LA SCACCHIERA TRIPOLARE: L’IRAN INSERITO IN UN GRANDE CONTESTO DI POTERE

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blankDI MICHAEL T. KLARE

Per mesi la stampa e l’élite politica Americane hanno rappresentato la crisi con l’Iran come una lotta con due contendenti, Washington e Teheran, con l’Europa, così come Russia e Cina, a sostenere ruoli di comparse. Sicuramente George Bush e il Presidente Iraniano Mahmoud Ahmadinejad sono i protagonisti principali di questa storia, ognuno facendo dichiarazioni infiammate sull’altro allo scopo di aumentare il sostegno pubblico in patria. Ma una lettura attenta della recente diplomazia internazionale che interessa la crisi Iraniana suggerisce che un altro confronto ugualmente aspro (e senza alcun dubbio più importante) sta prendendo piede in questo momento: un confronto tripolare tra Stati Uniti, Russia e Cina per il dominio della più ampia regione del Golfo Persico/Mar Caspio e delle sue enormi riserve energetiche.
Dando uno sguardo ad una più ampia strategia, gli alti funzionari dell’amministrazione Bush hanno a lungo cercato di mantenere il dominio americano sulla “scacchiera globale” (così come essi la vedono) riducendo l’influenza degli unici altri giocatori significativi, Russia e Cina. Questo confronto politico classico incominciò ad evolvere all’inizio del 2001, quando la Casa Bianca evidenziò la via provocatoria che intendeva seguire ripudiando unilateralmente il Trattato Anti-Missili Balistici USA-Russia e annunciando nuove vendite di armi ad alta tecnologia a Taiwan, che la Cina tuttora considera una provincia separatista. Dopo l’11 settembre, questi segni iniziali di antagonismo vennero indeboliti per assicurare l’assistenza di Cina e Russia nella lotta al terrore, ma negli ultimi mesi la classica versione a scacchiera della politica delle grandi potenze è di nuovo tornata a dominare il pensiero strategico di Washington.

Avanzare i pedoni strategici

Questo ritorno ha forse avuto un primo segnale il 4 maggio, giorno in cui il Vice Presidente Dick Cheney si è recato in Lituania, la ex Repubblica Socialista Sovietica, per rimproverare aspramente il governo Russo all’interno di una chiacchierata pro-democrazia.
Ha accusato i funzionari del Cremino di comprimere “ingiustamente e in modo scorretto” i diritti dei cittadini russi e di utilizzare le abbondanti riserve di petrolio e gas della nazione come “strumenti di intimidazione e di ricatto” contro i propri vicini. Cheney ha anche condannato Mosca per il tentativo di “monopolizzare il trasporto” delle scorte di petrolio e gas in Eurasia – una sfida diretta contro gli interessi statunitensi nella regione del Caspio.

Il giorno dopo, Cheney è volato nella ex Repubblica Socialista Sovietica del Kazakhstan, stato dell’Asia Centrale ricco di petrolio e gas naturale, dove ha fatto pressioni sui leader del Paese affinché facessero viaggiare il loro abbondante petrolio attraverso un oleodotto sponsorizzato dagli USA fino alla Turchia e al Mediterraneo anziché attraverso un altro sponsorizzato dalla Russia fino in Europa.

Quindi, il 3 giugno, il Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld ha aggiunto tensione ai rapporti con la Cina, spiegando ad un auditorio di funzionari per la sicurezza asiatici che la “mancanza di trasparenza” di Pechino riguardo alla spesa militare “comprensibilmente è causa di preoccupazioni per alcuni dei suoi vicini”. Questi commenti sono stati accompagnati da piani pubblicamente annunciati di aumento della spesa degli Stati Uniti per sofisticati sistemi di armamento, come i caccia F-22 “Air-superiority” e i sottomarini classe Virginia da attacco nucleare che possono essere utili unicamente in una guerra a forte impatto, per la quale esistono solo due candidati, Russia e Cina.



