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Il discorso di Bernie Sanders sulla socialdemocrazia mette a nudo i limiti dell’inventiva di un movimento in crescita.
Esiste un detto comune a sinistra generalmente attribuito a Frederic Jameson, critico di Marx, secondo cui “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo.” Il saggista Mark Fisher poco prima di morire descrisse tutto questo come “realismo capitalista”, ovvero il “diffuso senso secondo cui non solo il capitalismo è l’unico sistema politico ed economico praticabile, ma oggi è addirittura impossibile immaginargli un’alternativa sensata.”
Questa sensazione ha avuto il sopravvento dal crollo del comunismo tre decenni fa, ed ha riempito di trionfalismo il mondo capitalista fino al 2008, quando la crisi finanziaria e la successiva recessione globale hanno messo in moto svariati movimenti anticapitalisti. Purtroppo nel decennio successivo non si è ancora materializzata una vera alternativa economica e politica. Nonostante molti pensino oggi che il capitalismo debba finire, le probabilità che succeda non aumenteranno nemmeno se il senatore Bernie Sander dovesse diventare Presidente degli Stati Uniti.
Il senatore del Vermont [Sanders, ndt] ha chiarito la questione in un suo discorso tenuto pochi giorni fa ed il cui titolo da solo qualifica i limiti della sua rivoluzione: “Perché la socialdemocrazia rimane l’unico metodo per sconfiggere l’oligarchia”. Non ha denunciato le malefatte del capitalismo in quanto tale, ma del capitalismo senza freni ed ha usato la parola “socialismo” come una sorta di epiteto.
“Non dobbiamo dimenticarci l’incredibile ipocrisia di Wall Street, i più autorevoli predicatori del capitalismo sfrenato”, ha detto. “Nel 2008, dopo che la loro avidità e sconsideratezza unita a comportamenti illegali creò il maggiore disastro finanziario dalla Grande Depressione con milioni di americani senza più lavoro, senza più casa e senza più risparmi, l’adesione di Wall Street alla religione del capitalismo sfrenato finì. Di punto in bianco, Wall Street divenne socialista e chiese i più grandi finanziamenti federali della storia americana per effettuare i salvataggi.”
L’esitazione di Sanders ad analizzare più in profondità potrebbe causare qualche fastidio a chi si riconosce nell’estrema sinistra, ma non sorprende più di tanto visto come sono andate le cose recentemente. Uno dei più importanti segnali di rinascita socialista fu l’esplosione di Occupy Wall Street nel lontano 2011. Pur senza apparato centrale e leader, è stato probabilmente il maggiore movimento anticapitalista da quando fu dichiarata “la fine della storia” 20 anni fa [Fukuyama, ndt].
Mentre il movimento si diffondeva globalmente e la “occupazione” andava avanti per mesi, non venne prodotta alcuna idea in grado di rimpiazzare il capitalismo. In quei giorni il filosofo sloveno Slavoj Žižek commentava la questione Occupy ricordando la famosa storia di Melville sull’assistente legale Bartleby: “il messaggio di Occupy Wall Street è ‘preferirei non giocare all’attuale gioco capitalista’… oltre a questo non vedo risposte.”
Alcuni anni dopo Occupy, Thomas Piketty pubblicava il suo libro “Il capitale nel XXI secolo” destinato a diventare uno dei lavori accademici più venduti di tutti i tempi, e ad alimentare un dibattito internazionale sulle disuguaglianze. Nonostante i critici di centro e di destra l’avessero etichettato come “Marx moderno”, l’economista francese non stava in realtà proponendo né la fine del capitalismo né una teoria complessiva sul capitale. Attraverso una impressionante sfilza di dati, Piketty non faceva che confermare ciò che la sinistra ha sempre saputo: le estreme disuguaglianze e la concentrazione delle ricchezze nella mani di pochi non è che il risultato naturale del capitalismo. Diversamente da Marx, comunque, Piketty non ha minimamente cercato di immaginare un’alternativa radicale al capitalismo (le sue ricette si limitano a tassazioni globali dei ricchi, idea che risulta tanto deludente quanto irrealizzabile).
