DI CHRISTOPHER D. COOK
Salon.com
Richiedere il più stigmatizzato dei sussidi, mi è sembrata una sconfitta e una vittoria
“Signor Cook! Signor Cook? Sportello 3!”
Cammino attraverso la pallida luce
fluorescente, irrorata dal governo nella burocratica sala d’attesa in calcestruzzo, accompagnato all’interno del sancta sanctorum dei benefici sociali. Mi sentivo stupidamente privilegiato, perché passavo rapidamente davanti a file di volti depressi, stanchi, annoiati e frustrati: come mai mi avevano chiamato così in fretta, dopo solo quindici minuti
di attesa?
Entrare non vuol dire che approveranno
la tua richiesta, ma, come quando si aspetta il dottore nell’anticamera,
cambiare stanza dà una speranza. È un passo in avanti.
Il mio assistente sociale – un indiano
alto, robusto, pieno di salute – parla come una mitragliatrice. ”Cinquantacinque”,
dice con rudezza, mentre indica con il braccio un fascicolo numerato
in una lunga fila di fascicoli numerati. Non ho ancora bevuto il caffè,
così ci metto un po’ a capire cosa possa significare “55”, e poi
mi siedo di fronte a lui. Sembra (e mi sento) come se fossi in prigione.
L’assistente sociale, che chiamerò
Chakim, è energico ed efficiente: ”Carta d’identità? Tessera
della Social Security?”
Gli passo tutto prima possibile: la
mia patente di guida, la mia logora tessera della Social Security con
la mia goffa firma infantile e il mio passaporto completo con il timbro
“India” del Gennaio 2011 (spero che lo noti).
Mi chiede, rat-a-tat-tat: ”Disoccupato?
Quanto guadagna al mese? Lavoro autonomo? Paga in contanti o in assegno?”
“Sono un libero professionista,”
gli dico, ”il mio guadagno è
davvero inconsistente. Forse 750 o 800 dollari al mese.”
Gli mostro poche e occasionali ricevute
di assegni tirate fuori da una cartellina. Quattrocentocinquanta dollari
qui, cento là, un’altra per duecento dollari, un’altra per cinquecento.
Questa è la vita di uno scrittore oggi.
“E quanto paga d’affitto? Altre
spese?”
Le quantifico: 770 d’affitto, 40
di telefono cellulare, 25 di spese varie. Più o meno 800 dollari.
Chakim mi osserva in modo interrogativo:
”E come fa a vivere? Il suo affitto
è più alto dei suoi guadagni?”
Risparmi, gli dico. È vero: negli
ultimi anni, da giornalista e scrittore più o meno bravo e affermato,
mi sono imbattuto tra le difficoltà di sempre, ma ora navigo nelle
acque tremendamente agitate del freelance, integrando i miei
oscenamente bassi guadagni (spesso al di sotto dei 15.000 dollari) con
del denaro che mia nonna mi ha lasciato qualche anno fa. Tirando le
somme, vivo a San Francisco con circa 20.000 dollari. Ogni anno, anche
se mi batto per avere incarichi e clienti, quel piccolo gruzzolo si
va riducendo paurosamente. Al momento è quasi inesistente e, anche
se ho fatto dei lavoretti qua e là, sto precipitando verso la povertà.
Non sono il solo nella mia “privilegiata”
condizione: come l’Huffington Post ha riportato nel giugno 2010, il
critico gastronomico Ed Murrieta andava da un ristorante all’altro
con la nota spese per integrare l’attribuzione di 200 dollari in buoni
alimentari. Secondo il Dipartimento dell’Agricoltura, negli USA 46,3
milioni di persone sopravvivono con i buoni alimentari, un picco storico,
a causa alla recessione e della crescita della popolazione.
La lista sempre più lunga dei
beneficiari, seppure nel bel mezzo di una profonda recessione, ha ispirato
i facoltosi candidati Repubblicani alla presidenza (ve ne sono di altro
tipo?) per etichettare Barack Obama “il presidente dei buoni alimentari”,
anche se, secondo USA Today, le liste sono cresciute molto di
più sotto la presidenza di George W. Bush.
