DI TOUFIC HADDAD
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Se lo scambio di carcerati annunciato
l’11 ottobre del 2011 tra Hamas e il governo israeliano si applicherà
integralmente senza ulteriori incidenti, non c’è dubbio su chi abbia
“vinto” questa guerra di posizione durata cinque anni: l’accordo
costituisce una gran vittoria per Hamas e per le forze politiche della
società palestinese orientate verso la resistenza, e allo stesso tempo
rappresenta un significativo passo indietro di Israele e della sua dottrina
storica di coercizione e di rifiuto verso il popolo palestinese e i
suoi diritti.
Non ci dobbiamo sbagliare: i risultati
tangibili e i precedenti storici contenuti in questo accordo rivaleggiano
se non superano altri accordi recenti sulla liberazione dei prigionieri.
Ciò non significa che l’accordo abbia soddisfatto tutte le aspettative
che si erano riposte. Neanche dobbiamo tralasciare il caro prezzo che
la società e le forze politiche palestinesi hanno pagato per tradurlo
in realtà. E neppure vanno perse di vista le complesse concessioni
elargite da Hamas come condizioni finale per la liberazione di alcuni
carcerati. Prendendo tutto in considerazione, questo accordo deve essere
comunque considerato un’importante vittoria per Hamas, e qualunque altra
lettura di questo insieme di risultati fraintende l’elementare equilibrio
di forze tra i palestinesi e i loro occupanti nel contesto della lotta
per ottenere i diritti palestinesi.
Come interpretare l’accordo Shalit
e valutare i suoi risultati per il movimento palestinese? Quali sono
i criteri con cui giudicare e analizzare in prima battuta questo tipo
di accordi? Per poter rispondere a queste domande e apprezzare più
a fondo le dinamiche in gioco, è necessario conoscere bene il contenuto
dell’accordo, con cui si può fissare con più decisione una valutazione.
I fatti
Supponendo che si porti a termine con
successo la liberazione dei carcerati basandosi sulla lista ufficiale
di detenuti pubblicata da entrambi i parte alla mezzanotte del 16 di
ottobre 2011, l’accordo nella sua interezza sembra il seguente:
In cambio della liberazione del sergente
dell’esercito israeliano Gilad Shalit, che è stato sequestrato da Hamas
dal 25 giugno del 2006, l’Israele libererà un totale di 1.050 prigionieri
in tre fasi.
In realtà, la prima fase della liberazione
ha avuto luogo nel settembre del 2009, quando Israele liberò ventitre
prigionieri in cambio di un video trasmesso da Hamas che dimostrava
un “segno di vita” di Shalit. Quelli prigionieri comprendevano
20 donne e 3 uomini provenienti dalle Alture del Golan occupate da Israele.
I restanti 1.027 prigionieri dovranno
essere liberati in due tappe. La prima e più importante, il 18 ottobre
di 2011, vedrà la liberazione da parte di Israele di 477 carcerati,
di cui 450 uomini e ventisette donne. Questi prigionieri sono stati
il soggetto di feroci negoziazioni, in cui si è discusso il destino
di ogni carcerato mediante negoziazioni indirette tra le parti in conflitto,
sotto la mediazione egiziana e, prima ancora, tedesca.
La seconda e ultima tappa dell’accordo
si realizzerà fra due mesi, e implica la liberazione di 550 prigionieri.
Questi verranno liberati sulla base di un insieme di criteri stabiliti
da Hamas e Israele, e la prima ha voluto mantenere una certa discrezionalità
sulla selezione dei nomi. In altre parole, Israele non può arrestare
550 persone un giorno e liberarli il giorno successivo, dicendo così
di aver soddisfatto i propri obblighi.
I carcerati liberati nella prima e
più importante fase, su cui limitiamo la nostra discussione in
questo momento, sono soggetti ad alcune condizioni negoziate:
- 218 verranno riportati
alle proprie abitazione senza nessun tipo di condizioni, di cui 133
a Gaza, 68 in Cisgiordania, 9 a Gerusalemme Est, 7 all’interno di Israele,
1 nelle Alture del Golan occupate da Israele e 1 in Giordania);
- 204 verranno deportati,
di cui 40 all’estero; ci sono voci secondo cui saranno inviati in
Turchia, Qatar, Siria e Giordania. Di essi, 164 verranno portati a Gaza,
18 dei quali potranno ritornare nelle loro case in Cisgiordania dopo
tre anni;
- 55 verranno liberati nell’ambito
di un qualche accordo di sicurezza, la cui natura non è stato ancora
rivelata completamente. Tra questi, ci sono 49 della Cisgiordania e
6 di Gerusalemme.
