LE 4 VARIET DEL CAPITALISMO DI STATO: PETROSTATI, CINA, BRASILE E RUSSIA

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DI ALFREDO JALIFE-RAHME
La Jornada

A giudizio dell’Economist, portavoce del neoliberismo globale, (vedi Bajo la Lupa, 25 gennaio 2012) il “capitalismo di Stato” prospetta “un tema con variazioni idiosincratiche”.

Adrian Wooldridge ritiene che “la cosa più sorprendente delle imprese statali è il loro pieno potere collettivo nel mondo emergente“, che le ha rese “più ricche” nel decennio scorso: le 121 principali
imprese statali della Cina hanno aumentato gli attivi totali da 360 miliardi di dollari nel 2002 a quasi 3 trilioni di dollari nel 2010.

Un anno dopo la crisi del 2008, l’85 per cento di 1,4 trilioni di dollari di prestiti bancari è stato destinato alle imprese statali.
Non è un caso, ma si tratta della mia ipotesi sul successo poco riportato della Cina e del Brasile che hanno conservato la propria banca statale (a differenza della mediocrità del “Messico neoliberista“).

Ha aggiunto che i “governi sono diventati più sofisticati e preferiscono esercitare il controllo attraverso la proprietà delle azioni ” e “a volte ne possiedono tutte le quote” (vedi Petronas in Malesia).

UNCTAD definisce statale un’impresa quando lo Stato possiede più del 10 per cento delle azioni. Vari governi gestiscono l’arte del controllo di impresa grazie a partecipazioni minoritarie, come la Russia, dove lo Stato mantiene le azioni principali (“dorate”) in 181 imprese con vocazione internazionale. Ebbene sì: solo nel “Messico neoliberista” si regalano le imprese al peggiore offerente e al migliore impostore (dal gas alle ferrovie).

Adrian Wooldridge, autore del “report speciale” sul “capitalismo di Stato”, cita il libro “The Party” di Richard McGregor, che descrive come i dirigenti delle 50 principali imprese cinesi hanno una “macchina rossa” collegata ai terminali di Bloomberg (l’agenzia finanziario newyorkese) che li vincola in modo istantaneo e criptato all’alto comando del Partito Comunista.

Il “partito di Stato” esercita “un forte controllo sull’economia, senza raffronti col resto del mondo del capitalismo di stato.” Il suo potere si esercita attraverso due istituzioni: la Commissione di Supervisione e Amministrazione dei Beni di Proprietà dello Stato (SASAC) e il Dipartimento di Organizzazione del Partito Comunista (DOPC).

SASAC, che detiene azioni nelle principali imprese, “è l’azionista di controllo più grande al mondo” e il suo obiettivo è quello di implementare una “società armoniosa“. Accipicchia!

Segnala poi che il “nucleo forte del settore della proprietà dello Stato è quello petrolifero“, e ciò coincide con la tesi del mio libro “La denazionalizzazione di Pemex” (col prologo corroborante di AMLO; Jorale, 2009): “Tredici giganti controllano più di tre quarti parti della fornitura mondiale di petrolio.”

Lo stato cinese possiede il 90 per cento delle azioni di PetroChina (quotata nella borsa di New York) e l’80 per cento di Sinopec. Non potevano mancare le peggiori critiche a PDVSA e Pemex, che comunque non soccombono agli artigli predatori delle invecchiate Sette Sorelle anglosassoni.

Poi esprime una lode per Petronas (Malesia) e Aramco (Arabia Saudita), che considera “ben gestite quanto le industrie petrolifere private“. Non si è morso la lingua dopo la devastazione ambientale di BP nel Golfo del Messico!

Le imprese statali non sono confinate solamente all’ambito domestico e hanno acquisito, come Gazprom, imprese in Europa e in Asia, e anche la Cina ha realizzato accordi di ogni genere in Africa (specialmente in Angola), dove il “Messico neoliberista” chiuse assurdamente l’ambasciata.

Delle quindici industrie petrolifere citate dall’Economist, misurate per riserve provate di petrolio e gas (2010) in miliardi di barili di “petrolio equivalente”, tredici sono statali e solo due sono private (mediocremente agli ultimi posti): ExxonMobil (Stati Uniti: 22 miliardi, 11° posto) e Lukoil (Russia, ultimo posto con 8 miliardi).

