DI TONGUESSY
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“Il linguaggio, prima di significare qualcosa, significa per qualcuno”, questa è la pietra miliare su cui Lacan costruisce tutto il suo ragionamento. L’Altro, secondo il noto filosofo e psichiatra, non è qualcosa di fisico come un uomo, ma un luogo, e più precisamente “il luogo di dispiegamento della parola”, come l’ha definito lui stesso. Dato che “l’inconscio è strutturato come un linguaggio”, va da sé che l’Altro è il luogo della definizione del percorso comunicativo non solo conscio, ma anche inconscio. L’assimilazione di tutto ciò che riguarda le esperienze di vita è quindi legato all’Altro. Il simbolismo linguistico lega l’uomo alle leggi sociali tramite l’Altro.
Il dramma della follia per Lacan, nella relazione del soggetto con il significante, è l’effetto finale della mancanza di simbolizzazione ed è quindi una virtualità permanente per ogni essere umano. Nulla infatti garantisce l’armonia dell’individuo con l’Altro se non il costante processo di soggettivazione.
L’Altro quindi è il luogo della costruzione linguistica di De Saussure e Jacobson (significante e significato), ed il dramma diversamente da Freud non è il sesso ma il linguaggio, che traumatizza come una flagellazione le “carni” umane peraltro senza un apparente motivo.
Lasciando da parte le questioni di tipo psicologico, quello che emerge da questa interessante analisi è il luogo deputato alla stabilizzazione dei caratteri individuali e sociali: l’Altro. Che non è, come impone la narrazione odierna, diversi decenni dopo la stesura dei pensieri di Lacan, un africano o più in generale uno straniero. Non serve scomodare sempre il solito Huntington ed il suo ipotetico scontro di civiltà; le cose possono essere molto diverse da come le dipingono i think tank neocon. L’Altro non genera scontri, è il luogo dove nasce e si sviluppa il Logos.
La postmodernità ci ha consegnato un universo comunicativo in preda al caos dove i significati si rincorrono, in un susseguirsi tanto spettacolare quanto distruttivo di rimandi a semantiche improbabili perché decostruite. Una volta, quando ancora esistevano le ideologie (e non l’attuale monade neocon del pensiero unico) alle parole venivano associate significati precisi. Quei vetusti significati, aggregati in diverse combinazioni, producevano culture politiche oggi scomparse per favorire, grazie alla demolizione programmata del Logos, la dittatura della post-verità.
Il cardine su cui ruota tutta l’operazione è la generazione costante di concetti polisemici: tutto ormai significa poco o nulla, e nel clima solipsistico che avvolge il narcisismo patologico del consumatore compulsivo la prassi del consumo verbale ha ormai accerchiato e distrutto millenni di dibattito costruttivo sul significato stesso della comunicazione.
Non deve quindi stupire se una delle vittime sacrificali di questa mattanza semantica sia proprio l’Altro. La post-verità impone che all’interno di una discussione la verità assuma poca importanza. Le verifiche sono inutili, molto meglio le fake news che imbrattano i giornali. Il verificazionismo è morto assieme a Moritz Schlick, assassinato sui gradini dell’università dove insegnava. La verità legata alla ricerca e alle analisi lacaniane non poteva che cedere inizialmente il passo alla ridondanza di significati per poi essere sostituita a tutto vantaggio del “nuovo che avanza”. In contrapposizione all’avanzare imperioso della virtualità, l’Altro è diventato via via sempre più fisico e sempre più identificabile con il “nemico” che, posto a pochi metri da noi valorosi soldati e patrioti, ci sta sparando.
Se avete capito che sto difendendo gli immigrati lasciate perdere, questo articolo non fa per voi. Sto invece mettendo in evidenza come sia stato possibile trasformare una realtà macabra come la tratta degli schiavi (l’olocausto africano che impegnò olandesi, portoghesi, britannici e spagnoli: 12 milioni di schiavi deportati nelle Americhe con 2 milioni di morti) dove venivano identificati i veri responsabili, in una missione simile a Telethon, dove ci sono solo vittime da salvare mentre i carnefici con compaiono mai, a parte qualche sfigato scafista.
Ecco, l’avere messo l’Altro in un clima di post-verità, l’avere sostituito tramite subdole e coerenti manovre comunicative il vero senso della ricerca e delle ipotesi di Lacan può essere d’aiuto per comprendere come la distruzione del linguaggio abbia origini e scopi ben definiti. E’ un tassello importante nella comprensione dei meccanismi preposti alla frammentazione culturale che stiamo vivendo oggi dove l’immigrato rappresenta l’useful idiot in grado di catalizzare l’attenzione e gli strali di chi è guidato verso e attraverso il frainteso.
