DI ETHAN WATTERS
New York Times
Gli americani, specialmente se sono di un certo tipo, con tendenze di sinistra, laureati, si preoccupano delle cantonate che la nostra nazione prende nei confronti delle altre culture. In alcune cerchie è facile farsi amici con accese invettive sui McDonald vicino piazza Tienanmen o le fabbriche Nike in Malesia o le ultime conseguenze dei nostri interventi politici o militari all’estero. Per completare la nostra autocritica, comunque, dobbiamo ancora affrontare uno dei più notevoli effetti della globalizzazione guidata dall’America. Siamo stati per troppi anni impegnati nel grande progetto di americanizzare il mondo della conoscenza della salute e della malattia mentale. In verità potremmo essere molto lontani dall’omogeneizzare il modo in cui il mondo impazzisce.
Questa snervante possibilità scaturisce da recenti ricerche da parte di un gruppo di antropologi e psichiatri interculturali. Nuotando contro le correnti biomediche dominanti, hanno sostenuto che le malattie mentali non siano entità discrete come il virus della poliomielite con loro storie naturali a sé. Questi ricercatori hanno ammassato una quantità incredibile di prove che suggeriscono che le malattie mentali non siano mai state le stesse in tutto il mondo (sia per forma che per diffusione) ma siano inevitabilmente scatenate e conformate dall’ethos di periodi o luoghi particolari. In alcune culture del sud-est asiatico, si sa che gli uomini provano quello che chiamato amok, un episodio di furia omicida seguito da amnesia; gli uomini della regione soffrono anche di koro, che è caratterizzato dalla debilitante certezza che i loro genitali si stiano ritirando nei loro corpi. In tutta la fertile mezzaluna del medio oriente c’è lo zar, una condizione legata a credenze di possessione spirituale che comporta episodi dissociativi di risa, urla e pianti.
La diversità che troviamo attraverso le culture può essere osservata anche attraverso dei tempi. Nel suo libro “Mad Travelers“, il filosofo Ian Hacking documenta la fugace apparizione negli anni 1890 di uno stato mentale di fuga in cui gli uomini europei camminavano in trance per centinaia di miglia senza conoscenza della loro identità. La “paralisi isterica della gamba” che afflisse migliaia di donne della classe media del tardo 19º secolo non solo ci fornisce una comprensione profonda delle restrizioni imposte e del ruolo sociale delle donne all’epoca, ma può anche essere vista, da questa distanza, essa stessa come ruolo sociale: le problematiche menti inconsce di una certa classe di donne che parlavano l’idioma delle angosce dei loro tempi.
“Potremmo pensare alla cultura come se fosse in possesso di un ‘repertorio sintomatico’ : una gamma di sintomi fisici disponibile alla mente inconscia per l’espressione fisica dei conflitti psicologici”, scrive Edward Shorter, uno storico della medicina all’università di Toronto, nel suo libro “Paralysis: The Rise and Fall of a ‘Hysterical’ Symptom”. “In alcune epoche, le convulsioni, l’improvvisa impossibilità di parlare o un terribile dolore alla gamba possono profilarsi in maniera prominente nel repertorio. In altre epoche i pazienti possono presentare alcuni sintomi come dolori addominali, stime errate del peso corporeo, snervante debolezza come metafore per convogliare lo stress psicologico”.
In ogni particolare era, quelli che amministravano la malattia mentale – dottori, sciamani o preti – inavvertitamente aiutavano a selezionare quali sintomi sarebbero stati riconosciuti come legittimi. Dal momento che la mente problematica è stata influenzata da guaritori di convinzioni scientifiche e religiose differenti, le forme di pazzia spesso sembrano spiccatamente differenti in un determinato luogo e tempo rispetto ad altri.
Questo fino a poco tempo fa.
Da più di una generazione ormai, noi occidentali abbiamo aggressivamente diffuso le nostre conoscenze della malattia mentale per il mondo. Lo abbiamo fatto in nome della scienza, credendo che i nostri approcci rivelino le basi scientifiche della sofferenza psicologica e fughino miti prescientifici e pericolosi stigma. Ci sono oggi numerose prove che suggeriscono che nel processo di insegnare al resto del mondo a pensare come noi, abbiamo anche esportato il nostro “repertorio di sintomi” occidentali. Ossia: siamo andati a modificare non solo i trattamenti, ma anche le espressioni della malattia mentale in altre culture. In verità, una manciata di disordini della salute mentale – tra questi depressione, disturbo post-traumatico da stress, e anoressia – appaiono ora diffondersi attraverso le culture alla velocità di malattie contagiose. Questi gruppi di sintomi stanno diventando la lingua franca dell’umana sofferenza, rimpiazzando le forme indigene di malattia mentale.