Essendo questo lo schema elementare
dell’accordo, la “valutazione” dei dati rivela altri aspetti
che vale la pena evidenziare.
La
“qualità” dei prigionieri
Hamas è riuscita con successo
a costringere Israele alla liberazione di un gran numero di carcerati
condannati a lunghe pene detentive. Infatti, 315 dei 477 prigionieri
che verranno liberati nella prima fase avevano condanne all’ergastolo,
310 uomini e 5 donne; 144 carcerati avevano pene superiori ai dieci
anni; solo 9 carcerati hanno condanne inferiori a dieci anni e altri
9 carcerati hanno sentenze indeterminate, che siano fermi amministrativi
o detenuti in attesa di giudizio.
L’impressionante valenza di questo
accordo si illustra meglio con la somma del numero totale di anni di
carcere stralciati dall’accordo, almeno sulla carta.
Dei 315 prigionieri che devono essere
liberati e che sono condannati all’ergastolo, poco più della metà
(163) sono condannati a condanne multiple all’ergastolo (tra 2 e 36).
In totale, si arriva a 926 ergastoli. Per farsi un’idea della durata
totale della detenzione, i tribunali israeliani fissano l’”ergastolo”
in venticinque anni di prigione. A parte i pochi casi di quei palestinesi
che sono stati giudicati da questi tribunali – di solito perché sono
cittadini israeliani – la maggioranza dei prigionieri palestinesi non
può avvalersi di questa definizione dell’”ergastolo”, perché
sono stati giudicati dai tribunali militari, dove la durata di questa
condanna è indefinita. Se si dovesse applicare l’interpretazione dell’ergastolo
di un tribunale civile israeliano (venticinque anni) alla totalità
dei palestinesi condannati a questa pena, si arriva al dato di 23.150
che sono stati cancellati da questo accordo. Dobbiamo sottolineare che
questo numero è solo illustrativo perché, in ogni caso, un prigioniero
non potrebbe scontare più di tre ergastoli, pari a 75 anni, nel corso
di una vita. D’altra parte, sono già stati trascorsi alcuni anni in
prigione che ovviamente non possono essere “cancellati”.
Oltre a quelli condannati all’ergastolo,
il numero totale di anni delle persone che hanno pene detentive di lunga
durata arriva a più di 4.585 anni.
Se sommiamo i due dati, l’accordo ha
stralciato in pratica il numero sbalorditivo di 27.735 anni di carcere.
E ciò considerando unicamente meno della metà del totale
dei prigionieri liberati, circa il 45 per cento.
Periodo di carcerazione
L’accordo Shalit contempla la liberazione
di carcerati palestinesi di periodi che risalgono anteriormente anche
alla prima Intifada fino ai periodi più recenti della storia palestinese:
40 furono fermati prima della prima Intifada, ossia dell’8 dicembre
1987; 112 furono arrestati durante la prima Intifada, dal dicembre 1987
al 13 settembre 1993; 81 negli anni del “processo di pace di Oslo”,
dal settembre 1997 al 28 settembre del 2000, e i restanti 244 furono
fermati nella seconda Intifada, dal settembre 2000 ai giorni nostri.
Orientamento politico
Secondo i Servizi Penitenziari israeliani,
la collocazione politica dei prigionieri è la seguente: 307 sono
di Hamas, 99 di Fatah, 27 della Jihad Islamica e 24 del Fronte
Popolare. Il resto proviene da fazioni più piccole (principalmente
dal Fronte Democratico, dai Comitati di Resistenza Popolare e dal Fronte
Popolare- Comando Generale), o non sono vincolati ad alcun gruppo politico.
La distribuzione demografica
I prigionieri liberati provengono da
tutte le zone geografiche della Palestina storica, tra cui 289 dalla
Cisgiordania, 134 dalla Striscia di Gaza, 46 da Gerusalemme Est e 8
dalle comunità palestinesi interne a Israele, tra cui uno dalle Alture
del Golan occupate. Tra i cisgiordani, c’è una donna residente in Giordania
e una seconda che è ucraina, ma che viveva sempre in Cisgiordania.
Analisi: i risultati ottenuti
Non si può emettere un giudizio
sull’accordo Shalit da una visuale che si avvale di una purezza morale
o politica, ma deve partire piuttosto del riconoscimento dell’equilibrio
delle forze in gioco che sono presenti tra le parti in conflitto e i
precedenti storici delle relazioni. Non esiste un criterio assoluto
per giudicare questi aspetti, visti i differenti interessi e necessità
di ogni parte negoziatrice, che sono soggetti a cambiamenti nell’orizzonte
temporale e per questo di difficile quantificazione.
