LE CONTRADDIZIONI DELLA PRIMAVERA ARABA

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DI IMMANUEL WALLERSTEIN
Al Jazeera

Lo spirito del

‘68 scorre nella Primavera Araba e nel movimento Occupy, così

come i tentativi controcorrente di reprimere la ribellione

Si dice che le rivolte nei paesi arabi, note anche come Primavera

Araba, furono scatenate dal suicidio di Mohamed Bouazizi in un piccolo

villaggio della Tunisia il 17 dicembre del 2010. La forte vicinanza

e le emozioni risvegliati da questo atto hanno portato, in un tempo

relativamente breve, alla destituzione del presidente tunisino Tunisia

e poi a quella del presidente egiziano. In modo davvero rapido, le agitazioni

si sono estese a quasi tutte le nazioni arabe e persistono tuttora.La gran parte delle analisi che leggiamo

sui giornali o in Internet tralasciano la fondamentale contraddizione

di questo fenomeno, ossia che la cosiddetta Primavera Araba è composta

da due correnti radicalmente differenti, che si muovono in direzioni

opposte. La prima è erede della rivoluzione mondiale del ‘68, la

“corrente 1968” che potrebbe meglio essere definita come “seconda

rivolta araba”.

Il suo obiettivo è di raggiungere

un’autonomia globale del mondo arabo come tentò di fare la “prima

rivolta araba”. Questa rivolta fallì principalmente per le efficaci

misure franco-britanniche per frenarla, cooptarla e reprimerla.

La seconda corrente è rappresentata

dal tentativo di tutti gli attori importanti geopoliticamente di controllare

la prima corrente, in modo da deviare le iniziative collettive del mondo

arabo in modo da poterne trarre singolarmente vantaggio. I protagonisti

in questione ritengono che la “corrente 1968” sia molto pericolosa

per i propri interessi. Hanno fatto tutto quanto in loro potere per

deviare l’attenzione e l’energia dagli obbiettivi della “corrente

1968”, in quella che ritengono un’attività di distrazione.

Il passato non ha ottenuto niente

Che cosa intendo quando dico “corrente 1968”? Ci sono due aspetti

essenziali della rivoluzione del ‘68 che sono ancor oggi rilevanti.

Primo: i rivoluzionari del 1968 protestavano contro l’atteggiamento

sostanzialmente antidemocratico di quelli che erano al potere. Fu una

ribellione contro l’uso (o abuso) dell’autorità a tutti i livelli:

del sistema mondiale come unicum; dei governi nazionali e locali;

delle varie istituzioni non governative in cui la gente partecipa o

a cui è subordinata (dai luoghi di lavoro, alle strutture educative

o nei partiti politici e nei sindacati).

Con un linguaggio sviluppatosi successivamente,

i rivoluzionari del ‘68 furono contro la il decisionismo verticale

e a favore dell’orizzontalità partecipativa e quindi popolare. In

genere, anche se con le dovute eccezioni, la “corrente 1968” fu

profondamente marcata dal concetto della resistenza non violenta, nella

versione del satyagraha sviluppata dal Mahatma Gandhi, da quella

perseguita da Martin Luther King e dai suoi collaboratori, o anche dalle

versioni precedenti quella di Henry David Thoreau.

Nella “Primavera Araba” abbiamo

potuto come questa corrente sia stata adottata in Tunisia e in Egitto.

È stato il pronto sostegno pubblico a questa corrente che terrorizzò

i soggetti al potere, i governanti di tutti le nazioni arabe senza eccezioni,

i governi degli stati “esteri” che erano molto attivi nella geopolitica

del mondo arabo, tra cui i governi di Stati molto lontani.

La diffusione di una logica antiautoritaria,

e specialmente il suo ubiquo successo, era una minaccia generalizzata.

I governi del mondo unirono le forze per distruggere la “corrente

1968”.

Un movimento mondiale in crescita

Finora non sono stati in grado di farlo. Anzi, al contrario la corrente

sta guadagnando forza in tutto il mondo, da Hong Kong a Atene, Madrid,

Santiago del Cile, Johannesburg e New York. Non è solo il risultato

della Primavera Araba, perché i semi di ribellione e anche le prime

rivolte si verificarono prima del dicembre 2010. Ma il fatto che sia

avvenuto in modo così marcato nel mondo arabo – in un primo tempo abbastanza

indifferente a questo approccio – ha dato un abbrivio importante alla

crescita del movimento in tutto il mondo.

Come hanno risposto i governi a questa

minaccia? Ci sono solo tre sistemi per reagire di fronte a una minaccia

di questo tipo: repressione, concessioni e distrazioni. Tutte e tre

le reazioni sono state utilizzate, fino a un certo punto, hanno ottenuto

alcuni risultati.