Il dr. Sing Lee, uno psichiatra e il ricercatore dell’Università cinese di Hong Kong ha osservato di personal’occidentalizzazione delle malattie mentali. Nei tardi anni ‘80 e nei primi ‘90 è stato impegnato nel documentare una rara e culturalmente specifica forma di anoressia nervosa a Hong Kong. A differenza degli anoressici americani molti dei suoi pazienti non iniziavano diete o
esprimevano paura di diventare grassi. I pazienti che del dottor Lee manifestavano tipici sintomi psicosomatici: la lamentela più frequente era quella di dire di avere lo stomaco gonfio. Lee stava cercando di capire questa forma indigena di anoressia e allo stesso tempo di spiegarsi il motivo per cui questa malattia rimaneva così rara.
Mentre stava per pubblicare la sua scoperta che il rifiuto del cibo aveva particolari espressione e significato a Hong Kong, la comprensione pubblica dell’anoressia cambiò improvvisamente. Il 24 novembre 1994 una ragazza adolescente anoressica chiamata Charlene Hsu Chi-Ying collassò e morì in una strada affollata del centro di Hong Kong. La morte catturò l’attenzione dei mass media e fu trattata con evidenza nei giornali locali. “L’anoressia l’aveva
ridotta pelle e ossa: una studentessa cade a terra morta“, si legge fra i titoli di testa di un quotidiano cinese. “Più sottile di un fiore giallo, trovato libro sulla perdita di peso nello zaino, studentessa cade a terra morta in strada”, riportava un altro giornale cinese.
Nello spiegare quello che era accaduto a Charlene, i giornalisti locali spesso si sono limitati a copiare i manuali diagnostici americani. Gli esperti di salute mentale citati nei giornali e nelle riviste dichiaravano con sicurezza che l’anoressia a Hong Kong era lo stesso disordine che appariva negli Stati Uniti e in Europa. Sulla scia della morte di Charlene, il trasferimento di conoscenza sulla natura dell’anoressia (incluso come e perché si manifestava e chi era a rischio) andò in una sola direzione da ovest a est.
Le idee occidentali non hanno semplicemente offuscato la comprensione dell’anoressia a Hong Kong; potrebbero aver cambiato le stesse modalità di manifestazione della malattia. Da quando il grande pubblico e i professionisti dell’igiene mentale hanno capito la diagnosi americana dell’anoressia, la manifestazione della malattia nella popolazione dei pazienti del dr. Lee è sembrata trasformarsi nei più violenti standard americani. Lee una volta vedeva due o tre pazienti anoressici l’anno, dalla fine del 1999 ne vede altrettanti ogni mese. Questo aumento ha suscitato un’altra serie di reportage sui media. “Aumento dei disturbi dell’alimentazione: bambini di dieci anni si lasciano morire di fame”, annunciava tra i titoli di prima pagina un quotidiano. Alla fine degli anni 90 gli studi di Lee riportavano che tra il 3 e il 10 percento delle giovani di Hong Kong presentavano disturbi dell’alimentazione. In contrasto con in precedenti pazienti di Lee , queste donne citavano spesso la fobia del grasso come la più importante o unica motivazione della loro deprivazione volontaria di cibo. Nel 2007 in circa il 90 percento degli anoressici trattati da Lee si è riscontrata obesofobia. I nuovi pazienti sembravano conformare sempre più la loro esperienza di anoressia alla versione occidentale della malattia.
Quello che manca, hanno suggerito Lee e altri, è una chiara comprensione di come le attese e le credenze del sofferente diano forma alla sua sofferenza. “La cultura dà forma al modo in cui una psicopatologia generica viene traslata parzialmente o completamente in una psicopatologia specifica”, dice Lee: “Quando c’è una atmosfera culturale in cui i professionisti, i media, le scuole, i dottori, gli psicologi, tutti riconoscono, appoggiano, parlano e pubblicizzano i disordini alimentari, allora le persone possono essere spinte, consciamente o inconsciamente a prendere la patologia del disturbo alimentare come un modo per esprimere un conflitto interiore.”