Per questo motivo, per iniziare nell’analisi
dell’accordo Shalit è utile capire che prima della sua cattura, Israele
si rifiutava di riconoscere Hamas come entità politica legittima; questo
non riconoscimento è rimasto tale, nonostante la vittoria di Hamas
nelle elezioni democratiche del 2006. Israele ha respinto in seguito
ogni rapporto formale con Hamas e ha incoraggiato altre nazioni a comportarsi
allo stesso modo. Poco dopo la cattura di Shalit, l’ufficio del Primo
Ministro israeliano reiterò questa posizione affermando che “non
ci saranno trattative per liberare prigionieri. […] Il governo israeliano
non cederà all’estorsione da parte dell’Autorità Palestinese e del
governo di Hamas, che sono diretti da organizzazioni terroristiche assassine.
L’Autorità Palestinese si deve assumere la piena responsabilità
per la salute di Gilad Shalit e il suo rilascio in Israele in buone
condizioni.”
In questo senso, la stessa chiusura
di un accordo con Hamas è già un’importante concessione da parte di
Israele. Israele ha cercato in tutti i modi di recuperare Shalit senza
dovere negoziare ma non ci è riuscito. Settimane dopo la sua cattura,
un’iniziativa fallita per recuperarlo, l’”Operazione Pioggia
d’Estate” causò la morte di più di 400 palestinesi. La massiccia
offensiva israeliana dell’”Operazione Piombo Fuso” tra il
dicembre del 2008 e il gennaio del 2009, che provocò a sua volta altri
1.400 decessi tra i palestinesi, avevo come l’obiettivo centrale della
missione il recupero di Shalit. L’assedio di Gaza è stato fino ad oggi
ritenuto necessario nel contesto della prolungata detenzione di Shalit.
Tutto ciò faceva parte di una
strategia israeliana più ampia rispetto alla questione palestinese,
che determina in modo implicito non solo il rifiuto storico di tutti
i diritti politici dei palestinesi, ma anche una dottrina militare sul
terreno che sostiene che “il volere è potere”, che l’Israele
abbia il “lungo braccio della giustizia” e che Israele stessa
“marchierà a fuoco la coscienza [palestinese]” della propria
sconfitta.
Vista in questo contesto, la cattura
di Shalit, la sua detenzione durata cinque anni e l’ultimo trionfo della
trattativa di Hamas per la liberazione dei prigionieri risultano ancora
più impressionanti. L’accordo rappresenta la prima volta in cui un’organizzazione
palestinese che ha catturato un soldato israeliano in territorio palestinese
ha potuto tradurre quella cattura in una trattativa col governo israeliano.
Che si sia d’accordo o meno con questa tattica, non c’è dubbio che
questa serie di avvenimenti rappresenta un progresso significativo per
la capacità della resistenza armata del movimento palestinese, per
la sua capacità di organizzazione, la professionalità, la segretezza
e la sua forza. Non ci sono altre conclusioni da re nel contesto di
Gaza, dove Israele ed Egitto controllano il transito terrestre; Israele
controlla e osserva costantemente il territorio dall’aria, via satellite
e per mare, lì dove le onde elettromagnetiche e le reti di telecomunicazioni
sono sotto il dominio israeliano. D’altra parte, Israele può contare
su un’importante rete di collaborazionisti palestinesi in tutta la
zona. Questi sono i mezzi a disposizione della potenza israeliana nei
360 chilometri quadrati della Striscia di Gaza.
Tutte queste capacità si riferiscono
al fatto che ci sia stato un accordo, e non si riferiscono tanto ai
risultati sostanziali delle negoziazioni vere e proprie. Ma qui anche,
Hamas ha ottenuto concessioni impressionanti: ha rotto la tradizione
negativa secondo cui Israele non rilascia quei prigionieri “che
hanno il sangue nelle mani” e anche il consueto rifiuto israeliano
di liberare prigionieri della Palestina del 1948 (palestinesi con cittadinanza
israeliana), come quelli di Gerusalemme Est. Per contestualizzare questi
due ultimi aspetti: tutte le scarcerazioni anteriori negoziate con l’Autorità
Palestinese e con Hezbollah non erano mai riuscite a modificare
questi capisaldi israeliani.
Oltre a stabilire nuovi precedenti
nelle trattative, la selezione dei prigionieri da parte di Hamas evidenzia
una dimensione politica importante che deve essere anch’essa ritenuta
un ottimo risultato, avendo respinto certi principi della prassi di
Israele di un’alterità nei rapporti con il popolo palestinese.