I legami che uniscono il linguaggio alla cultura sono stati a più riprese sottolineati in diverse discipline. Wittgenstein del Tractatus era convinto che le proposizioni significassero i fatti. Conseguentemente non si può parlare che di fatti, da cui la sua massima: “Il mio linguaggio è il mio mondo”. Cambiate linguaggio e avrete cambiato il mondo, vedi Programmazione Neuro Linguistica. A questo serve la post-verità: insabbiare concetti familiari, frutto di studi e/o di elaborazioni secolari sostituendoli con altri “più attuali”.
L’Altro inteso come africano è un eccellente esempio di post-verità. Si crea il fatto (l’immigrato) e parallelamente gli si dà un significato teso a modificare lo stato di coscienza esistente (l’Altro).
Osserviamo ora la questione dal punto di vista linguistico: l’ipotesi Sapir-Whorf prende corpo dagli studi eseguiti da questi due studiosi, ed in particolare dalla comparazione dei linguaggi occidentali con quelli dei Nativi Americani. Secondo Whorf un indiano Hopi ha molta più facilità nel comprendere la fisica relativistica rispetto ad un europeo per il semplice motivo che il concetto di Tempo per i Nativi non ha lo stesso significato che ha per gli occidentali. Nella forma più estrema l’ipotesi Sapir-Whorf dice che il modo di esprimersi determina il modo di pensare. Cambiate il set verbale e avrete cambiato il set mentale.
D’altronde basta guardare un po’ indietro nel tempo per verificare come set verbale e mentale vadano a braccetto. Lo Stil Novo vi dice qualcosa? Secondo la Treccani: “ Una grande questione era in primo piano nel secondo Duecento e nel primo Trecento, quella circa la natura della nobiltà. All’opinione tradizionale, che faceva consistere questa nell’antichità della famiglia e nelle ricchezze, si era andata via via sempre più nettamente sostituendo l’opinione che vera nobiltà fosse solo quella delle opere individuali, il che significa che su una civiltà e una società feudali andavano prevalendo una civiltà e una società borghesi.”
Creato un set verbale nuovo, più suadente (“dolcezza di suono, da ottenere mediante la scelta accurata di vocaboli, la loro semplice collocazione, il ripudio di suoni duri, di forme artificiose e aggrovigliate”) e avete in mano la chiave per aprire le porte alla borghesia, alle scienze, al Rinascimento e quindi alla Modernità. E demolire attraverso il Logos (l’Altro!) la nobiltà. Poi è solo un susseguirsi di avvenimenti legati all’Altro.
La postmodernità non poteva agire diversamente, solo che invece di ricercare suoni più morbidi ha cercato e trovato suoni molto più duri (ci sarebbe un lungo discorso da fare sul Punk che ha scalzato il Blues Revival in Europa ed il Rap che ha rimpiazzato l’R&B negli USA) mentre rimpiazzava valori attraverso la semantica della post-verità. Un semplice esempio: l’episodio delle Torri Gemelle ed il successivo stato poliziesco legato al Patriot Act che dà facoltà alle élites di violare la privacy individuale basandosi su ipotesi non verificate riguardo agli attentati.
Fu termite quindi demolizione controllata oppure fu il kerosene a determinare quei crolli? La risposta è a questo punto irrilevante (post-verità), più importante è il metodo adottato: la ridondanza. Ricorda molto il gioco delle tre carte: solo una è quella vera. Trovatela.
Siamo bombardati da informazioni (più spesso da propaganda). “Il sovraccarico nel flusso di informazioni è tale che svanisce la capacità di distinguere che cosa è vero da che cosa non lo è” spiega Mario Perini, del Centro Torinese di Psicoanalisi e docente dell’Università di Torino.
La postmodernità prende forma proprio attraverso le ridondanze ed i simulacri descritti magistralmente da Baudrillard: l’informazione come simulacro comunicativo ormai sganciato dalla sacralità della parola diventa, nella moltiplicazione virtuale o iperrealtà, sconfortante pleonasmo nella vacuità dei significati.
A questa ipertrofia comunicativa si accompagna l’atrofizzazione della semantica che si sta diffondendo come analfabetismo di ritorno. L’individuo postmoderno pensa di sapere ma il suo sapere è monco, senza riscontro reale, post-definito, appeso com’è a concetti che ruotano attorno al rutilante mondo del virtuale dove tutto ed il suo contrario sono ugualmente possibili. Anzi reali, dato che tra reale e virtuale ormai la differenza è stata annullata per favorire lo sviluppo dell’iperrealtà. E forse è proprio questo uno scopo di tutta la postmodernità: arrivare alla Cashless Society dove un Grande Fratello, dopo avere incassato il successo del WTC e del Patriot Act, decide chi mangia e chi no (l’Altro?) lasciandoci convinti di avere operato la scelta migliore.
Tonguessy
Fonte: https://comedonchisciotte.org/
14.06.2019