L'ARMA SEGRETA DEL CAMBIAMENTO CLIMATICO

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DI KHADIJA SHARIFE
Foreign Policy in Focus

L’acqua è cristallina, la sabbia è più che
bianca, le palme sono ricurve in maniera elegante
e ondeggiando nella brezza. E’ questo il modo in
cui vengono immesse sul mercato le Seychelles:
come “un altro mondo”. Il turismo è il
pilastro di quest’isola paradisiaca e costituisce in
media il 20% del PIL e il 60% degli introiti dovuti al
mercato della valuta.

Ma in considerazione della crisi climatica, le
prospettive sono molto incerte per nazioni insulari come
le Seychelles, che dipendono dalle condizioni
climatiche. Metà della sua popolazione vive nelle
zone costiere, direttamente esposta all’innalzamento del
livello dell’oceano, all’erosione della costa, alle
inondazioni e alle piogge improvvise. Inoltre l’isola
dipende molto dall’agricoltura e il 70% delle
coltivazioni si trova proprio nelle zone costiere,
sottoposte alle ondate della marea, sempre più
frequenti.
Così, l’innalzamento del livello dell’oceano
mette a rischio i mezzi di sostentamento della popolazione
delle Seychelles, oltre all’esistenza
dell’arcipelago stesso. Secondo le previsioni dell’ Intergovernmental
Panel on Climate Change, molte di queste nazioni insulari
scompariranno quasi del tutto alla fine del 21st
secolo. Una ragione potrebbe essere la penuria crescente di
fonti d’acqua dolce. “Le Seychelles, in
particolare, dipendono quasi interamente dall’acqua
superficiale e sono dunque molto a rischio”, ha
sottolineato la UN
Framework Convention on Climate Change
. Il futuro di
questo paradiso non è così grave come quello delle
Maldive, il suo alleato dell’Alliance of Small Islands
States (AOSIS), costituita in previsione
della conferenza sul cambiamento climatico di
Copenaghen. Il livello del suolo delle Maldive, il più
basso al mondo, è di 7,5 piedi (un piede in meno
dell’altezza del giocatore di
basket cinese Yao Ming). Ma le Seychelles saranno il
prossimo paese in lista se il livello dei mari non smette di
salire.

La triste ironia è che, nonostante le due isole non
producano molto in termini di emissioni di carbonio, le due
nazioni insulari potrebbero aver contribuito alla loro
propria morte. Dopo tutto, le Seychelles e le Maldive
condividono lo stesso segreto che sostiene le loro
rispettive economie. Più del 50% dei membri dell’ AOSIS
hanno giurisdizioni segrete, etichettate in
maniera fuorviante come centri offshore e paradisi fiscali.
Questi sistemi economici- caratterizzati da servizi
finanziari e legali opachi che garantiscono poca o
nessuna trasparenza, permettono l’accesso di
numerosi clienti in via confidenziale e
pretendono pochi requisiti per consistenti
attività economiche – accolgono capitale
illecito. Il denaro riciclato viene deviato
da queste nazioni in via di sviluppo, ricche di
risorse ma artificialmente impoverite.

Tali centri insulari costituiscono una chiave
che facilita il sistema procurando servizi finanziari
offshore, controllati a distanza dalle sedi
principali delle onshore, ad esempio la città di
Londra. Legioni mutevoli di avvocati, banchieri
e contabili fanno da intermediari tra le
multinazionali dai guanti bianchi e le élites
politiche “dai guanti neri”. Il denaro, che
potrebbe altrimenti essere indirizzato verso la
riduzione dell’impatto delle emissioni di carbonio
delle multinazionali e per finanziare lo sviluppo
sostenibile dei paesi in via di sviluppo, è affossato nei
conti bancari sulle isole. E questo denaro potrebbe alla
fine far affondare le isole stesse.

Le isole del denaro

Attualmente, quasi 13000 miliardi di dollari di denaro
occultato e protetto sono depositati in società
offshore e fuori dalla portata. Se venissero moderatamente
tassati, questi fondi frutterebbero più di 250 miliardi.
Questa cifra sarebbe più che sufficente a finanziare
i Millennium Development Goals [n.d.t: carta di
otto obiettivi per lo sviluppo mondiale da raggiungere entro
il 2015, stipulata dall’ Onu nel 2000 e sottoscritta da
189 nazioni], il conseguimento dei quali, secondo
la banca mondiale, costerebbe circa 40-60 miliardi l’anno
sino al 2015. Altrimenti, potrebbe essere devoluta ai
fondi per la decrescita e la
riqualificazione necessari per lo sviluppo delle
nazioni emergenti, fondi che secondo l’Onu dovrebbero
essere di 40-86 miliardi l’anno
.

Ma il recupero di questi capitali illeciti sarà
difficile. Le isole che ospitano questi conti bancari
dipendono proprio da tali entrate. Le Seychelles dipendono
dal settore finanziario per l’11% del loro PIL
. Questo
pone le Seychelles non molto lontano dalle famose isole
Cayman, il quinto centro finanziario più grande al mondo,
dove i servizi finanziari determinano il 14% del
PIL. La Svizzera, che ricicla un terzo di tutti i
capitali illeciti, dipende dai servizi finanziari per il 15%
del suo PIL.