Naturalmente le realtà politiche di

ogni nazione sono differenti e per questo la mistura di repressione,

concessioni e distrazioni sono state diverse da un paese all’altro.

Comunque, secondo me quella che è

risultata decisiva è stata la seconda caratteristica della rivoluzione

mondiale del ‘68. La rivoluzione mondiale del ’68 incluse in modo

deciso una rivoluzione della “gente dimenticata”, cioè di tutti

quelli che erano stati esclusi dai programmi e dagli interessi delle

principali forze organizzate nell’ambito politico. A questa gente,

a queste persone dimenticate, venne sempre detto che le loro preoccupazioni,

le loro lamentele, le loro richieste erano secondarie e dovevano essere

posticipate fino a quando non fossero state risolte le questioni principali.

Chi erano queste persone dimenticate?

Prima di tutto le donne, la metà della popolazione del mondo.

In secondo luogo tutti quelli che venivano definiti come “minoranze”,

un concetto che non è numerico ma sociale (e che è stato generalmente

definito in termini di razza, religione, lingua o di una combinazione

di queste).

Oltre alle donne e alle “minoranze”

sociali, esiste poi una lunga lista di altri gruppi che hanno preteso

con insistenza di non essere lasciati nel dimenticatoio: quelli che

avevano “altre” preferenze sessuali, i disabili, quelli che facevano

parte delle popolazioni “indigene” nelle zone sottoposta all’immigrazione

da parte di potenze straniere nel corso degli ultimi cinquecento anni,

coloro che erano seriamente preoccupati per le minacce verso l’ambiente,

i pacifisti. La lista ha continuato a crescere, e a poco a poco sempre

più gruppi sono diventati coscienti del proprio status di “persone

dimenticate”.

Analizzando uno Stato arabo dopo l’altro,

si rende conto abbastanza velocemente che la lista della gente dimenticata

e i rapporti con i regimi al potere variano considerevolmente. Da questo

variano molto le “concessioni” rilasciate per limitare le rivolte.

Varia anche il grado in cui la “repressione” risulta semplice o

difficile per il regime. Ma non bisogna dubitare del fatto che tutti

i regimi vogliono, prima di tutto, rimanere al potere.

Un modo per rimanere al potere è

quello di unirsi alle ribellioni, facendo fuori un personaggio, che

può essere il presidente o il primo ministro, per sostituirlo

con le militari pseudo-neutrali. È esattamente quello che è successo

in Egitto. È quello di cui si stanno lamentando oggi quelli che sono

tornati a occupare piazza Tahrir in Egitto mentre cercano di ridare

vita alla “corrente 1968”.

Il problema dei principali attori geopolitici

è che non sanno come meglio “distrarre” l’attenzione e come sostenere

i propri interessi nel mezzo delle sollevazioni. analizziamo quello

che i vari protagonisti hanno cercato di fare e che tipo di successo

hanno raggiunto. Così saremo meglio in grado di valutare le prospettive

della “corrente 1968” oggi e in un futuro relativamente vicino.

Redenzione ex coloniale

Dovremmo iniziare la storia dalla Francia e dal Regno Unito, le ex potenze

coloniali sempre più debilitate. Entrambe si sono trovate a mal partito

in Tunisia e in Egitto. I loro dirigenti avevano beneficiato in prima

persona dalle due dittature. Non le hanno solo sostenute durante le

rivolte, ma hanno anche offerto consulenze sul modo di reprimerle.

Alla fine, ma troppo tardi, si sono

rese conto del grave errore politico commesso. Dovevano trovare un sistema

per redimersi. Lo hanno trovato in Libia.

Anche Muammar Gheddafi, proprio come

i francesi e gli inglesi, aveva sostenuto in pieno Zine El Abidine Ben

Ali e Hosni Mubarak. Di sicuro Gheddafi ha fatto più degli altri, deplorando

le loro dimissioni. Era ovviamente molto preoccupato per quello che

stava avvenendo nei due paesi vicini. A dire il vero, non c’erano

stati segnali significativi della presenza in Libia di una vera “corrente

1968”, ma c’erano abbondanza di gruppi insoddisfatti. E quando questi

gruppi iniziarono a ribellarsi, fece lo spaccone sul modo in cui li

avrebbe repressi.

Francia e Gran Bretagna videro una

grossa opportunità.

Nonostante il fatto che questi due

paesi (e altri) avessero intrapreso attività remunerative in Libia

da almeno un decennio, scoprirono improvvisamente che Gheddafi era un

terribile dittatore, e senza dubbio lo era. Decisero che, per redimersi,

dovevano offrire il loro supporto militare ai ribelli libici.