Il problema diventa particolarmente preoccupante in un periodo di globalizzazione, quando un repertorio
di sintomi può attraversare i confini con facilità. Essendo stato
educato in Inghilterra e negli Stati Uniti, Lee conosce meglio di altri
la potente forza motrice dietro le idee occidentali circa la salute
e la malattia mentale. I professionisti della salute mentale in occidente,
e in particolare negli Stati Uniti, creano categorie ufficiali di malattie
mentali e le promuovono in manuali diagnostici che sono diventati standard
mondiali. Ricercatori e istituzioni americane gestiscono la maggior
parte delle prime riviste accademiche e ospitano le più importanti
conferenze nei campi della psicologia e della psichiatria. Le aziende
farmaceutiche occidentali distribuiscono grosse somme di denaro per
la ricerca e spendono miliardi per vendere farmaci per le malattie mentali.
Inoltre, traumatologi con preparazione occidentale accorrono spesso
dove colpiscono una guerra o un disastro naturale per portare un “pronto
soccorso psicologico”, portando con loro gli assunti su come la mente
venga traumatizzata da eventi orribili e su quale sia il miglior modo
per guarirla. Considerato nel suo insieme questo è un Juggernaut (n.d.t.
entità simbolo di spietata e inarrestabile forza distruttrice) che
Lee ritiene sia abbastanza improbabile arrestare.
“Mentre le categorie occidentali
di malattie stanno guadagnando terreno, le micro-culture che danno forma
all’esperienza della malattia dei singoli pazienti stanno regredendo”,
dice Lee: “La corrente è diventata troppo forte”.
L’anoressia sarebbe diventata così
velocemente parte del repertorio dei sintomi di Hong Kong senza l’importazione
del modello occidentale della malattia? Sembra improbabile. A partire
dai primi casi isolati agli inizi del 19° secolo, ci sono voluti più
di 50 anni ai professionisti dell’igiene mentale per dare un nome,
codificare e rendere pubblica l’anoressia come manifestazione dell’isteria.
Di contro, dopo il collasso di Charlene sul marciapiede di Wan Chai
Road, alla fine di Novembre del 1994 è stata solo una questione di
ore prima che la popolazione di Hong Kong imparasse il nome della malattia,
chi fosse a rischio e cosa significasse.
L’idea che la nostra concezione occidentale
di salute e malattia mentale possa influenzare la forma di espressione
delle malattie nelle altre culture è raramente discussa nella letteratura
professionale. Molti professionisti e ricercatori moderni della salute
mentale credono che le basi scientifiche dei nostri farmaci, delle nostre
categorie di malattie e delle nostre teorie della mente abbiano un campo
di validità che va al di là dell’influenza delle tendenze e credenze
culturali che sono in perenne cambiamento. Dopo tutto, ora abbiamo a
disposizione macchine che possono letteralmente vedere la mente al lavoro.
Possiamo modificare la chimica del cervello in una varietà di modi
interessanti ed esaminare le sequenze di DNA per trovare anomalie. L’assunto
è che questi notevoli progressi scientifici abbiano spinto i professionisti
moderni ad evitare il punto cieco e i pregiudizi culturali dei loro
predecessori.
I professionisti moderni dell’igiene
mentale spesso guardano indietro alle precedenti generazioni di psichiatri
e psicologi con malcelata pietà, chiedendosi come abbiano potuto essere
stati spazzati via dalle correnti culturali dei loro tempi. Le fiduciose
dichiarazioni dei dottori dell’era vittoriana riguardo all’epidemia
di donne isteriche sono state ora liquidate come artefatti culturali.
In maniera simile, le malattie presenti solo nelle altre culture sono
spesso trattate come attrazioni carnevalesche. Koro, amok e simili possono
essere reperiti in fondo al manuale diagnostico americano (DSM-IV, pagine
845-849) sotto la voce “sindromi legate alla cultura locale”. Vista
l’attenzione che ottengono potrebbero benissimo essere etichettate
come “Malattie psichiatriche esotiche: entrate signori, due soldi
a testa”.
