Chi ci guadagna con la mondializzazione?
di José Francisco Puello-Socarrás
www.elcorreo.eu.org
Lo scorso 12 agosto (esattamente due
mesi prima della conclusione della ratifica degli Accordi di Promozione
Commerciale – precedentemente chiamati TLC – con Colombia, Panama
e Corea del Sud al Congresso degli Stati Uniti!), C. Fred Bergsten,
direttore del Peterson Institute for International Economics,
ha fatto un intervento intitolato “Gli Stati Uniti nell’Economia
Mondiale”.
La presentazione faceva parte di una serie di conferenze su temi “d’attualità” patrocinate ogni anno e durante un periodo di nove settimane dall’Istituto Chautauqua in riva al lago che porta lo stesso nome, nella città di New York [1].
Il discorso pronunciato da Bergsten
contestava, con un tono molto caratteristico, sia gli atteggiamenti
del Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, sia quelli del Partito
Repubblicano al Congresso, in quanto considerati come un affronto persistente,
da parte di entrambi, verso i temi strategici legati al commercio internazionale
del paese.
Secondo Bergsten, questa “indifferenza”
porterebbe gli Stati Uniti a perdere “una vera opportunità
di creare posti di lavoro”, un problema che – come sappiamo
– diventa sempre più inquietante per la maggior parte dei paesi “sviluppati”
e che si aggrava ancor di più con ciò che viene chiamata “la
crisi del debito sovrano” [2]. Bergsten suggeriva la necessità
di un avanzamento immediato in questo campo, partendo da una triade
di misure pratiche, dalle quali sarebbero scaturiti dei risultati molto
rapidi.
Ciò che si potrebbe interpretare
come una conferenza aneddotica, tra le mille altre che si tengono su
questi argomenti nella prima potenza mondiale – specialmente in questo
periodo di crisi capitalista –, contiene tuttavia qualche aspetto
che illustra le prospettive oggi avanzate dai principali centri egemonici
di potere di fronte alle sfide che provengono dalle riconfigurazioni
dell’attuale economia politica, sia in ambito statunitense che a livello
planetario.
Il discorso, la sua forma e il suo
contenuto, attirano l’attenzione per diverse ragioni.
Per prima cosa, per il suo centro di
diffusione. Bergsten – diciamolo – fu direttore dell’Istituto
Peterson per l’Economia Internazionale dal 1981 (anno della sua
creazione) sino ad oggi.
Questo centro di ricerca è ampiamente
riconosciuto come il “think tank” più influente del mondo.
Indubbiamente i “punti di vista” e i rapporti che ha prodotto sono
stati storici e sistematicamente accolti dalle autorità responsabili
in materia di politica economica (fondamentalmente su aspetti internazionali)
degli Stati Uniti, durante – almeno – gli ultimi tre decenni.
Basterebbe ricordare che nello staff
di ricercatori si trovano le figure universitarie che lavorano nelle
facoltà più “prestigiose” degli Stati Uniti e che la sua squadra
permanente intrattiene stretti legami con i principali organi governativi,
statali e multilaterali la cui sede è a Washington – cominciando
dalla Presidenza della Repubblica – e anche con il complesso circuito
di lobby che gravitano attorno a Wall Street. Tuttavia,
tra tutti, c’è una personalità che spicca in modo particolare: John
Williamson, economista che negli ultimi vent’anni è diventato famoso
per aver dato alla luce il Washington Consensus. L’Istituto
per l’Economia Internazionale (oggi Peterson Institute) fu l’istituzione
che nel 1989 fu “responsabile” dell’organizzazione delle conferenze
che diedero origine al tristemente celebre Consensus e, in seguito,
alle sue “versioni” successive [3]. Questa breve descrizione ci
fa già comprendere di chi stiamo parlando e quali “nuove” formule
cerchino di promuovere.
Il testo del discorso – nella seconda
parte – comincia riassumendo la situazione attuale dell’economia
statunitense. Bergsten nota, tra le altre cose, che oggi gli Stati Uniti
importano la metà del petrolio di cui l’economia ha bisogno; quasi
la metà dei bilanci contabili delle prime 500 aziende statunitensi
dipendono da operazioni internazionali [4]; la maggior parte del debito
del governo appartiene agli investitori stranieri, capitale che –
secondo Bergsten – finanzia una buona parte dell’investimento
interno necessario a mantenere una crescita economica “decente”
e, grazie al deficit commerciale registrato da questo paese da più
di trent’anni, gli Stati Uniti sono oggi i primi debitori al mondo:
possiedono un debito esterno lordo di circa 23 trilioni di dollari –
la maggior parte in mano a Cina, Russia e a qualche paese del Medio
Oriente, precisamente (guarda caso) ai principali esportatori di petrolio
– e chiedono prestiti al mondo dell’ordine di 500 miliardi di dollari
l’anno.