Un anno dopo la pubblicazione in inglese del libro di Piketty, Sanders lanciava la sua campagna presidenziale del 2016 destinata a diventare un altro importante indicatore degli umori del movimento anticapitalista in costante crescita a partire dalla crisi finanziaria. Sanders si qualificava apertamente come “socialdemocratico” (definizione radicale) e proponeva una alternativa al “neoliberismo progressista” che aveva dominato le politiche del Partito Democratico a partire dagli anni ‘90. (Prendo a prestito questa definizione da Nancy Fraser [storica attivista del femminismo, ndt] per descrivere un’alleanza tra i movimenti di emancipazione quali il femminismo e l’antirazzismo e “le forze neoliberiste impegnate nel finanziare l’economia capitalista” che, secondo la Fraser, usa “il carisma degli alleati progressisti per diffondere uno strato di emancipazione sul progetto retrogrado di massiccia redistribuzione verso l’alto”).
Sebbene Sanders avesse reintrodotto il concetto di politiche di classe nel dibattito e avesse ispirato una generazione di giovani ad abbracciare l’idea socialista, alla fine dei conti stava soltanto offrendo una versione aggiornata del liberalismo in stile New Deal, piuttosto che una vera alternativa socialista al capitalismo. Il fatto che i suoi proclami più “radicali” (quali la sanità pubblica gratuita) siano lo status quo in diverse nazioni europee come la Gran Bretagna a partire dalla metà del secolo scorso, la dice lunga. Come molti commentatori notarono all’epoca, Sanders era meno socialista di Eugene Debs [sindacalista e politico, condannato a 10 anni per i suoi discorsi e candidato al Nobel per la pace nel 1924, ndt] e più nello spirito di Franklin Roosevelt. Sanders deve vedersela oggi con quel paragone. Il suo discorso è stato una dichiarazione di amore per Roosevelt (nessuna menzione a Debs). Ha esortato il Partito Democratico a finire “le questioni irrisolte del New Deal”, proponendo la versione del ventunesimo secolo del “bill of right” [i primi dieci emendamenti della costituzione americana, ndt] secondo Roosevelt.
Sebbene il senatore continui a professarsi socialista, la sua vaga interpretazione rende tutto più simile alla socialdemocrazia inaugurata da Roosevelt. Secondo Sanders la socialdemocrazia è legata all’idea secondo cui “i diritti economici sono diritti umani”, il che significa diritto ad un salario decente, sanità di qualità, istruzione, alloggi a prezzi ragionevoli e sicurezza pensionistica; significa “pretendere e ottenere libertà politica ed economica per ogni comunità di questa nazione”. Per carità, tutte cose importantissime, ma solo chi è schierato politicamente a destra lo chiamerebbe socialismo.
Nei tre anni successivi alla sconfitta presidenziale di Sanders, sempre più americani condividono le sue idee. Secondo un’indagine della Axios di questa settimana quattro intervistati su dieci preferirebbero vivere in un paese socialista piuttosto che in uno capitalista, ed il 55% di donne di età compresa tra i 18 ed i 54 anni detestano il capitalismo. Sembrerebbe che tutto questo giochi a favore di Sanders, ma non nel campo delle primarie. Non ha un singolo candidato che lo sfidi e, per giunta, molti suoi avversari stanno portando avanti i suoi punti, sebbene senza il confronto politico che aveva caratterizzato la sua prima campagna elettorale.
Sanders rimane l’unico candidato vagamente anticapitalista, e l’unico che si definisce socialista. Ma il suo programma non è unico come fu nel 2016. Per quanto indubbiamente “radical” secondo gli standard americani, le proposte economiche di Sanders possono essere considerate di centro-sinistra nel resto del mondo, al punto da non rilevare grosse differenze tra le sue proposte e quelle della senatrice Elizabeth Warren che insiste nel definirsi “capitalista fino all’osso”.