Circa un americano su sei (un bambino
su cinque) non ha cibo a sufficienza. Secondo USA Today che cita
i dati del censimento, più o meno la metà del paese è povera o ha
un reddito basso. Sebbene la disoccupazione in luoghi posti si sia un
po’ attenuata, la gran parte del ventre molle dell’America è, economicamente
e nutrizionalmente, sottoalimentato.
Definisco me stesso un colletto bianco
“logoro”, una parte privilegiata dei poveri. Ho un diploma del
college, una carriera e un vasto assortimento di amici del ceto
medio che lavorano, e che economicamente molto più abbienti di me;
insieme siamo la rappresentazione di un discreto 97%, o forse 95%. Per
la maggior parte, siamo tutti sotto pressione; persino i miei amici
insegnanti, che guadagnano circa 60.000 dollari all’anno, sono sempre
economicamente sull’orlo del baratro, arrivando a fatica alla fine
del mese grazie alle carte di credito.
Tornando all’ufficio di assistenza
sociale, Chakim toglie la mano dal suo mouse con le sue dita grandi
e grosse, fruga nel suo faldone a fisarmonica, e mi mette bruscamente
dei fogli davanti: “Firmi.” Lo guardo con espressione interrogativa.
”Firmi”, dice di nuovo. ”Sto solo cercando di aiutarla.
Firmi.” E allora firmo.
“Sta prendendo il sussidio di
disoccupazione? Ha mai ricevuto prima i buoni alimentari?”
“No, no, nessun sussidio. È la prima volta che chiedo i buoni
alimentari,” gli dico, ”ad eccezione di quando ero bambino”.
Dietro a Chakim, contro il muro opposto,
su una buffa tazza per il caffè tagliata a metà, c’è la scritta,
“Hai chiesto solo mezza tazza di caffè.” Nella tormentata
terra dei sussidi pubblici americani, mi sembra davvero una metafora.
Tanto per riscaldare un po’ l’ambiente, dico a Chakim che mi piace
la sua tazza da caffè.
Dopo qualche minuto, Chakim tira fuori un modulo del Department of
Human Services con l’intestazione “Controllo dei consumi dei
buoni alimentari”, annotando il mio nome e il numero di pratica, e
crociando benevolmente la casella che mi autorizzerà a ricevere i buoni
alimentari per dodici mesi. Mi sarà richiesto “di compilare il
formulario Q7, Quarterly Eligibility Report, ogni tre mesi”.
Sento un aumento della salivazione,
come se stessi per assaggiare del cibo. Non sono neppure lontanamente affamato, la
mia dispensa e il mio frigorifero sono quanto meno modestamente riforniti
di buon cibo solido (buste di verdure, rape e broccoli acquistate dai
contadini, pollo biologico nel congelatore).
Ma, mentre Chakim prepara i documenti
per l’approvazione della mia pratica, provo sollievo, immaginandomi
con la mia nuova scintillante carta magnetica per i buoni alimentari,
nel fare scorta di cibo ogni mese senza dover precipitare velocemente
nell’indigenza.
Come avevo detto a Chakim, forse per
ispiragli simpatia, sono stato allevato con i buoni alimentari. Negli
anni ’80, mentre Ronald Reagan stava alimentando lo spaventoso spettro
delle “Regine del Welfare che guidano le Cadillac” (gente
benestante che percepisce sussidi, ndt), io e mia madre single
abbiamo contato sui buoni alimentari per anni, persino quando lei lavorava
in un negozio di cibo biologico a Boston. Ce la cavavamo con i suoi
poveri guadagni, il blocchetto dei buoni alimentari e, a volte, con
i prodotti leggermente ammaccati, ma assolutamente commestibili, che
il negozio non poteva vendere.
Non ricordo mai di aver provato vergogna
per la mia povertà. Per me quei blocchetti di buoni alimentari erano
come il denaro del gioco del Monopoli e ci permettevano di tirare avanti.
Ma ora ho 44 anni, sono single, nessuno da sfamare se non me
stesso e, mentre Chakim firma gli ultimi documenti, la mia sensazione
di vittoria velocemente riecheggia come una sconfitta. Come avevo fatto a cadere così in basso, fino
al punto in cui, se non riuscirò a trovare un aiuto o ad aumentare
significativamente i miei guadagni, potrei trovarmi presto in mezzo
ad una strada?
