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La Redazione

 

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L'ECONOMIA D'ORO ISRAELIANA

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A cura di Das schloss
Il 17 Luglio 2007
109 Views
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blankDEI PROF SHIMSHON BICHLER E JONATHAN NITZAN

Global Research

L’enigma

Molti osservatori dello scenario israeliano sono rimasti perplessi di fronte all’evidente resistenza del paese alle cattive notizie. I recenti titoli di testa sembrano uniformemente terribili. Mentre il paese si sta ancora riprendendo da una guerra rovinata, se non umiliante, con Hezbollah, i territori palestinesi scivolano ancora nel fermento e gli esperti parlano di un ennesimo conflitto con la Siria. Il coinvolgimento degli USA in Iraq e in Afghanistan si sta accrescendo e in molti parlano di un imminente attacco sull’Iran con gravi conseguenze regionali. I politici e i pubblici ufficiali israeliani – dal presidente al primo ministro, dal capo di stato maggiore al ministro della giustizia, sono stati trascinati nella corruzione e in altri scandali. I coraggiosi media capitalistici presentano consuetamente gli ufficiali del governo come truffatori incompetenti e il parlamento Israeliano come un’istituzione di nessuna rilevanza.

E tuttavia nessuna di queste notizie sembra avere alcun impatto sull’economia. Che va alla grande.I commentatori locali hanno tentato di dare una spiegazione a questo enigma per oltre un anno. Quasi tutti parlano dell’effetto della globalizzazione liberale. La lunga lotta per una finanza solida, dicono, sta finalmente portando i suoi frutti. Il governo è stato costretto ad arginare le proprie spese e il conseguente emergere di surplus finanziari aiuta adesso a liberare le scarse risorse per un uso privato più produttivo. Parallelamente, il libero mercato e la liberalizzazione del capitale attraggono gli imprenditori globali, consentendo al tempo stesso ai capitalisti israeliani di mettersi in contatto con il resto del mondo. Il Laissez faire è arrivato in terra santa: la follia politica del paese e l’instabilità della sicurezza nazionale non importano più per l’ ”economia”. [1]

Gli analisti stranieri offrono altre spiegazioni. Per Thomas Friedman del New York Times, il segreto sta nel genio israeliano. [2] L’immaginazione, l’innovazione e la flessibilità dei cittadini di questo paese, incoraggiati dall’istruzione superiore e dal sostegno del governo per l’imprenditoria, aiuterebbero Israele ad adattarsi e a rispondere ad un mondo che cambia di continuo. La prosperità secondo Friedman, viene dalla testa.

Il critico sociale Naomi Klein snobba Friedman [3]. Il rialzo del mercato azionario israeliano e i tassi di crescita paragonabili a quelli cinesi, controbatte, non sono fondati sul capitale umano, bensì sull’economia bellica del paese che sta mutando. Le calamità militari, il terrorismo e il contro-terrorismo presentano un ambiente ideale per lo sviluppo e la sperimentazione di armi di oppressione. Israele è diventato un grande laboratorio per tali armi. Sviluppa e sperimenta l’hardware e il software della violenza – contro i propri vicini arabi e contro la popolazione palestinese – per poi venderlo al resto del mondo. La prosperità economica cresce in tempo di crisi politica.

Il contesto storico

Queste esplicazioni più o meno plausibili, cadono nella stessa trappola: credere ai media capitalistici. Si affrettano a spiegare come l’economia israeliana sia in crescita senza mai fermarsi e chiedersi se lo è veramente.

Certo, il secondo quesito è meno entusiasmante del primo. Ma dato che tutti sembrano dare per scontato il “boom”, abbiamo pensato che fosse una buona idea controllare i fatti. Per maggior sicurezza.

Allora, l’economia israeliana è in crescita?

Chiaramente, la risposta non può essere trovata sulla base del rendimento dell’anno scorso o del trimestre più recente. Israele e la regione sono in fermento da decadi, quindi anche il comportamento dell’economia deve essere visto in un contesto storico. Facciamo proprio questo nella figura 1.