I professionisti occidentali della
salute mentale spesso preferiscono credere che le 844 pagine del DSM-IV
(n.d.t. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali , IV
edizione) prima della dell’inclusione delle sindromi legate a
culture specifiche, descrivano i veri disordini mentali, malattie con
sintomatologie ed esiti relativamente inalterati se trasportati in ambienti
con differenti credenze culturali. E, ne consegue logicamente, se questi
disordini non sono influenzati dalla cultura, sono universali per la
psiche umana in ogni luogo. In quest’ottica il DSM si propone come
un atlante universale della psiche, e applicarlo in tutto il mondo rappresenta
semplicemente l’ardita marcia della conoscenza scientifica.
Certo, è possibile diventare
psicologicamente scardinati per molte ragioni che sono comuni a tutti,
come traumi personali, turbolenze sociali o squilibri biochimici nel
nostro cervello. La scienza moderna ha iniziato a scoprire queste cause.
Qualunque sia l’innesco, comunque, l’individuo malato e tutti quelli
intorno a lui si affidano invariabilmente a credenze culturali e storie
ascoltate per capire cosa sta succedendo. Queste storie, sia che parlino
di possessioni spirituali, perdite di seme o cali di serotonina, predicono
e danno forma al decorso della malattia in modalità drammatiche e spesso
contro-intuitive. In sostanza, quello che gli antropologi e gli psichiatri
inter-culturali hanno da dirci è che tutte le malattie mentali, incluse
la depressione, il PTSD (n.d.t.: disturbo post-traumatico
da stress) e anche schizofrenia, sono tutt’altro che insensibili
alle credenze culturali e alle aspettative odierne: ne più ne meno
della paralisi isterica della gamba, dei “vapori”, della possessione
degli spiriti “Zar” o di ogni altra malattia di cui si è mai avuta
esperienza nella storia della follia umana. Questo non significa che
la malattia e il dolore ad esse associate non siano reali, o che il
sofferente deliberatamente adatti i suoi sintomi a una certa nicchia
culturale. Significa che una malattia mentale è una malattia della
mente e non può essere capita senza capire le idee, le abitudini e
le predisposizioni ( gli orpelli culturali idiosincratici) della mente
che la ospita.
Anche quando la scienza sottostante
è valida e le intenzioni altruistiche, l’esportazione delle
idee biomediche occidentali può avere conseguenze frustranti e inattese.
Negli ultimi cinquanta e rotti anni, i professionisti della salute mentale
hanno sostenuto quella che chiamano “letteratura della salute mentale”
nel resto del mondo. Le culture divenivano più “letterate” adottando
i concetti occidentali di malattie come la depressione e la schizofrenia.
Uno studio pubblicato su The International Journal of Mental Health,
per esempio, descriveva coloro che approvavano la frase “la malattia
mentale è una malattia come tutte le altre” come aventi un “orientamento
informato, benevolo e favorevole verso i malati di mente”.
È stato suggerito che l’infermità
mentale venga trattata come una “malattia del cervello” sulla quale
i pazienti hanno una minima scelta o responsabilità. Questo è stato
promosso raccontandolo nella società come un fatto scientifico che
avrebbe prodotto grandi benefici. La logica sembrava inattaccabile:
una volta che le persone avessero creduto che l’insorgere della malattia
mentale non era originata da forze soprannaturali, difetti della personalità,
perdite di liquido seminale, o altre nozioni prescientifiche, il sofferente
sarebbe stato protetto da colpe o stigma. Questa idea è stata promossa
dai “fornitori” di salute mentale, compagnie farmaceutiche e gruppi
a difesa dei pazienti come il National Alliance on Mental Illness
negli Stati Uniti e il SANE in Gran Bretagna. In un campo spesso stizzoso,
sembrano tutti d’accordo che questo modo moderno di considerare la
malattia mentale riduca l’isolamento sociale e gli stigma a cui sono
soggette le persone affette. Calpestare superstizioni indigene prescientifiche
circa la causa della malattia mentale è sembrato un piccolo prezzo
da pagare per alleviare un po’ della sofferenza sociale del malato.
Ma la credenza della “malattia del
cervello” riduce veramente gli stigma?
Nel 1997 la prof.ssa Sheila Mehta,
dell’università di Auburn, Montgomery in Alabama, decise di scoprire
se la storia della “malattia del cervello” avesse l’effetto atteso.