L’inclusione nell’accordo dei prigionieri
di tutta la Palestina geografica, della diaspora palestinese e delle
Alture del Golan rappresenta un sforzo cosciente da parte di Hamas per
affermare l’unità del popolo palestinese e la sua connessione
con la periferia arabo-musulmana. Allo stesso tempo, ciò sancisce il
conseguimento di un risultato nazionale, in opposizione al fazionalismo.
L’inclusione dei prigionieri di un epoca anteriore alla prima Intifada
fino alla fase odierna enfatizza anche il carattere intergenerazionale
della lotta palestinese, e allo stesso tempo denuncia la critica implicita
al fallimento degli accordi del “processo di pace” di Oslo
per liberare i detenuti incarcerati nei periodi precedenti.
Malgrado sia complicato valutare la
liberazione di carcerati, data la natura mutevole degli interessi e
delle necessità nei vari momenti storici, basti dire che Hamas
ha ottenuto un risultato analogo o anche maggiore rispetto ai tanti
notori accordi avuti con Israele negli ultimi trent’anni: lo scambio
di prigionieri del 1985, tra il FPLP-Comando Generale e Israele vide
il passaggio di 1.150 prigionieri contro tre soldati israeliani vivi;
nel 2004 il baratto tra Hezbollah e Israele implicò la liberazione
da parte israeliana di 431 prigionieri arabi e internazionali e di 59
cadaveri per 1 soldato vivo e 3 morti israeliani; l’accordo tra
Hezbollah e Israele del 2008 comportò lo scambio di 204 prigionieri
palestinesi e libanesi per due soldatesse israeliane uccise. Gli altri
scambi furono meno importanti per quantità e “qualità”. Può
essere chiarificatore il segnalare che il primo scambio di carcerati
coronato da successo tra Hezbollah e Israele vide lo scambio
di due cadaveri israeliani e 19 membri dell’Esercito del Sud libanese
per 123 cadaveri e 45 prigionieri. L’accordo Shalit è stato il primo
scambio con Hamas, ma probabilmente non sarà l’ultimo.
Critiche
L’accordo Shalit non è esente
da critiche per il lato palestinese. Si possono raggrupparsi in tre
categorie:
Aspettative non compiute: Hamas
e gli altri due gruppi che sono intervenuti nella cattura di Shalit,
i Comitati di Resistenza Popolare e l’Esercito dell’Islam, mostrarono
inizialmente un’euforia incontrollata per la dimensione del risultato
che li portò ad ampliare le aspettative della società palestinese
in relazione a quello che si sarebbe potuto ottenere da un futuro accordo
di scambio dei prigionieri. Non solo ci si aspettava che rappresentanti
politici rinomati, come Marwan Barguti di Fatah e Ahmed Saadat del FPLP
fossero nella lista, ma che il numero totale dei prigionieri reclamati
potesse arrivare a 1.400. inoltre, Hamas pretese la liberazione di tutte
le prigioniere recluse (mentre nove sembrano essere rimaste escluse)
e di tutti i prigionieri minorenni, e rimane da vedere se questo criterio
si realizzerà nella seconda tappa dell’accordo.
Condizioni della liberazione:
L’alto numero di deportati (204), che siano confinati all’estero (40)
o a Gaza (164) è stato oggetto di critiche perché tocca un punto sensibile
della società palestinese. L’esilio politico è stato praticato sistematicamente
da Israele nei Territori Occupati fin dal 1967 come forma di punizione,
e anche per debilitare il movimento nazionale, amputandolo della sua
dirigenza. Il fatto che Hamas abbia acconsentito a forme di deportazione
parziale o totale, e in un numero così alto, ha portare a considerare
questo movimento come complice degli obiettivi strategici israeliani.
Vista la delicatezza dell’assunto, Hamas ha sottolineato che si è
consultata con i prigionieri sul tema della deportazione, facendo capire
a tutti i deportati che potranno ritornare a Gaza attraverso la frontiera
con l’Egitto. Ancora non si sa se tutti i prigionieri sono stati consultati,
sembra probabile che alcuni lo siano stati, altri no.