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[Il PIL procapite viene misurato in dollari costanti Geary-Khamis del 1990 che rappresentano la Parità di Potere di Acquisto (PPA). I dati per il 2004-2005 sono misurati in dollari USA costanti del 2000 e sono congiunti alle osservazioni precedenti. FONTE: Angus Maddison, World Population, GDP and per Capita GDP, 1-2003 AD; World Development Indicators.]

Il grafico è incentrato sul PIL procapite, espresso in prezzi costanti ed aggiustato per la Parità di Potere di Acquisto (PPA). Tale misurazione viene costruita con diversi passi. Prima di tutto, gli statistici stimano di anno in anno, il prodotto interno lordo del paese o PIL, espresso in prezzi prevalenti in un dato anno di base. Questa stima – che gli economisti chiamano PIL “reale” – rappresenta presumibilmente la “quantità ” aggregata dei nuovi beni e servizi prodotti (contrariamente al PIL “nominale”, che rappresenta sia i prezzi che le quantità di produzione).

Poi, gli statistici aggiustano il PIL “reale” affinché sia conforme ad uno standard internazionale di Parità di Potere di Acquisto (PPA). Dato che i vari paesi producono e consumano diverse “ceste” di beni e servizi, i loro “reali” livelli del PIL non sono facilmente comparabili. Il fine della conversione per la Parità di Potere di Acquisto (PPA) è di consentire questo raffronto. Per ottenere tale conversione gli statistici fanno l’ipotesi che tutti i paesi producano la stessa cesta internazionale. Attribuiscono poi a ciascun paese il livello di PIL “reale” che potrebbe raggiungere se dovesse produrre non i propri beni e servizi, ma quelli compresi nella cesta internazionale.

Infine, gli statistici dividono il PIL “reale” del paese in termini di PPA, per la grandezza della sua popolazione. Il risultato è il PIL procapite in prezzi costanti espressi in parità di potere di acquisto. Gli economisti impiegano quest’ultima misurazione per valutare la produttività media e il tenore di vita medio di ciascun paese – sia nell’arco del tempo che a raffronto con altri paesi.

Prima di guardare ai dati, dovremmo notare che queste misurazioni convenzionali della “produttività ” e del “tenore di vita” sono notevolmente problematiche, sia concettualmente che empiricamente. E lo stesso vale per l’importanza che viene comunemente data agli “aggregati monetari” e ai “valori medi” – un’importanza che serve ad ignorare e a nascondere la distribzione e la struttura portante dell’economia politica. Ciononostante ci limitiamo in questa sede a seguire le comuni pratiche, in modo da poter contestare il credo comune con i suoi stessi termini.

La figura 1 mette a confronto il rendimento pro capite di Israele con altri tre paesi: la Cina, l’India e gli Stati Uniti. Facciamo questo tracciando tre serie, ciascuna delle quali esprime il rapporto tra il PIL pro capite di Israele e il PIL pro capite di uno di questi tre paesi.

La visione d’insieme indica la metà degli anni ‘70 come un chiaro punto di svolta. Durante il suo cosiddetto periodo “socialista”, Israele ha sovraprodotto. Dopo l’ascesa del Likud del 1977 e l’arrivo del “liberalismo” Israele è rimasto indietro.

Le due serie inferiori tracciate con scala sull’asse di sinistra, seguono il rendimento di Israele in relazione alla Cina e all’India. Possiamo vedere che il PIL procapite di Israele all’inizio degli anni ’50 era all’incirca sei volte quello della Cina ed è raddoppiato, arrivando fino a dodici volte, entro la metà degli anni ’70.

Da quel punto in poi, tuttavia, il processo si è invertito. Il PIL procapite della Cina è andato alle stelle, Israele ha indugiato e il rapporto tra i due paesi è caduto precipitosamente. Nel 2005, il PIL procapite israeliano era solo 3 volte quello cinese, che rappresenta una riduzione di quattro volte dalla metà degli anni ’70.

Uno sviluppo simile seppure meno marcato, è evidente dal raffronto con l’India. Anche qui, Israele ha superato in resa fino alla metà degli anni ’70, per poi invertire il processo.