Sospettava che la spiegazione biomedica della malattia mentale potesse
influenzare le nostre attitudini verso il malato mentale in modalità
di cui non siamo consci, così se ne uscì con un ingegnoso esperimento.
Nel suo studio i soggetti furono indotti
a credere che stessero partecipando a un semplice compito di apprendimento
con un partner che era, a loro insaputa, un complice nella ricerca.
Prima dell’inizio dell’esperimento, i partner si scambiavano alcuni
dati biografici, e il complice informava il soggetto del test di essere
affetto da malattia mentale.
Il complice poi informava che la malattia
era sopraggiunta a causa “del tipo di cose che mi sono accadute da
piccolo” oppure che aveva avuto “una malattia come un’altra, che
ha influito sulla mia biochimica”. (Queste sono state chiamate la
spiegazione “psicologica” e la spiegazione “malattia” rispettivamente).
L’esperimento quindi chiedeva al soggetto di insegnare al complice
un pattern di pressioni di bottoni . Quando il complice premeva il bottone
sbagliato il solo feedback che il soggetto poteva dare era una scarica
elettrica con intensità che andava dall’“appena percepibile”
all’“un po’ doloroso”.
Analizzando i dati Metha trovò
una differenza tra il gruppo dei soggetti a cui era stata data la spiegazione
psicologica per la malattia mentale del partner e quelli a cui era stata
data la spiegazione della malattia del cervello. Quelli che credevano
che il loro partner soffrisse di una malattia biochimica come un’altra
aumentavano la severità delle scosse a un tasso più veloce rispetto
a quelli che erano in coppia con una persona che credevano avere disturbi
mentali causati da una esperienza passata.
“Il risultato degli studi attuali
suggerisce che in realtà potremmo trattare le persone più
duramente quando i loro problemi sono descritti in termini di malattia”,
scrive Metha: “Diciamo di essere stati gentili, ma le nostre azioni
indicano diversamente”. Il problema sembra essere che la letteratura
biomedica su malattie come la schizofrenia porta con se il sottile assunto
che un cervello malato attraverso anomalie genetiche o biomediche è
danneggiato in maniera più estensiva e irreparabile di uno ammalato
per eventi vissuti. “Vedere quelli con disordini mentali come malati
li esclude e potrebbe portare a farceli percepire come fisicamente distinti
da noi. Le aberrazioni biochimiche li rendono quasi una specie differente”.
In altre parole, la credenza che era
stata assunta per diminuire lo stigma in realtà lo ha aumentato.
Era vero lo stesso fuori dal laboratorio, nel mondo reale?
La domanda è importante perché
la pressione occidentale della “letteratura sulla salute mentale”
ha guadagnato terreno. Diversi studi hanno dimostrato che gran parte
del mondo ha adottato fermamente questo modello medico per la malattia
mentale. Nonostante questo cambiamento sia più estensivo negli Stati
Uniti e in Europa, una tendenza simile è stata documentata ovunque.
Se richiesto di elencare le cause di malattia mentale, le persone, da
una varietà di culture e con sempre maggiore probabilità vi menzioneranno
“squilibri chimici” o “malattia al cervello” o “fattori genetici
ereditari”.
Sfortunatamente, mentre i professionisti
della salute mentale stavano convincendo il mondo a pensare e parlare
delle malattie mentali in termini biomedici, siamo andati simultaneamente
perdendo la guerra contro gli stigma in casa e all’estero. Studi sull’atteggiamento
negli Stati Uniti, dal 1950 al 1996 hanno mostrato che la percezione
di pericolosità che circonda le persone schizofreniche è stabilmente
aumentata in questo periodo di tempo. Similmente, uno studio in Germania
ha trovato che il desiderio delle persone di tenere le distanze da quelli
a cui è stata diagnosticata una schizofrenia è aumentato dal 1990
al 2001.
I ricercatori, tentando di scoprire
quali fossero le cause dell’aumento dello stigma hanno trovato le
stesse sorprendenti relazioni che Metha ha scoperto in laboratorio.
