Di Alessia Vignali per ComeDonChisciotte.org
L’autunno ritorna ogni volta come una sorpresa, come una condanna.
Chiunque abbia superato i cinquant’anni sa che nessun autunno è uguale al precedente. Non nella natura, poiché ogni specie risponde ai fenomeni atmosferici del semestre appena trascorso con un letargo dalle modalità nuove. E non dentro di noi: scoperte, lutti, vicissitudini storiche del mondo hanno modificato il ritmo delle nostre vite, la qualità dei nostri sguardi.
Tuttavia, anche quest’anno il rosso delle bacche di rosa canina e il giallo delle ginkobilobe svetteranno sul fondo bianco dell’aria, presenze in acuto prima del silenzio.
Le foglie d’acero brillano, con la loro sorprendente eleganza, sull’asfalto.
L’aria della città emana un profumo silvestre, ricci aperti dei castagni misti a bacche, a foglie cadute.
Le cose sembrano più nitide, “più se stesse” quando si stagliano in un’ultima presenza. Anche noi, se raccogliamo le evocazioni stagionali, sembriamo “più noi stessi”. Accediamo ad aspetti del carattere poco indagati, che danno un senso di maggior “verità” alla nostra idea di noi, una teoria su “chi siamo” che a volte è da aggiornare.
In precedenza ho postulato l’esistenza di una “mente stagionale” capace di partorire sentimenti e idee distintivi a seconda della stagione, un po’ come prescrive il taoismo. Le evocazioni delle atmosfere che troviamo fuori spingono chi è attento a un profondo sentire a confrontarsi con gli “universali” della vita.
L’elegia d’autunno non può essere spiegata, può farcela vivere un libro sull’”autunno dell’esistenza” in cui a parlare è un cronista di razza, Enzo Biagi. Si tratta di “Lunga è la notte”, scritto nel lontano 1995. Biagi, che aveva all’epoca settantacinque anni, morirà dodici anni dopo.
“Come è triste una rosa bianca d’autunno”, racconta. “Rabbrividisce nel vento. Cadono pesanti le foglie dell’ippocastano: sento che l’inverno si avvicina.
Pasolini si accorse che erano sparite le lucciole; sono anni che non vedo partire o arrivare le rondini. È stato subito domani e tutto è passato molto in fretta.
Una volta mi sembrava che il mondo cominciasse con me: lo scoprivo ogni giorno. Ogni ora aveva un profumo: di terra bagnata, di legna bruciata, quando era tempo di vendemmia, di mosto; arrivavano in città i carri trainati dai grandi buoi e ricomparivano le vecchine delle caldarroste.
Mi addormentavo con la musica della pioggia che scrosciava sul selciato. Prima recitavo l’atto di dolore, “perché se muori”, ammoniva mia madre “vai in purgatorio”.
Anche adesso dico una preghiera: per chi ho amato, per chi mi ha amato. C’è qualcuno che ha pianto per me? Willy Brandt alla fine si è giustificato: “Ho fatto ciò che ho potuto”. Anch’io.
So che il viaggio sta per concludersi, ma ho vissuto ore felici. Forse coincidono con i momenti senza storia, quelli dell’attesa.”
Ovviamente, il testo ha una coloritura struggente per via del fatto che l’Autore è “rosa bianca” piantata nella sua vecchiaia. Lo scritto di Biagi testimonia un lavoro psichico di presa in carico del momento di vita e delle sue reali implicazioni, che sospinge l’Autore a un riesame dell’intera esistenza. Si tratta di una valutazione non scevra da dubbi angosciosi, accompagnata dal sentimento della paura. Biagi attraversa col pensiero l’autunno, si prefigura l’inverno e ci coinvolge in un percorso che condensa in una pagina, com’è nel suo stile. In esso reincontra le immagini, la terra, le persone: il succo di una vita. Non ci si può congedare dall’estate senza averla capita.
L’inverno fa paura. Le strade psichiche che imbocchiamo nella sua imminenza sono molteplici. C’è chi ne nega l’arrivo con fare robotico, tuffandosi nell’alienazione quotidiana per non dover pensare. Alcuni lo irridono maniacalmente, come quando ad Halloween rappresentano la morte in una ”danse macabre” esilarante ed erotica, complice il rito collettivo: il vitalismo dell’irrisione e del sesso scotomizzano l’angoscia sottostante.
Altri si deprimono silenziosamente, senza un perché: forse, è per via del “pianto del mondo”, che viene simboleggiato in piogge senza fine.
Nel saggio “Caducità”, Freud racconta che l’amico poeta Rilke gli confidò la sua sofferenza per la fugacità di un fiore. “In assenza della morte l’esistenza parrebbe insipida quanto un flirt americano”, gli rispose il padre della psicoanalisi. E aggiunse che è proprio la caducità della vita a conferire ad essa il maggior valore. Sebbene si tratti di una constatazione inoppugnabile, notiamo che anch’essa è frutto di un meccanismo di difesa rispetto alla durezza del dato emotivo. Meccanismo che la stessa psicoanalisi denomina “razionalizzazione”, accompagnato da una punta d’intellettualizzazione (altra difesa).