Sottolineava, inoltre, il deterioramento
dell’importanza economica degli Stati Uniti a livello mondiale, che
è letteralmente in discesa. Dopo la Seconda Guerra Mondiale l’economia
statunitense contribuiva per il 50% del PIL mondiale, mentre ora non
ne rappresenta più del 20% (settembre 2011), senza contare l’abbassamento
degli stipendi medi per più di “una generazione” e che la distribuzione
del reddito tende a peggiorare sempre di più. Certo, il panorama così
presentato non è per niente lusinghiero.
Secondo Bergsten la situazione «
di profonda crisi » nella quale si trova l’economia statunitense
può tuttavia essere capovolta: senza voler modificare la direzione
delle decisioni prese fino ad oggi e che, secondo parecchi analisti
statunitensi, sono le stesse che hanno accelerato le contraddizioni
economico-politiche che si estendono a livello mondiale, si tratta ora
di approfondire – fino alle sue ultime conseguenze – il “modello
di sviluppo” in vigore (termine col quale chiamiamo con eufemismo
le strategie di espansione imperialista, all’interno del capitalismo
contemporaneo) e, in particolare, quello che ha portato grandi benefici
ai capitali statunitensi: la mondializzazione.
Nonostante i problemi attraversati
dall’economia statunitense, il bilancio in questo senso spiega con
efficacia questa scommessa: “Gli Stati Uniti hanno enormemente
guadagnato con la mondializzazione. Il nostro paese
– dice Bergsten – è ogni anno più ricco di oltre un trilione
di dollari grazie all’integrazione commerciale. Ciò
equivale a circa il 10% di tutta la nostra rendita nazionale e a più
di 10.000 dollari per nucleo familiare. Con la globalizzazione finanziaria
che ha accompagnato i crescenti flussi commerciali, si accumulano dei
vantaggi addizionali (sottolineo) [Nota: “ i benefici complementari”
potrebbero aggiungere al calcolo altri 0,5 trilioni di dollari]. Ciò
che precede è visto dal lato dei benefici.
Durante questo periodo le perdite (“costi”,
secondo i termini di Bergsten) della mondializzazione per gli Stati
Uniti risultano essere alquanto differenti:
“Quasi mezzo milione di lavoratori (su una forza lavoro totale di
150 milioni) perdono ogni anno il loro lavoro, la maggior parte per
un periodo provvisorio, a causa dell’aumento delle importazioni. Alcuni
devono accettare posti di lavoro con bassi stipendi per lungo termine,
dovendo affrontare un abbassamento del tenore di vita nel futuro. Questi
effetti ammontano a circa 50 miliardi di dollari all’anno, un importo
sostanziale in termini assoluti,
ma soltanto un ventesimo della redditività
annua frutto della mondializzazione…” (reitero e
sottolineo). Ciò che precede non potrebbe essere più eloquente sullo
stile statunitense, storicamente deplorevole e cinico, riguardo a questi
argomenti: Gli affari sono affari!
La “mondializzazione”, – che
può essere di diversi tipi, dimensioni e magnitudine – a cui Bergsten
si riferisce qui e che adula fino al parossismo, è chiaramente quella
che favorisce esclusivamente gli interessi dei capitali statunitensi,
ovvero la mondializzazione a carattere neoliberista che, in questo momento
e secondo la sua opinione, dovrebbe avanzare verso la sua fase superiore:
il Libero Scambio (totale). Con questo obiettivo, Bergsten sembra voler
suggerire che gli Stati Uniti debbano insistere attraverso una “grande
campagna” – ancora più aggressiva di quella che si è vista finora
– per continuare a “negoziare” e ad allargare nuovi Trattati di
libero scambio bilaterali o plurilaterali (come “l’Accordo
p4” o Trans-Pacifico (TPP) che lega l’Asia e l’America) [5]
Non solo, Bergsten, nel suo tris di
“soluzioni”, prevede che, oltre ai TLC, il miglior sistema per consolidare
in modo sicuro il modello statunitense di “crescita basata sulle
esportazioni” e la miglior forma per assicurare i mercati mondiali
consisterebbe nell’ottenimento di un Trattato di Libero Scambio Mondiale
che sostituisca (o rianimi) il Round di Doha che, secondo la sua opinione,
fu un totale fallimento, dopo un decennio “di sforzi nelle negoziazioni”.
Per questi tentativi, propone “l’utilizzo” di istituzioni
economiche internazionali come il FMI e l’OMC.