Mentre lascio l’edificio in calcestruzzo,
passando tra la gente ammassata all’entrata mentre fuma mozziconi
di sigaretta, mi assale un’ondata di vergogna e di tristezza.
Come ero riuscito a tornare al punto
di partenza, quando da bambino vivevo con i buoni alimentari (che ha,
sì, i pasti gratis)? L’America dovrebbe essere il motore del progresso
e a ciascuno di noi è assegnata la “promessa” e, in pratica,
il dovere di intraprendere questo percorso in modo costante. Anche se
non ho mai comprato una guida americana sul progresso e sulle opportunità,
in qualche modo mi sento un imbranato per non essere riuscito a barcamenarmi
e realizzare il mio compito.
Con la mia carta del Golden State
Advantage (la carta magnetica che viene rilasciata dai servizi sociali,
utilizzabile sia per i buoni alimentari che per pagare altri beni, ndt),
passo velocemente dal vergognarmi al sentirmi colpevole. Perché? Dopo
tutto pago le tasse, anche se non tanto, visti i miei bassi guadagni
(in effetti con la stessa aliquota pagata da Mitt Romney per il suo
milione annuo di rendite dagli investimenti). Oh sì,certo, questa è
l’America di chi si fa da solo, la terra della libera opportunità
capitalistica.
L’assistenza pubblica ha sempre portato
lo stigma puritano dell’infamia e della colpa. Come Francis Fox Piven
e Richard Cloward hanno spiegato nel loro classico “Regulating
the Poor”, la colpa e la vergogna sono state a lungo caratteristiche
intenzionali dell’assistenza pubblica – in aggiunta a varie forme
di lavoro forzato e monitoraggio invasivo – che risalgono alle leggi
inglesi per i poveri del XVI secolo, sino al tanto demonizzato capitalismo
assistenziale dell’America dei nostri giorni, proprio mentre i Repubblicani
pungolano e tormentano il nostro primo presidente di colore, chiamandolo
“il presidente dei buoni alimentari”.
Insieme alla colpa personale, ci sono
preoccupazioni sulla politica in generale oltre alla questione dei buoni
alimentari, e cioè che le possibilità di rielezione di Obama stiano
diminuendo (non che io sia un suo sostenitore, ma i Repubblicani sono
dei veri barbari che minacciano di distruggere quel poco rimasto dell’assistenza
sociale per i più poveri).
Ma, in quanto scrittore progressista
a basso reddito (quanta ridondanza!), sono impegnato a fare due cose:
sfamarmi e rendere noto a tutti che usufruire dei buoni alimentari –
o aumentarne la fruizione se si è Presidente – è ben lontano dall’essere
un crimine. Nonostante la mia personale reazione nel ricevere denaro
dai servizi sociali, in ogni caso questi sussidi permettono alla gente
di vivere.
I buoni alimentari permettono
ad alcuni di mangiare, ad altri di lavorare, sovvenzionando in modo
fondamentale il mercato dell’industria alimentare.
Forse è ancora più importante
il fatto che i buoni alimentari non sono il problema, e non sono neppure
la soluzione. Sono una soluzione d’emergenza che a malapena aiuta
la gente a stare a galla, mentre le grandi società americane e gli
eccessivamente ricchi rubano come banditi, portando via i loro profitti
dai fondi pubblici. Qualcuno potrebbe dire che “questa
è un’altra storia”, ma in realtà persone come Mitt Romney
(e come Newt Gingrich, peraltro) evadono le tasse mentre biasimano il
povero che sopravvive praticamente con nulla: è questa la vera storia
di cui dovremmo parlare.
Mentre porto in giro la mia vergogna
e la mia colpa in questa mattinata fredda e nuvolosa, mi concedo nervosamente
una sigaretta andando verso Whole Foods (ndt, catena di supermercati
di cibi biologici), dove i miei acquisti consistono in un caffè e un
dolce alla carota e mela (1 dollaro e 88, più della metà della cifra
giornaliera pro capite dei buoni alimentari) a completare il
mio pranzo vegetariano fatto in casa a base di tofu in padella. La carta
elettronica per i buoni non sarà stata attivata fino a domani. Allora
mi sentirò ricco per davvero.
Fonte: The shame and pride of joining food stamp nation
27.01.2012
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ANNA CIVINO