Visto da questa prospettiva a lungo termine, il recente “boom” di Israele – presumendo che ve ne sia uno – è un rialzo in un contesto a lungo termine di declino. Nonostante le sue tre decadi di liberalizzazione, genio imprenditoriale e sperimentazione militare, Israele non ha saputo raggiungere tassi di crescita nemmeno vicini a quelli della Cina o dell’India.

Certo, si potrebbe ragionevolmente contestare questo raffronto. Ovviamente, è fuorviante mettere a confronto Israele – una società capitalistica matura – con “mercati emergenti” come la Cina e l’India.

Ma dopotutto, Israele non ha dato grandi risultati neanche in relazione ai paesi capitalistici maturi. La serie tracciata in alto nella figura 1 con scala sull’asse di destra, mostra il rapporto tra il PIL procapite di Israele e quello degli Stati Uniti.

Come nel caso della Cina e dell’India, anche qui Israele ha superato gli Stati Uniti fino alla metà degli anni ‘70, ed ha avuto un calo della produttività da quel momento in poi. Il suo PIL procapite è sceso dal 62 percento di quello degli Stati Uniti nel 1975 al 57 per cento nel 2005.

Dove sono andati tutti i capitalisti?

Così , non c’è niente di davvero miracoloso riguardo all’economia israeliana. Ma dopotutto, puntare l’attenzione sulla “economia di Israele” è fuorviante in sé.

Le misurazioni dei tassi di crescita nazionali, del PIL procapite, della disoccupazione ed altro possono essere di grande importanza per la maggior parte degli Israeliani. Ma sono irrilevanti per i capitalisti israeliani.

Ci sono due motivi principali a giustificazione di questa asserzione. Prima di tutto e più in generale, i capitalisti sono interessati non alla crescita della produzione “materiale” e del cosiddetto capitale “reale”, ma all’espansione dei loro capitali finanziari. E per quanto strano possa sembrare, il “reale” mondo del rendimento economico e il mondo “nominale” della finanza sono spesso non collegati e talvolta si muovono persino in direzioni opposte. [4]

In secondo luogo e specificamente per il nostro scopo in questa sede, c’è la questione dell’identità . Le misurazioni economiche non importano per i capitalisti israeliani semplicemente perché sono rimasti molti pochi capitalisti “israeliani”.

Dall’inizio degli anni ‘90 in poi l’apertura d’Israele sia all’esterno che all’interno, ha creato un enorme flusso di capitale in entrambe le direzioni. Imprenditori globali, corporazioni transnazionali, oligarchi russi e riciclatori di denaro sporco si sono tutti raccolti in Israele. Hanno acquistato qualsiasi cosa di valore – azioni e obbligazioni, intere società e le migliori proprietà immobiliari, squadre sportive e politici locali. Parallelamente, i capitalisti nazionali si sono diversificati all’estero: hanno preso i profitti dei propri investimenti locali e li hanno investiti fuori da Israele.

Il risultato netto di questo processo bidirezionale è stata la scomparsa non solo della classe di capitalisti “israeliana”, ma anche delle società “israeliane”.

Al giorno d’oggi tutti i grandi capitalisti che vivono in Israele (almeno per parte del tempo), hanno investimenti globali che spesso mettono in ombra i loro patrimoni all’interno d’ Israele propriamente. E praticamente tutte le aziende principali basate in Israele sono transnazionali – per operazioni, proprietà , o entrambe le cose.

In altre parole, la questione non è che l’accumulazione israeliana sia diventata indifferente alla politica israeliana, ma piuttosto che l’accumulazione israeliana sia diventata sempre meno degli “Israeliani”.

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[L’indice TASE (Tel Aviv Stock Exchange) è basato sulla congiunzione dei dati dell’FMI (fino a dicembre 1976), dell’indice generale (da gennaio 1977 a marzo 1993) e dell’indice Mishtanim (da aprile in poi). Sia il TASE che il NASDAQ sono espressi in dollari USA. La serie mostra le osservazioni mensili. La linea retta che attraversa le osservazioni è una regressione lineare. FONTE: FMI e NASDAQ attraverso Global Insight; TASE.]