Risplendono nei primi posti le statali: 1) NIOC (Iran: 310 miliardi); 2) Saudi Aramco (305 miliardi); 3) PDVSA (Venezuela: 225 miliardi); 4) Kuwait Petroleum (110 miliardi);
5) Gazprom (Russia: 108 miliardi); 6) Qatar Petroleum (105 miliardi);
7) NOC, SOC, MOC (Iraq: 90 miliardi); ADNOC (Emirati Arabi Uniti: 80 miliardi); 9) Turkmengaz (Turkmenistán: 48 miliardi); 10) Libia NOC (25 miliardi); 12) PetroChina (Cina: 30 miliardi); 13) NNPC (Nigeria: 20 miliardi); 14) Rosneft (Russia: 10 miliardi).

Ora si capisce perfettamente la ragione per la quale la NATO cerca di impadronirsi degli idrocarburi dell’Iran, per non parlare del Venezuela.

L’autore ammette poi che nella passata decade la “Russia ha visto un rafforzamento notevole del potere dello Stato“, a differenza della “privatizzazione selvaggia” di Yeltsin. Non fu un caso simile alla privatizzazione sconsiderata del “Messico neoliberista”?

Ora “lo Stato russo controlla la cupola dell’economia con la proprietà indiretta delle azioni“, con le maggiori quote nelle principali e più strategiche imprese: Transneft (oleodotti), Sukhoi (aeroplani),
Unified Energy Systems (gigante elettrico), eccetera.

Prosegue fustigando i vilipesi “oligarchi” del settore privato, che sono stati sostituiti da ex funzionari dello spionaggio sovietico collegati al premier Putin, che presiede il consiglio di Vnesheconombank, una banca di sviluppo che controlla le ricchezze più fruttuose: petrolio, gas, energia nucleare, diamanti, metalli, armi, aviazione e trasporti.

Questo “capitalismo” del Cremlino è “dominato da un pugno di aziende gigantesche
controllate da un gruppo di spie (sic), e due imprese controllate dallo Stato, Sberbank e Gazprom, rappresentano più della metà degli scambi della borsa russa
.” In modo rilevante, i fondi sovrani dello Stato russo hanno rilevato imprese straniere.

Ritiene poi che il Brasile è il “membro più ambiguo (sic) del capitalismo statale: una democrazia che adotta anche molte delle caratteristiche del capitalismo anglosassone.”

Dopo la sua spinta privatizzatrice del decennio degli anni ‘90 “si muove ora in una nuova direzione: il governo ha collocato ingenti fondi in una ristretta cerchia di campioni statali: nelle risorse naturali e nelle Telecom” mediante un “nuovo modello di politica industriale” che sostituisce la proprietà governativa “diretta” con quella “indiretta” tramite la sua Banca Nazionale per lo Sviluppo (BNDES) e la sua sussidiaria per gli investimenti BNDESPAR
(con attivi di 53 miliardi di dollari). Torna a comparire la mia ipotesi sul possesso ineludibile di una banca nazionale come prerequisito del successo geoeconomico.

Afferma che ai “capitalisti di stato piace fornire l’esempio dei recenti successi cinesi di fronte ai crescenti fallimenti degli Stati Uniti“, anche se “è davvero possibile che il capitalismo statale funzioni bene in alcune aree (ad esempio le infrastrutture) e molto male in altre (vedi i beni di consumo).

Adrian Wooldridge soccombe in una sua schizofrenia professionale asserendo che le “varie forme del capitalismo di stato hanno una cosa in comune: i politici hanno molto più potere di quello che ha il capitalismo neoliberista.”

A mio giudizio, il più grave problema del fallito neoliberalismo globale è di essersi dimenticato della politica, “l’arte del possibile”, mentre ha fatto della finanza e della contabilità l’alchimia dell’impossibile.

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Fonte: Las 4 variedades del capitalismo de Estado: petroestados, China, Brasil y el Kremlin”

27.01.2012

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE

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