Opportunità
politica: Hamas si è esposta a ulteriori critiche su altri due
aspetti riguardo la tempistica dell’accordo. Visto che l’accordo è
giunto appena tre settimane dopo la richiesta della sovranità palestinese
presentata dal presidente dell’OLP, Mahmud Abbas, alle Nazioni Unite,
Hamas è stato criticato in modo acceso da alcuni settori di Fatah per
tentare di rubare la “scena” ad Abbas. Inoltre, l’accordo
si è verificato nel decimo primo giorno di un importante sciopero della
fame palestinese per protestare contro le condizioni di incarceramento,
in particolare per la politica di detenzione in isolamento continuata,
fino ad otto anni e più in alcuni casi. I critici argomentano che lo
scambio di prigionieri è stato non coordinato con lo sciopero della
fame, mentre i festeggiamenti per lo scambio dei prigionieri si contraddice
con la serietà reclamata dallo sciopero di fame. Le parti interessate
argomentano perfino che la brutta sincronizzazione può mettere in pericolo
la vita di alcuni scioperanti o far rompere lo sciopero prima che vengano
soddisfatte le rivendicazioni.
Conclusioni e conseguenze
Mentre la validità di queste
critiche verranno svelate col passare del tempo, le conseguenze politiche
dell’accordo Shalit si possono già fissare: Hamas e il suo programma
sono stati indiscutibilmente rafforzati dall’accordo, dandogli la possibilità
di appianare le differenze di popolarità che sarebbero potuto sorgere
tra il movimento e il suo rivale Fatah in seguito alla richiesta del
riconoscimento all’ONU. Questo perché Hamas potrà argomentare che,
mentre Fatah fa grandi discorsi alle Nazioni Unite ed è ben accolto
nei contesti internazionali, la sua strategia e la negoziazione politica
con Israele non sono mai riuscite a raggiungere una liberazione cospicua
dei prigionieri e che, pertanto, non si può sperare che Fatah raggiunga
l’obiettivo molto più ambizioso della sovranità. Hamas sosterrà che,
nonostante la sua condizione di paria di fronte alle potenze
occidentali, il movimento si è mantenuto fermo nel mancato riconoscimento
di Israele e nella sua strategia orientata alla resistenza per ottenere
i diritti del popolo palestinese, e che, alla fine dei giochi, ha ottenuto
risultati politici e umani tangibili, notevoli per il movimento e per
il suo futuro.
Anche se il dibattito di questi temi
è davvero importante e necessario per il movimento palestinese
e per i suoi alleati, il vero lascito politico di questo accordo potrebbe
essere più ovvio di quanto suggerisca questa polarità semplificata.
Ossia, affinché qualunque strategia politica seguita dai palestinesi
e dai suoi alleati sia coronata dal successo, bisogna porre fine all’enorme
disparità nella “valutazione” tra i prigionieri di guerra
palestinesi e quelli israeliani. Il fatto che si sia potuto negoziare
il rilascio di un solo soldato israeliano in cambio di più di un migliaio
di palestinesi fa pensare a come si sia potuti arrivare a una tale situazione
di disparità.
Per illustrare questa differenza, basti
dire che ventisei prigionieri palestinesi compresi nell’accordo Shalit
erano già in prigione prima che Gilad Shalit fosse nato, e il recluso
di più lungo corso – Nael Barghouti – è in carcere da trentaquattro
anni. In realtà, dieci dei prigionieri palestinesi che ci si aspetta
che vengano liberati da questo accordo hanno passato in prigione più
tempo di quanto non abbia fatto Nelson Mandela sull’isola di Robben,
anche se nessuno di loro è conosciuto al di fuori del mondo arabo.
Nessuno di loro ha una voce su Wikipedia, ad esempio. Al contrario,
Gilad Shalit, che ha trascorso cinque anni di reclusione, è un nome
familiare in molti paesi occidentali: cittadino onorario in tre
nazioni, ha una pagina in Wikipedia tradotta in ventitre lingue. La
disparità nella percezione, organizzazione e finanziamento tra la propaganda
sionista e l’organizzazione palestinese è ovvia, scioccante e umiliante.
Questo è il lascito del razzismo radicato, della complicità dei mezzi
di informazione, delle sistematiche campagne di disumanizzazione, della
dinamica asimmetrica del potere coloniale e globale, e della disorganizzazione
e dell’incompetenza dei progetti politici e delle sue priorità. Qualsiasi
sia la causa, questa disparità va sradicata, al più presto.
Che questo accordo sui prigionieri
illumini la strada sugli aspetti di trascuratezza che richiedono ulteriore
impegno nel futuro prossimo per i palestinesi e per i suoi alleati,
per poter garantire che il razzismo e la disuguaglianza dei valori umani
tra i colonizzati e il colonizzatore non possano prevalere per così
lungo tempo.
Fonte: The deal behind the “Shalit Deal”: Prisoners, Power, Racism
17.10.2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE