sostenuto Israele con armi, munizioni, intelligence, copertura diplomatica e, non da ultimo, la vigorosa soppressione della solidarietà con le vittime palestinesi? Chi risiede a Washington può sentirsi al sicuro. Non perché gli Stati Uniti non riconoscono la giurisdizione della Corte Penale Internazionale. Si tratta, in realtà, di una formalità. Sono il potere e l’illegalità della politica americana che, per ora, li proteggono. Prevedibilmente, con il presidente Joe Biden in testa, hanno insolentemente sfidato la Corte Penale Internazionale, sostenendo di fatto che Israele, proprio come gli Stati Uniti, è al di sopra della legge. Le loro solite menzogne a volto scoperto – per esempio, l’assurda affermazione che la Corte Penale Internazionale non avrebbe giurisdizione (ovviamente, ce l’ha perché la Palestina è un firmatario riconosciuto dello Statuto di Roma: caso chiuso) non andrebbero neppure prese in considerazione.
Ma la situazione è diversa per i clienti dell’America. Non possono sentirsi così sicuri. I sostenitori di lunga data degli attuali crimini di Israele, come il cancelliere tedesco Olaf Scholz o il ministro degli Esteri Annalena Baerbock, per citarne solo due, devono ora cominciare a capire, che, lo ammettano o meno, anche le loro azioni sono molto probabilmente criminali. Perché la Convenzione sul genocidio criminalizza non solo la perpetrazione di un genocidio, ma anche la complicità. Inoltre, impone a ogni Stato firmatario l’obbligo di prevenire il genocidio.
Questi probabili complici potrebbero mai essere perseguiti, sia a livello internazionale che in patria? È un’idea irrealistica? Difficile da immaginare? Come potrebbero mai questi luminari dell’Occidente affrontare la stessa giustizia che intendono riservare, come uno di loro aveva ricordato a Khan, all’Africa e alla Russia? Eppure, prima della scorsa settimana, molti di noi avrebbero ritenuto impossibile che la Corte Penale Internazionale osasse davvero toccare gli israeliani. Il fatto di fondo, su cui né Karim Khan né nessun altro ha il controllo, è che il potere dell’Occidente di imporre i suoi due pesi e due misure sta diminuendo. Nel nuovo mondo multipolare che sta inevitabilmente emergendo solo una cosa è certa: i tempi stanno cambiando. Nessun perpetratore o complice di genocidio dovrebbe più stare troppo tranquillo, nemmeno in Occidente o tra i suoi favoriti. I giorni del privilegio e dell’impunità stanno per finire, in un modo o nell’altro.
Tarik Cyril Amar
Fonte: tarikcyrilamar.substack.com
Link: https://tarikcyrilamar.substack.com/p/israels-gaza-genocide-the-icc-and
23.05.2024
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org
Tarik Cyril Amar è uno storico ed esperto di politica internazionale. Ha conseguito una laurea in Storia moderna all’Università di Oxford, un master in Storia internazionale alla LSE e un dottorato in Storia all’Università di Princeton. È stato borsista presso il Museo dell’Olocausto e l’Istituto di ricerca ucraino di Harvard e ha diretto il Centro di storia urbana di Leopoli, in Ucraina. Originario della Germania, ha vissuto nel Regno Unito, in Ucraina, Polonia, Stati Uniti e Turchia.