Resterebbe da fare un’osservazione
chiave, ugualmente evocata nel discorso di Bergsten. Per il momento
non si è ancora sottolineato l’essenziale: questi trattati, per quanto
evochino un “Libero Scambio” – chiaramente inesistente nella pratica
perché si tratta degli affari di potenti monopoli multinazionali
– non trattano strettamente “di commercio”. Al contrario, questa
componente rappresenta solo una minima porzione di ciò che si è negoziato
in questi trattati. Si tratta piuttosto di accordi di “liberalizzazione
degli investimenti”, nei quali le componenti come i “servizi”
(specialmente finanziari; acquisti statali, diritto di proprietà, eccetera)
hanno un significato molto strategico [6].
Precisamente, ciò che precede
risponde al fatto che questi trattati – ricordiamolo, disegnati su misura
per gli interessi statunitensi – riproducono le stesse strutture produttive
e di interessi che esistono attualmente negli Stati Uniti dopo le varie
trasformazioni subite in questo paese dagli anni ‘80. Oggi il settore
industriale statunitense rappresenta al massimo il 10% dell’economia,
mentre l’agricoltura non più dell’1% e i servizi (soprattutto quelli
finanziari) più dell’80. Quest’ultimo settore fornisce il 25% dei
posti di lavoro e ha subito un’evoluzione negli ultimi trent’anni
a un tasso del 30% e con dei salari più alti del 10% rispetto a quelli
dell’industria.
Bergsten propone che gli “sforzi
internazionali” degli Stati Uniti debbano dirigersi principalmente
verso zone come l’America Latina e i Caraibi e verso le economie dette
emergenti. La legislazione, su questi aspetti, non è “pianificata”
(deregolamentata) e ciò presuppone delle grandi opportunità per “l’apertura
dei mercati”.
Noi insistiamo sul fatto che le “alternative”
prevalenti di fronte alla crisi attuale non prevedono soltanto di risolvere
la situazione con più capitalismo, ma, peggio ancora, con più neoliberismo,
questione che diventa drammatica per l’impronta selvaggia che deriva
da un sistema che mette in pericolo l’intera civilizzazione.
Note:
[1] Bergsten, F., « US and the World Economy, (Discorso rivolto alla Chautauqua Lecture Séries, «The US Economy: Beyond a Quick Fix», 12 Agosto 2011).
[2] Nella sua giusta proporzione, si
tratta solo di due elementi tra i numerosi che potrebbero essere considerati nel quadro di una crisi globale (che non solo tocca una manciata dipaesi del Nord ma, a poco a poco, si è “mondializzata” e colpisce le economie mondiali), strutturale (non si tratta di un “disordine”
superficiale, né esclusivamente economico o finanziario della logica capitalista, ma mina i fondamenti e le dinamiche stesse che lo strutturano), integrale (in questo momento assistiamo alla convergenza simultanea di diverse crisi generate dal sistema: una crisi alimentare, energetica, ambientale, biologica, politica, sociale, ideologica) e di lungo termine (retrospettiva e prospettiva, ecco perché gli annunci di un’uscita
rapida dalla crisi mancano di fondamento) del sistema capitalista.
[3] Riguardo alle differenti versioni
del Washington Consensus, cfr. Puello-Socarrás, J.F., “Nuova Grammatica del Neoliberismo”, Bogotá, Università Nazionale della Colombia, 2008.
[4] Ciò riporta l’attenzione al totale del debito statunitense (750 trilioni di dollari):
1) I derivati finanziari rappresentano l’81,13% (600 miliardi di dollari, ovvero 40 volte il PIL degli Stati Uniti; il PIL mondiale è di 60 miliardi di dollari, ovvero il 10% dei derivati) concentrati nel 2009 in cinque banche statunitensi. Nel 2011 quattro banche avevano in cassa quasi il 95,5% dei derivati (JP Morgan Chase, CityGroup, Bank of America e Goldman Sachs;
2) Sanità: 0,34%
3) Previdenza Sanitaria: 8,06%;
4) Previdenza Sociale: 5,37%;
5) FED: 3,18%;
6) Debito pubblico: 1,92%.
Informazione fornita dall’Ispettore delle Finanze degli USA, disponibile su: www.desdeabajo.info
[5] In realtà, e in tutti i casi dei TLC, la
regola non è la “negoziazione”, ma l’imposizione attraverso pressioni
extra economiche, politiche e, in base all’opportunità, militari
(una variabile talvolta poco commentata, ma inerente al progetto di
espansione egemonica), come lo mostra la storia più recente, in un
certo modo “l’integrazione »
economica si trasforma in necessità
progressiva di militarizzare dei territori come meccanismo per assicurare
i flussi di merci e la sicurezza giuridica.”
[6] Cfr. Estrada Álvarez, J., Diritti del capitale,
Bogotá, Università Nazionale della Colombia, 2010. Disponibile on
line su : www.espaciocritico.com.
Fonte: Libre-échange, l’étape supérieure du néolibéralisme
28.10.2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di FRANCESCA B.
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