E’ venuto fuori che quelli che adottavano credenze biomediche/genetiche
sui disordini mentali erano quelli che meno desideravano contatti con
i malati e li ritenevano più pericolosi e imprevedibili. Questa sciagurata
relazione è venuta fuori in numerosi studi in tutto il mondo. In uno
studio condotto in Turchia, per esempio, quelli che etichettavano i
comportamenti schizofrenici come “akil hastaligi” (malattia
del cervello o delle abilità cognitive) erano più inclini ad asserire
che gli schizofrenici sono aggressivi e non dovrebbero vivere liberi
nella comunità rispetto a quelli che vedevano lo stesso disturbo come
“ruhsal hastagi” (un disturbo dell’io interiore o spirituale).
Un altro studio, che ha esaminato le popolazioni di Germania, Russia
e Mongolia, ha trovato che “indipendentemente dal luogo […] sostenere
che i fattori biologici siano la causa della schizofrenia
è associato con un maggiore desiderio di distanza sociale”.
Anche se ci siamo congratulati per
essere diventati più “benevoli e di sostegno” verso i malati
mentali, ci siamo costantemente allontanati dai sofferenti. In breve
sembra che l’impatto della nostra campagna mondiale anti-stigma sia
stato l’esatto opposto di quanto inteso.
In nessun altro caso come quello della
schizofrenia le limitazioni delle idee e dei trattamenti occidentali
sono più evidenti. I ricercatori hanno a lungo cercato di capire
quello che potrebbe essere il risultato che genera più perplessità
negli studi interculturali sulla malattia mentale: le persone affette
da schizofrenia nelle nazioni in via di sviluppo sembrano progredire
meglio sul lungo termine rispetto a quelli che vivono nelle nazioni
industrializzate.
Questo è stato il sorprendente
risultato di tre vasti studi portati avanti dalla Organizzazione Mondiale
della Sanità nel corso di trent’anni, a partire dagli anni ‘70.
Le ricerche hanno mostrato che i pazienti fuori dagli Stati Uniti e
dall’Europa hanno dei tassi di ricaduta significativamente più bassi,
due terzi più bassi in uno studio successivo. Queste scoperte sono
state ampiamente discusse e dibattute anche per la loro ovvia incongruità
: le regioni del mondo con le maggiori risorse da dedicare alla malattia,
la migliore tecnologia, la medicina allo stato dell’arte e le istituzioni
di ricerca accademiche o private con i migliori finanziamenti, hanno
maggiori problemi ed emarginano socialmente i pazienti.
Cercando di svelare questo mistero
l’antropologa Juli McGruder dell’università di Puget Sound ha passato
anni nello Zanzibar, studiando le famiglie degli schizofrenici. Nonostante
la popolazione sia prevalentemente mussulmana, le credenze Swahili sulle
possessioni degli spiriti sono ancora radicate nell’arcipelago e invocate
comunemente per spiegare le azioni di chiunque violi le norme sociali,
da una sorella che aggredisce il fratello a qualcuno sopraffatto da
allucinazioni psicotiche.
McGunder ha scoperto che, lungi dall’essere stigmatizzanti, queste credenze assolvevano a determinate vantaggiose funzioni. Le credenze prescrivevano una varietà di interventi socialmente accettati e assistenze che tenevano la persona malata legata alla famiglia e ai gruppi consanguinei. McGrunder ha riscontrato che “gli spiriti musulmani e swahili non sono esorcizzati nel senso cristiano del cacciare il demone dal corpo”. “Sono invece persuasi con cibi e doni, festeggiati con canzoni e danze. Sono placati, accomodati, riducendo i comportamenti negativi.” McGrunder ha notato questo approccio in molti piccoli gesti di gentilezza. Ha osservato i membri della famiglia usare pasta di zafferano per scrivere frasi del corano sui bordi delle ciotole usate per bere, così che la persona malata potesse letteralmente assorbire le parole sacre. Le credenze di possessione spiritica aveva ulteriori benefici inaspettati. Obiettivamente, la storia della possessione permetteva alla persona affetta da schizofrenia un migliore certificato di fine malattia quando questa regrediva. Un individuo malato che godeva di un periodo di relativa salute mentale poteva, almeno temporaneamente,
riprendere le sue responsabilità nel suo gruppo parentale. Dal momento che la malattia era vista come l’effetto di forze esterne, era percepita come una afflizione per chi ne soffriva ma non come una identità.
Per McGruder il punto non è tanto che queste pratiche o credenze fossero efficaci nella cura della schizofrenia, quanto piuttosto che, secondo lei, aiutavano nel controllo del decorso della malattia. Inoltre, mantenendo l’individuo malato nel gruppo sociale, le credenze religiose dello Zanzibar consentivano un tipo di calma e acquiescenza nei confronti della malattia a cui non aveva mai
assistito in occidente.