La conseguenza di questa transnazionalizzazione di proprietà è illustrata nella figura 2. Il grafico correla i tassi di crescita annuali della Borsa di Tel Aviv (TASE) e del NASDAQ (con dati fondamentali mensili denominati in $ USA). Ciascun punto della serie rappresenta la correlazione durante il quinquennio precedente, con valori cha vanno da un minimo di –1 (che indica che i tassi di crescita dei due mercati azionari si muovono in direzioni esattamente opposte), a un punto mediano di 0 (che denota che i due mercati non sono correlati) e fino ad un massimo di +1 (quando i tassi di crescita si muovono esattamente nella stessa direzione).

La tendenza che emerge dal grafico è priva di ambiguità. Durante gli anni ’80, i due mercati erano pressappoco indipendenti. La correlazione tra di essi era bassa e spesso negativa. Ma con l’andare del tempo e in particolare a partire dall’inizio degli anni ’90, la transnazionalizzazione del capitale e dei capitalisti “israeliani” ha reso tale correlazione sempre più stretta.

Quando abbiamo tracciato per la prima volta questa relazione nel 2001 ill coefficiente di correlazione si avvicinava allo 0.7. Già dal 2006 aveva raggiunto lo 0.92. [5] In linguaggio non tecnico quest’ultimo numero suggerisce che, nel periodo dal 2001 al 2006 il 92 percento delle variazioni del TASE potevano essere “spiegate” con le variazioni del NASDAQ (sarebbe difficile dire il contrario). E appunto, poiché le due classi di beni hanno in comune proprietari simili, hanno fonti di guadagno simili e si trovano negli stessi pool di liquidità, non c’ è veramente ragione alcuna per cui non dovrebbero muoversi insieme.

Quindi, se ill mercato azionario di Israele è al momento in crescita, non è né a causa né a dispetto della “situazione politica”. Cresce per la stessa ragione del NASDAQ. E quando il TASE va in picchiata, nuovamente, non dobbiamo cercare spiegazioni locali o regionali. Basta controllare ill NASDAQ.

Naturalmente, la politica israeliana continua ad aver peso in molti modi diversi. Ha importanza per le società nella lista di Tel Aviv fintanto che garantisce che la borsa possa aprire ogni mattina, e che le operazioni israeliane possano funzionare senza ostacoli. Anche la politica interna importa fintanto che interessa gli sviluppi nel Medio Oriente e quindi l’accumazione globale, ill NASDAQ e pertanto… il TASE.

Ma la politica formale importa non perché pubblica. Importa proprio perché è contro ill pubblico. Finché i “politici” e i “pubblici ufficiali” patriottici del paese rimangono obbedienti al capitale in nome della democrazia, e finché il costo per corromperli rimane ragionevolmente basso, ill boom dell’accumulazione privata che ne risulta rimarrà misteriosamente “distaccato” dalla frattura della vita pubblica e della disintegrazione dell’autonomia e della democrazia.

Note

[1] Nechemia Strassler, Buy Me Gaidamak, Hebrew. Ha’aretz, June 13, 2007.

[2] Thomas Friedman, Israel Discovers Oil, The New York Times, June 10, 2007.

[3] Naomi Klein, How War was Turned into a Brand, Guardian, June 16, 2007.

[4] Vedete la nostra recente monografia The Gods Failed, the Priest Lied, Maggio 2007, e la più generale discussione in Elementary Particles of the Capitalist Mode of Power, Ottobre 2006.

[5] Per le prime stime vedete, Jonathan Nitzan e Shimshon Bichler, The Global Political Economy of Israel, Londra: Pluto Press, 2002, Figura 6.6, p. 355.

Le pubblicazioni degli autori possono essere consultate presso il sito Bichler Nitzan Archive
Titolo originale: “Israel’s Roaring Economy”

Fonte: http://www.globalresearch.ca/
Link
06.07.2007

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di MICAELA MARRI

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