LA SCIENZA NELL'ERA DEL NEOLIBERISMO

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DI DANIEL AMIT
Il Manifesto

«La difesa autoritaria di un concetto ideale di scienza, escludendo altri modi di conoscere, serve come copertura perfetta per un sistema sempre più in crisi, sempre più violento»

Gli argomenti popolari più usati per difendere la scienza e il suo ruolo sono:

a. Che l’attività umana chiamata «Scienza» abbia un significato chiaro, univoco e immutabile, e che quando ci si riferisce alla scienza, oggi ci si riferisca a una tradizione gloriosa, permanente e ben definita;
b. Che il motore principale della tecnologia sia la scienza, ovvero che senza la «Scienza» non sia tecnologia;
c. Che l’accento posto sullo sviluppo tecnologico non possa che far progredire il livello intellettuale della «Scienza»;
d. Che lo sviluppo della tecnologia abbia in fin dei conti (con alcuni sconti) un effetto sociale positivo, ovvero che uno stretto rapporto scienza-tecnologia non può che fornire un buon argomento in favore del ruolo sociale della scienza.CONTRODEDUZIONI

Esaminiamo una per una queste tesi:

a. Il senso dell’attività scientifica: una volta, alla domanda «cosa è la fisica?» si rispondeva: «quello che fanno i fisici». Carino, ma o la domanda non ha senso, o non siamo arrivati a una risposta sensata. Sembra un tentativo di nascondersi dietro nomi celebri: Newton, Maxwell, Einstein… Ma è proprio questo che facciamo noi fisici oggi? Siamo almeno consapevoli delle motivazioni che animavano quegli scienziati, i loro metodi? Lo stesso può essere detto per la biologia: Darwin, Crick, Watson, Huxley. O la medicina: Pasteur, Sabin (polio).
Siamo stati educati all’idea che la scienza moderna sia stata spontaneamente generata, ex novo, a partire dal Rinascimento, da Copernico, Galileo, Newton… Ma l’eccezionale libro di Lucio Russo (La rivoluzione dimenticata, Feltrinelli 1996) presenta ampia e convincente testimonianza dell’esistenza di una scienza, giustamente chiamata moderna, nel mondo ellenistico. Inoltre, raramente a scuola ci raccontano che i pionieri della scienza moderna, (Leonardo, Galileo, Newton, Darwin) conoscevano, e apprezzavano questa scienza ellenistica, e si consideravano i suoi eredi, impegnati nell’estenderla.

Cosa significa? Che c’è stato uno iato di più di 1500 anni in cui si esercitava talmente poco questo tipo di attività da consentire la nascita del mito che la scienza non fosse mai esistita. Un’altra indicazione che qualcosa di fondamentale sia mutato, viene da un’autorità, da Sir Michael Atiyah, ex presidente della Royal Society: «Rischiamo di perdere la nostra strada e la nostra identità. L’ethos scientifico sta diventando sempre più difficile da discernere.» La mia preoccupazione è che la perdita odierna dell’identità sia una versione moderna di quello che è accaduto alla scienza ellenistica: come essa scomparve e fu a poco a poco dimenticata sotto l’impatto della Roma tecnologica, così oggi la scienza sta perdendo la sua identità sotto la spinta di un’America ossessionata da tecnologia e da guerra, in risposta alla paura.

b. Scienza come motore della tecnologia: anche a questo proposito la storia è molto meno chiara, e non sempre conforme alle verità che ci sono propinate. Edison non si è basato sulla scienza per fare una delle scoperte tecnologiche più fondamentali della storia moderna. Né lo è stato il motore a vapore (o a calore) inventato prima che fosse formulata la termodinamica. Anzi, la fisica dell’epoca si era fortemente opposta all’idea. E nemmeno la tecnologia principale dell’agricoltura (la selezione delle specie) aveva dovuto aspettare Darwin. Quindi non si può sostenere, senza altri ragionamenti e ulteriori dati, che la «Scienza» sia la condizione sine-qua-non dello sviluppo tecnologico.

c. Il feedback della tecnologia sulla scienza: uno degli effetti problematici dell’attività politica radicale degli anni ’60-70 è stata di porre l’accento sulla «rilevanza sociale» della scienza contro le «torri d’avorio». Come tante altre idee buone, anche questa è stata cooptata dalle forze egemoni, per fare della scienza un elemento accessorio del sistema prevalente di sviluppo economico. In questa direzione spingono le autorità americane, e in Europa stiamo copiando questo approccio in un modo acritico.
Basterebbe guardare quale tipo di progetti viene promosso dalle agenzie nazionali e internazionali, per rendersi conto che la maggior parte dei finanziamenti vengono assegnati a progetti che giovano a un’idea sbagliata o discutibile di sviluppo economico, che promuove il virtuale, il superfluo, il militare, a spese del sociale e della conservazione ecologica. Basterebbe menzionare che nella Unione europea 4,3 miliardi di Euro vengono stanziati alla ricerca in nanotecnologia. La biotecnologia gode di più di 8 miliardi di $ (pubblico e privato) nei soli Usa, e la distinzione tra le due tecnologie è assai ambigua. Spinto dalla facilità di ottenere finanziamenti e dall’esposizione mediatica, il mondo della ricerca collabora al odierno processo di produzione-commercializzazione.