E’ improbabile che il decorso delle metastasi di un cancro sia influenzato dal modo in cui ne parliamo. Tuttavia nella schizofrenia i sintomi sono inevitabilmente legati alle complesse interazioni della persona con quelli che la circondano. In effetti i ricercatori hanno da tempo documentato come certe reazioni emotive dei familiari siano correlate ad alti tassi di recidiva per
persone a cui è stata diagnosticata la schizofrenia. Riferite collettivamente come “Emozioni fortemente espresse” , queste reazioni includono critica, ostilità eccessivo coinvolgimento emotivo (come l’eccessiva protettività o la costante intrusività nella vita del paziente). In uno studio risulta che il 67 percento delle famiglie bianche americane con un membro schizofrenico sono state classificate come soggette a “Emozioni fortemente espresse”. (Per le famiglie britanniche il 48 percento, per quelle messicane il 41 e per quelle indiane il 23 percento).
Questo alto livello di “emozioni espresse” negli Stati Uniti sta a significare che manchiamo di empatia o desiderio di prenderci cura dei nostri malati mentali? In realtà è piuttosto il contrario. I parenti del malato che manifestano forti emozioni stanno semplicemente esprimendo una particolare visione americana del sé. Tendono a credere che gli individui sono i capitani del proprio
destino e dovrebbero superare i problemi con la loro forza di volontà. I loro commenti critici verso la persona mentalmente malata non stanno a significare che sono familiari crudeli o incuranti; stanno semplicemente applicando un assunto sulla natura umana che hanno sempre applicato con se stessi. Stanno riflettendo un “approccio al mondo attivo, intraprendente e che enfatizza la responsabilità personale” Come conclude il prof. Jill M. Hooly dell’ università di Harvard: “Lungi dal riflettere
qualcosa di negativo nei membri della famiglia dei pazienti schizofrenici, l’atteggiamento fortemente critico (e quindi anche le emozioni fortemente espresse) è stato associato a caratteristiche largamente riconosciute come positive”.
Largamente riconosciute come positive… largamente inteso come “negli Stati Uniti”. Molte culture tradizionali concepiscono il sé in termini differenti: come inseparabile dal proprio ruolo nel gruppo parentale, intrecciato con la storia della propria stirpe e permeabile al mondo spirituale. Quello che McGrunder ha scoperto nello Zanzibar è che le famiglie spesso traevano forza da questa idea della natura umana meno isolata e più connessa. La loro abilità di mantenere un livello basso di emozioni espresse dipendeva da queste credenze. Ed a sua volta, questo basso livello di emozioni espresse potrebbe essere la chiave per migliorare la sorte di chi soffre di schizofrenia.
Certamente, fintantoché i nostri moderni psicofarmaci possono alleviare la sofferenza, non dovrebbero essere negati al resto del mondo. Il problema è che i nostri progressi biomedici sono difficilmente separabili dalle nostre particolari credenze culturali. Ad esempio è difficile distinguere la concezione biomedica di schizofrenia, l’idea che esista una disfunzione nella biochimica del cervello, dall’idea più incipiente che il sé risieda li. “La malattia mentale è temuta e ha un tale stigma perché rappresenta il contrario di quanto gli umani occidentali sono arrivati a concludere sia l’essenza della natura umana”, conclude McGruder: “Poiché la nostra cultura da così tanto valore all’illusione di autocontrollo e controllo delle circostanze, diventiamo abietti nella contemplazione di una attività mentale che sembra più mutevole, meno contenuta e meno controllabile, più aperta alle influenze esterne rispetto a quella che noi immaginiamo sia la nostra.”
Gli psichiatri interculturali hanno evidenziato come l’idea di salute mentale che esportiamo nel mondo sia raramente un fatto scientifico genuino e mai culturalmente neutrale.
“Il discorso della salute mentale in occidente introduce componenti fondamentali della cultura occidentale, inclusa una teoria sulla natura umana, una definizione di personalità, un senso del tempo e della memoria e una fonte di autorità morale. Nessuna di queste è universale”, osserva Derek Summerfield dell’istituto di psichiatria di Londra. Ha anche scritto: “Il problema è la spinta complessiva che deriva dall’essere al centro dell’unica cultura globalizzante. E’ come se una sola versione della natura umana venisse imposta come quella definitiva, e con essa un solo complesso di idee sul dolore e sulla sofferenza […] Non c’è una psicologia definitiva.”