Le economie della maggior parte delle isole
dipendono da sistemi più forti, come quelli di
Inghilterra e Stati Uniti. Tali economie sono in
competizione per diventare una miniera di possibilità
per le società offshore, offrendo servizi finanziari e
legali opachi e aliquote d’imposta molto basse o
pari a zero. Attraverso questi servizi clandestini, inoltre,
i governi dei paesi sviluppati sono l’estremità che riceve invii illeciti da regioni come l’Africa
sub-sahariana, che è un creditore netto dei
paesi sviluppati.

La fonte dei fondi

La Nigeria è il più grande produttore di petrolio
dell’Africa e il quinto tra i maggiori esportatori negli
Stati Uniti. A partire dagli anni ’60, l’élite
politica e militare del Paese si è illecitamente appropriata
di più di 400 miliardi provenienti dai profitti del
petrolio e appartenenti ai cittadini nigeriani, e li ha
depositati nelle giurisdizioni segrete come la Svizzera.
Intanto, a dispetto delle numerose promesse di
multinazionali come la Chevron, attive nel Paese, la
popolazione della Nigeria è diventata sempre più povera.
Le industrie estrattive hanno causato considerevoli
contrasti, violazioni dei diritti umani ed episodi di
violenza. E il degrado ecologico complessivo costa 5 miliardi
l’anno
.

La responsabilità dell’ Africa nel riscaldamento
globale è piuttosto ridotta. Il continente infatti produce
soltanto
il 3% delle emissioni globali dei gas serra. Ma le
industrie estrattive che operano in Africa sono i maggiori
responsabili delle emissioni. La Shell, ad esempio, produce
più gas serra di molti paesi: le sue emissioni di carbonio
ammontavano nel 2005 a 102 milioni di tonnellate e
superavano dunque le emissioni di 150 paesi.

Sebbene l’inpronta africana nelle emissioni di
carbonio sia piuttosto lieve, i regimi autocratici del
continente, in Angola, in Nigeria, in Congo e in Gabon, sono
alla base della catena produttiva e dipendono
principalmente dalla concentrazione dei capitali determinata
dalle industrie estrattive che riforniscono i più grandi
motori a carbone con considerevoli quantità di
carburante. Ma né i regime corrotti né le corporazioni che
finanziano e facilitano il riscaldamento globale hanno posto
questo problema nell’agenda di Copenaghen.

A Copenaghen

La discussione alla conferenza sul cambiamento
climatico di Copenaghen, l’anno scorso, si è
concentrata su nazioni “sviluppate” e
“nazioni in via di sviluppo” e il nuovo mercato
delle carbon offsets. I governi dei Paesi industrializzati
hanno creato dal nulla questi permessi inerenti le emissioni
di carbonio e li hanno assegnati alle più grandi
multinazionali dal più grave impatto ambientale.
L’ultimo architetto di questo sistema, la Goldman
Sachs, dotata di società sussidiarie in tutto il mondo
(dalle Bermuda alle Isole Cayman, da Hong Kong all’isola
di Jersey, dall’Irlanda alle Isole
Vergini britanniche, a un centro africano di fama
mondiale, le Mauritius), non solo ha ideato un enorme
mercato dell’emissioni di carbonio, ma è anche entrata
in possesso del 10% delle azioni della Chicago Climate
Exchange
(CCX) di Al Gore –
il progetto commerciale pilota sulle emissioni di carbonio
negli Stati Uniti.

La CCX di Gore, nel cui consiglio
d’amministrazione ritroviamo VIP come Kofi
Annan, dell’ONU, e James Wolfensohn, della Banca
Mondiale, si è battuto per la privatizzazione
dell’atmosfera fin dal Summit della Terra, a Rio [n.d.t.:
1992].

Uno dei meccanismi ben pubblicizzati del nuovo
commercio del carbonio è il Clean Development Mechanism
(CDM), che impedisce ai soggetti inquinanti di aggirare i
controlli finanziando progetti nel terzo mondo a basse
o inesistenti emissioni di carbonio. Tuttavia, secondo gli
studi
dello Stanford University’s Energy and Sustainable
Development Program, “circa un terzo o due terzi ”
dei progetti del CDM non rappresentano delle riduzioni
reali.

Intanto, i governi del G20 hanno sovvenzionato il
carbon fossile fino a 300 miliardi nel 2009. Così, mentre il
G20 spende il suo tempo per creare il mercato del
carbonio, che riduce solo in minima parte le emissioni, le
multinazionali continuano ad espandere le loro imprese
estrattive, i dittatori continuano a deviare i capitali, le
società finanziarie si arricchiscono con
il credito sull’inquinamento, e questi
capitali illeciti continuano a rifluire nei paradisi delle
offshore, che sono essi stessi minacciati
dall’innalzamento del livello dei mari e dal
riscaldamento globale.

Titolo originale: “Climate Change’s Secret Weapon

Fonte: http://www.fpif.org/
Link
25.02.2010

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di FRANCESCA IPPOLITI

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