Esiste una certa nostalgia per la socialdemocrazia della metà del secolo scorso tra i vertici della sinistra, che rimpiangono i giorni in cui le tasse erano elevate, i sindacati forti e le politiche riformiste erano state in grado di trovare un accordo tra socialismo e capitalismo. Comunemente considerata l’epoca d’oro del capitalismo, gli anni del dopoguerra videro una riduzione delle diseguaglianze, una crescita dei salari e negli standard di vita, ed un aumento della mobilità sociale. Tutto questo fu possibile -in parte- grazie alle politiche del New Deal negli USA e a quelle dei socialdemocratici in Europa occidentale.
C’è un problema serio nel cercare di emulare oggi le politiche socialdemocratiche del ventesimo secolo, dato che non è per nulla chiaro se quel metodo di mediazione possa essere usato nel nuovo millennio. Viviamo in un mondo molto più globalizzato rispetto a 75 anni fa. Il capitale è molto più flessibile e mobile che mai ed una rapida crescita economica come quella del dopoguerra è oggi molto improbabile, cosa che rende il welfare difficile da sostenere. Nel suo libro Piketty offre prove molto convincenti che quanto successo nel dopoguerra è un’anomalia storica. L’estrema disuguaglianza odierna è il ritorno alla normalità.
“Una concentrazione di circostanze (distruzione bellica, politiche di tassazioni progressive rese possibili dallo shock del 1914-1945, unite ad una crescita eccezionale per tre decenni dopo la fine della SGM)” si legge nel libro “hanno creato una situazione senza precedenti che è durata per quasi un secolo. Tutti gli indicatori mostrano che stia per finire”, aggiungendo che “per grandi linee sono state le guerre del ventesimo secolo a fare piazza pulita del passato, creando così l’illusione che il capitalismo fosse cambiato strutturalmente.”
Le politiche socialdemocratiche furono originariamente concepite per “salvare il capitalismo da se stesso”. Come Marx, John Maynard Keynes riconosceva l’inerente instabilità del capitalismo ma, diversamente dai rivoluzionari tedeschi, credeva che le contraddizioni del sistema potessero essere limitate e le tensioni controllate da interventi statali – in altre parole credeva che il sistema fosse riformabile. Mentre era ancora in vita Keynes, era possibile immaginare la fine del capitalismo (a dire il vero era impossibile non immaginarlo) e l’economista inglese dedicò tutta la sua vita nel preservare il sistema. Oggi, anche se non siete “capitalisti fino all’osso” e siete convinti che il capitalismo sia senza possibilità di cambiamento (come il deputato Alexandria Ocasio-Cortez) è praticamente impossibile immaginare la fine del capitalismo (o almeno trovare una valida soluzione alternativa). E’ altrettanto difficile immaginare un ritorno al capitalismo della metà del ventesimo secolo.
Sanders è anticapitalista nel cuore – altrimenti non si definirebbe socialista – ma continuiamo a vivere in un’era dove è più facile immaginare la fine del mondo piuttosto che la fine del capitalismo (e con i cambiamenti climatici e altri disastri ecologici che minacciano l’umanità non ci vuole H.G. Wells per immaginare la fine del mondo). La problematica legata alla sinistra odierna sembra essere decidere se lo scopo è riformare oppure rimpiazzare il capitalismo. E se quest’ultimo è davvero il fine, a cosa assomiglierebbe un mondo post-capitalista? Se Sanders vuole davvero essere distinguibile da candidati come Warren, dovrebbe cominciare a pensare seriamente a queste questioni e lasciare stare le critiche a ciò che chiama “capitalismo sfrenato”.
Conor Lynch è una giornalista a New York City. Il suo lavoro è apparso in Salon, The Huffington Post e Alternet.
Fonte: https://newrepublic.com/
12, 06, 2019
Scelto e tradotto per www.comedonchisciotte.org da TONGUESSY