C’è anche chi, come il citato Biagi, tesaurizza ogni istante che lo separa dall’inverno, ripensando con nostalgia ai tempi della gioia, in una difficile elaborazione accompagnata da una quota di sublimazione della tristezza. Dobbiamo, a questo punto dell’articolo, congedarci dal linguaggio simbolico adottato sinora e addentrarci più decisamente in quello della psicoanalisi, seppure essa rimanga, per fortuna, scienza “poetica”. Il mio scritto somiglierà dunque, da qui in avanti, a una cronaca del presente, basata sul costume e accompagnata da una lettura scientifica emozionata.
Diremo allora che la sublimazione che vediamo all’opera nel vecchio giornalista è anch’essa un meccanismo di difesa dalla sofferenza, tuttavia è il meno dannoso, il più “alto di livello” e, se vogliamo, il più “prezioso” per l’uomo. Esso gli consente di esprimere e rappresentare le pulsioni trasformandole. L’arte (anche quella di scrivere) è una magia che solo apparentemente fa scaturire cose “dal nulla”, donando il bello e il buono alla collettività. I prodotti artistici nascono dalla “trasformazione” di sentimenti o pulsioni non proprio piacevoli, simili all’oro che, nella trasformazione alchemica, si credeva potesse provenire dal piombo.
Come ogni gioco della nostra mente, nessuna delle strade elencate per confrontarsi con l’autunno, “oggetto stagione” o metafora esistenziale che sia, risulta priva di conseguenze sulla realtà che riusciamo a vedere, descrivere, esperire. Più “massiccia” e primitiva è la difesa, minore la possibilità di far esperienza mentale di qualcosa che si avvicini alla realtà.
Leggendo quanto appare sui social, mi sembra che la prima risposta dello “Zeitgeist attuale” alla specificità dell’autunno sia la “negazione” o, ancora una volta in gergo psicoanalitico, la “fuga nella maniacalità”.
Per intenderci, fugge nella maniacalità l’uomo di mezz’ età che comincia ad avere amanti più giovani per non s’accorgersi d’invecchiare. In questo caso, è una “potenza erotica” continuamente ribadita a puntellare un’identità in pericolo.
Si reggono su una fuga maniacale i miti e riti collettivi che oggi vengono trasmessi dai social. Impazzano storie in cui si spiegano i “10 motivi per cui adoriamo l’autunno” o si danno i “10 consigli per goderselo al meglio”. Se ci spingiamo a elencare dieci motivi per cui amiamo qualcosa, sarà perché non ne siamo davvero convinti. Il meccanismo di difesa è, in questo caso, “controfobico”.
Analogo meccanismo sottende la serie dei manuali Hygge, la filosofia del quotidiano danese basata, più o meno, sul ricorso a grandi tazze di tè caldo, maglioni di lana e divani comodi per consolarsi nei rigori dell’inverno. I parecchi i Pin d’ispirazione Zen appartengono alla stessa filiera, incitando un po’ tutti a “godere del presente”.
Le ultime due soluzioni sono volte a ottenere una “presentificazione” che spezzi la continuità del pensiero. In realtà, nell’essere umano il pensiero sarebbe utilmente occupato dal connettere il presente al passato e al futuro alla ricerca di un qualche principio di causalità. Se è vero che “staccare” dal passato aiuta chi abbia avuto in esso traumi troppo grandi, è anche vero che abusare di questo metodo tiene accuratamente distanti dal pensare, che rimane l’unico sistema per risolvere davvero le cose.
Non salverei molto dell’odierno trend verso l’idealizzazione del rifugio nelle “piccole cose”. In psicologia si è scoperto che l’idealizzazione serve spesso a coprire un sottostante disprezzo. Dunque, non è da considerarsi del tutto sincera.
Più interessante è quanto accade quando, avendo preso profondo contatto con se stessi e con i propri sentimenti di perdita, si accede a una comprensione profonda di quanto immenso sia il valore delle cose perdute. Se abbiamo amato tanto (un uomo, un’estate, una canzone…) da soffrire quando finisce, significa che le nostre scelte contano qualcosa. Si tratta di un’operazione psichica grazie alla quale scopriamo il vero senso delle nostre vite e dei nostri affetti, come ci mostra d’aver saputo fare Biagi. Ci accade allora di voler fare il possibile per restaurare e riparare i momenti perduti nella mente, nel ricordo o nelle opere concrete, quando ancora possibile. Questa è la più nobile delle capacità mentali, denominata dagli psicoanalisti “riparazione”. E si ottiene solo accettandoli, i contenuti che ci fanno soffrire. E facendosene qualcosa. In questo modo si potrà persino cambiare il mondo, questa volta sì, nel presente.
L’eccessiva paura di soffrire non porta mai buoni frutti. Nemmeno quando in ballo c’è una cosa minima come l’arrivo di una nuova stagione. Nella migliore delle ipotesi, la paura di soffrire reca un sollievo momentaneo, nella peggiore adultera la realtà rendendola irriconoscibile, ci impedisce di provare sentimenti “umani”. Nella fattispecie dell’”autunno dell’anima”, solo chi può permettersi d‘ospitare in sé il sentimento della nostalgia, gravido di struggimento, può cogliere l’occasione di valorizzazione del Sé offerta da un tempo che non è solo delle caldarroste, ma anche del pensiero e dei ricordi.
Di Alessia Vignali per ComeDonChisciotte.org
22.10.2024