Negli ultimi decenni, l’amalgama scienza-tecnologia significa sempre meno scienza, sempre più tecnologia. Basterebbe riflettere sul fatto che non esiste quasi facoltà di scienza di livello dignitoso che non conti tra i suoi dipartimenti (centri, istituti) uno di biotecnologia. Lo stesso si potrebbe dire dell’attività universitaria nelle nanotecnologie. In questi due casi (e non sono gli unici) non ci si propone nemmeno l’eufemismo di dare una facciata scientifica all’attività tecnologica. L’infante si chiama per proprio nome e cognome.

Quello che si fa in molte attività, classificate scientifiche, è lavoro di sviluppo tecnologico a basso costo per l’industria (e a costo quasi interamente sociale). Non è lavoro scientifico, certamente non nel senso che i migliori «platonici» tra noi (Bricmont, Chomsky) difenderebbero. Che questa situazione non sia messa in discussione, è in gran parte dovuto a una stretta cooperazione tra mondo economico, sistema politico e mediatico da un lato, con il mondo della ricerca dall’altro. Questa collaborazione non può essere ingenua. Fa parte di una mentalità superficiale che ritiene qualsiasi mezzo legittimo purché prometta una «crescita» economica. A qualcuno ciò potrebbe sembrare l’apice dell’evoluzione umana. Al contrario, rientra in quel tipo di rischio provocato da un’evoluzione genetica che riducesse la varietà a una singola specie (come l’agricoltura imposta ai paesi africani dall’Fmi), contrapposta a un’evoluzione che invece producesse la diversità.

d. Lo sviluppo tecnologico sempre positivo per la società: anche qui, dipende molto dal periodo storico. Servirebbero studi dettagliati e quantitativi della questione; e in parte esistono già. Almeno dall’inizio degli anni ’90, gran parte dello sviluppo tecnologico ha davvero poco a che fare con il bene sociale. La tecnologia è indirizzata in primo luogo a trovare sbocchi alla sovrapproduzione di un sistema industriale in crisi e di un sistema finanziario stagnante. Mi sembra che questo sia vero per tutte le aree della tecnologia, da quella dell’astrofisica (satelliti, spazio, analisi delle immagini); della comunicazione (cellulari, internet, etc); dell’informatica (computer, software sterminato, virus anti-virus…); della biologia (manipolazione genetica, clonazioni…) e della sanità (farmaci cronici, farmaci fittizi, brevetti segreti, macchinari costosissimi che servono poca gente…); dell’alimentazione (Ogm con semenze controllate, brevetti su specie, distribuzione dell’acqua). Tutti questi sviluppi vengono poi difesi in nome della prosperità virtuale che ci circonda, pubblicizzando i benefici drammatici riservati ai pochi.

Il principale problema odierno non è la collaborazione della scienza con i militari, da sempre attuata, almeno dai tempi della gloriosa scienza ellenistica (i celebri specchi ustori di Archimede). Le guerre e la centralità dell’apparato militare (anche in tempi di pace) derivano da un sistema economico-sociale che difende globalmente i suoi privilegi accumulati. Il problema è piuttosto l’integrazione della scienza con questo sistema, la sua crescente identificazione con esso, cosi come la sua acquiescenza nell’essere usata come foglia di fico. Nelle parole di Sir Michael Atiyah: «Gli scienziati sono spesso considerati un’élite segreta, una parte minacciosa dell’establishment, una componente di ‘loro’ non di ‘noi’».

L’ALLARME DI EINSTEIN

A essere identificata con la «Scienza», e a essere difesa dalle sue riviste più gloriose è solo una sovrapproduzione in campi come comunicazione, informatica, macchinari di ricerca biologica, medicinali cronici, Ogm per controllo della nutrizione, cloni fortuiti. Accettare priorità di ricerca dettate dai produttori, attraverso le istituzioni politiche, mette a repentaglio la posizione sociale e intellettuale della scienza. A questo contribuisce anche un rapporto perverso con i media che stanno vendendo la scienza come un elemento di copertura del progetto economico-sociale prevalente, offrendo agli scienziati le lusinghe dell’esposizione pubblica come a ragazze di show televisivi. Sono scomparse quasi tutte le barriere fra riviste di alto prestigio, da un lato, e media ad alto turnover, dall’altro. Pubbliche relazioni e gestione dei media sono diventate componenti essenziali delle istituzioni a elevato prestigio accademico. La confusione tra tecnologia e scienza, e la difesa autoritaria di un concetto ideale di scienza, escludendo altri modi di conoscere, serve come copertura perfetta per un sistema sempre più in crisi, sempre più violento.

Dovrebbe allarmarci l’avvertimento lanciato già nel 1917 da Albert Einstein: «L’intero venerato progresso tecnologico – l’intera nostra civilizzazione – è come un’ascia nelle mani di un criminale patologico».

Questo articolo è un ampio stralcio di un testo apparso sul n. 9 della rivista Prometeo nel 2005.

Daniel Amit era nato in Polonia nel 1938, immigrato in Palestina nel 1940, professore di Fisica prima a Gerusalemme e poi a Roma dal 1991. Dal 1999 era cittadino italiano. Scienziato di grandissimo valore, Daniel Amit è stato uno dei fondatori della moderna teoria delle reti neurali e uno dei leader indiscussi di questo campo. A noi lo legavano il suo fortissimo senso della giustizia, la sua capacità di indignarsi, di non rassegnarsi, di lottare per una giusta causa, di esporsi e di rischiare in prima persona e anche di mettersi in discussione, con un velo di autoironia. Era un instancabile promotore di iniziative di pace, solidarietà e rispetto dei diritti umani, tra le quali il sostegno ai soldati israeliani che si rifiutano di combattere nell’ esercito. (Il Manifesto)

Fonte: http://www.ilmanifesto.it
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10.06.2008

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