Dietro alla promozione delle idee occidentali di salute mentale e guarigione ci sono una varietà di assunti culturali sulla natura umana. Gli occidentali ad esempio condividono credenze in evoluzione su quale tipo di evento della vita è probabile che comporti dei traumi psicologici, e siamo tutti concordi sul fatto che sfogare le emozioni attraverso il parlare sia più sano di uno stoico silenzio. Siamo giunti ad accordarci sul fatto che la mente umana sia piuttosto fragile e che la cosa migliore è considerare molte esperienze emotive come malattie che richiedono l’intervento professionale (il
National Institute of Mental Health riporta che ad un quarto degli americani viene diagnosticata una malattia mentale ogni anno). Le idee che esportiamo hanno spesso radicata nel profondo un particolare marchio americano di iper-introspezione (una inclinazione per la “psicologizzazione” della vita quotidiana). Queste idee sono profondamente influenzate dalla divisione cartesiana tra mente e corpo, dalla dualità freudiana tra il conscio e l’inconscio, così come molte filosofie di auto-aiuto e scuole terapeutiche hanno incoraggiato gli Americani a separare la salute dell’individuo dalla salute del gruppo. Queste idee occidentali sulla mente si stanno rivelando tanto seducenti per il resto del mondo
quanto lo sono il fast-food e la musica rap, e noi le diffondiamo con velocità e vigore.
Nessuno sostiene che dovremmo tenere le altre nazioni all’oscuro delle nostre scoperte mediche, ma è forse arrivata (e anche passata) l’ora di ammettere che anche il più notevole dei passi avanti scientifici nel capire il funzionamento del cervello non ha ancora creato quel tipo di storie culturali dalle quali gli umani traggono significato e conforto. Quando queste scoperte scientifiche
sono tradotte in credenze popolari e storie culturali, sono spesso spogliate della complessità della scienza e diventano narrativa comicamente insostanziale. Prendete ad esempio questo testo tratto da un sito web che pubblicizza l’antidepressivo Paxil : “Proprio come una ricetta di un dolce richiede di usare farina, zucchero e lievito nelle giuste dosi, il tuo cervello necessita un delicato equilibrio chimico per funzionare al suo meglio.” La mente degli occidentali, incessantemente analizzata da generazioni di teorici e ricercatori, è stata così ridotta ad un impasto di sostanze chimiche che portiamo in giro nella terrina del nostro cranio.
Tutte le culture hanno a che fare con malattie mentali incurabili con diversi livelli di compassione e crudeltà, equanimità e paura. Comunque, guardandoci attraverso gli occhi di quelli che vivono in luoghi in cui la pazzia e i traumi psicologici sono ancora immersi in complesse narrative culturali e religiose, abbiamo una visione di noi stessi come persone insicure e spaventate. Alcuni filosofi e psichiatri hanno suggerito che stiamo investendo enormi ricchezze nella ricerca e nel trattamento della malattia mentale (medicalizzando fette sempre più larghe dell’esperienza umana) perché abbiamo perso abbastanza improvvisamente i nostri vecchi sistemi di credenze che un tempo fornivano un contesto e davano un significato alla sofferenza mentale.
Se il nostro crescente bisogno di servizi per l’igiene mentale è veramente originato dallo sgretolamento di significato, la nostra insistenza sul fatto che il resto del mondo la pensi come noi potrebbe essere ancora più problematica. Offrire le ultime teorie, trattamenti e categorie occidentali sulla salute mentale nel tentativo di migliorare lo stress psicologico scatenato dalla modernizzazione e dalla globalizzazione non è una soluzione; potrebbe essere parte del problema. Quando miniamo la concezione del sé e delle modalità di guarigione, potremmo stare solo accelerando i cambiamenti sconcertanti che sono alla radice di gran parte della sofferenza mentale nel mondo.
Fonte: http://www.nytimes.com/2010/01/10/magazine/10psyche-t.html?pagewanted=all
Scelto e tradotto per www.comedonchisciotte.org da PAOLO CASTELLETTI