Oggi, Bernard-Henri Lévy si fa pubblicità

sul come è riuscita a creare un collegamento fra il presidente

Sarkozy e la struttura dei ribelli libici nell’ambito di un intervento

per la promozione dei diritti umani. Francia e Gran Bretagna, anche

se determinate, non avrebbero potuto sconfiggere da sole Gheddafi. Avevano

bisogno degli Stati Uniti. Naturalmente all’inizio Obama era riluttante.

Ma, per le pressioni interne (“per promuovere i diritti umani”),

si gettò in quell’aiuto militare e politico degli Stati Uniti, che

oggi viene definita un’iniziativa della NATO. Lo ha potuto fare, potendo

asserire, alla fine fin dei conti, di non aver perso una sola vita statunitense,

ma solo vite libiche.

Se Gheddafi si spaventò per il

rovesciamento di Mubarak, lo stesso avvenne per i sauditi, che videro

nell’acquiescenza occidentale (e nella successiva approvazione) della

sua dipartita un precedente davvero pericoloso, Decisero così di perseguire

una propria linea indipendente: la difesa dello status

quo.

Lo difesero prima di tutto all’interno,

poi nel Consiglio di Cooperazione del Golfo (e in particolare in Bahrein),

poi in altre monarchie (Giordania e Marocco), poi in tutti gli Stati

arabi. E nei due paesi confinanti dove c’era il massimo agitazione

– Yemen e Siria – iniziarono a spingere per la mediazione in cui

tutto cambia perché nulla cambi.

Una corrente difficile da contenere

Il nuovo regime egiziano, sotto attacco interno della “corrente 1968”

e sempre sensibile del fatto che la supremazia dell’Egitto nel mondo

arabo era fortemente diminuita, iniziò a rivedere il suo approccio

geopolitico, prima di tutto con il dirimpettaio Israele.

Il regime voleva prendere le distanze

da Israele, ma senza mettere a repentaglio la possibilità di ottenere

aiuti finanziari dagli Stati Uniti. Divenne quindi un aperto difensore

della riunificazione del frazionato mondo politico palestinese, sperando

che questa riunificazione avrebbe non solo costretto Israele a concessioni

significative, ma che allo stesso tempo avrebbe ostacolato lo

svilupparsi della “corrente 1968” fra i palestinesi.

Due paesi vicini – Turchia e Iran

– hanno cercato di trarre profitto dalla rivolta araba rafforzando

la loro legittimazione da protagonisti del Medio Oriente. Non era un

compito facile, proprio perché dovevano anche preoccuparsi del livello

di minaccia rappresentato dalla “corrente 1968” al loro interno:

i curdi in Turchia, le numerose fazioni nella complessa politica interna

iraniana.

E Israele? Israele è stata presa

d’assalto dalla prospettiva di una “delegittimazione” nel mondo

occidentale (persino in Germania, persino negli Stati Uniti), in Egitto

e Giordania, in Turchia, in Russia e Cina. E allo stesso tempo ha dovuto

affrontare una “corrente 1968” che è emersa nella popolazione ebraica

d’Israele.

E, mentre assistiamo a questi giochi

di prestigio geopolitici, la Primavera Araba è diventata una parte

di quella che è oggi una rivolta planetaria: gli Oxi in

Grecia, gli Indignados in Spagna, gli studenti in Cile, i movimenti

Occupy che si sono estesi a 800 città degli Stati Uniti, gli scioperi

in Cina e le manifestazioni a Hong Kong, vari altri avvenimenti in tutta

l’Africa.

La “corrente 1968” è in fase di

crescita, malgrado la repressione, le concessioni e la cooptazione.

E, geopoliticamente, in tutto il mondo

arabo il successo dei vari protagonisti è stato limitato, se non controproducente.

Piazza Tahrir è diventata un simbolo in tutto il mondo. Certo, molti

movimenti islamici sono stati in grado di potersi esprimere apertamente

in quelle nazioni arabe dove prima non potevano farlo. Ma lo stesso

è successo per le forze laiche. I sindacati stanno riscoprendo il loro

ruolo storico.

Quelli che credevano che le rivolte

arabe, le rivolte in tutto il mondo, fossero un momento di passaggio,

faranno esperienza dell’esplosione di una grossa bolla (e prevediamo

che ciò avverrà presto), dopo di che non sarà così semplice riuscire

a contenere la “corrente 1968”.

**********************************************

Fonte: The contradictions of the Arab Spring

14.11.2011

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE

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