[Il nuovo caccia F 22 “Air Superiority”]

Come la Russia, anche la Cina ha suscitato l’ira di Washington per le sue aggressive politiche energetiche – ma nel caso della Cina per i suoi crescenti tentativi di accaparrarsi rifornimenti di petrolio e gas per la sua nascente economia, povera di energia.
In “Military Power of the People’s Republic of China”, il suo più recente rapporto sul potenziale militare cinese uscito il 23 maggio, il Pentagono ha denunciato l’utilizzo da parte della Cina di trasferimenti di armi e di altri aiuti militari come corteggiamento verso nazioni quali l’Iran e il Sudan per guadagnare l’accesso alle riserve energetiche del Medio Oriente e dell’Africa, e l’acquisizione di navi da guerra “che possano servire come basi per una forza capace di proiettare il proprio potere” nelle regioni produttrici di petrolio del pianeta.

Non c’è niente di nuovo nel bisogno dell’amministrazione Bush di far arretrare la Russia e di “contenere” la Cina. Questo modo di pensare è stato notoriamente articolato nella “Defense Planning Guidance for 1994-99,” [“Guida alla Pianificazione della Difesa 1994-99” n.d.t.], scritta dall’allora Sottosegretario alla Difesa Paul D. Wolfowitz e dato alle stampe nei primi mesi del 1992. “Il nostro obiettivo primario è prevenire il riemergere di un nuovo rivale, sia sul territorio dell’ex Unione Sovietica sia altrove, che possa costituire una minaccia all’ordine simile a quella costituita in precedenza dall’Unione Sovietica”, dichiarava il documento.
Questo rimane il principale scopo della strategia americana oggi, ma ora si è aggiunto un altro fondamentale obiettivo: assicurare agli Stati Uniti – e a nessun altro – il controllo delle riserve di energia del Golfo Persico delle adiacenti regioni asiatiche.

Quando fu esposto nella “Dottrina Carter” del 1980, questo principio era valido esclusivamente per il Golfo; ora, con Bush, è stato esteso al bacino del Mar Caspio – una conseguenza dell’incremento dei prezzi del petrolio, delle paure di una diminuzione delle scorte, e del fatto che si crede che grandi depositi di petrolio e di gas naturale siano presenti in questa regione.
Per stabilire l’influenza USA in questa regione, una volta parte dell’Unione Sovietica, la Casa Bianca ha costruito basi militari, costituito approvvigionamenti di armi, e condotto una guerra segreta di influenza sia contro Mosca sia contro Pechino.

Le mosse dell’Alfiere nel Golfo

E’ in questo contesto che deve essere vista l’attuale lotta contro l’Iran. L’Iran occupa una posizione cruciale sulla scacchiera tripolare. Geograficamente, è l’unica nazione limitrofa sia al Golfo Persico sia al Mar Caspio, il che colloca Teheran in un ruolo significativo nelle due aree di maggior importanza energetica per Stati Uniti, Russia e Cina. L’Iran è inoltre confinante con lo strategico Stretto di Hormuz – la stretta via d’acqua che porta dal Golfo all’Oceano Indiano attraverso il quale si sposta ogni giorno circa un quarto delle riserve di petrolio mondiali. Di conseguenza, se Washington togliesse l’embargo sull’Iran, il suo territorio potrebbe essere usato come la più ovvia strada di transito per la consegna di petrolio e gas naturale dalle regioni caspiche ai mercati globali, specialmente in Europa e in Giappone.

Come nazione più popolosa e industrializzata nel bacino del Golfo Persico, l’Iran ha sempre giocato un ruolo significativo negli affari della regione – una situazione che ha spesso infastidito vicini come l’Iraq di Saddam Hussein (che invase l’Iran nel 1980, iniziando una sanguinosa guerra durata otto anni che si concluse in un’esausta situazione di stallo). Negli ultimi anni, l’Iran ha inoltre guadagnato importanza nella regione come il centro della branca sciita dell’Islam. A lungo disprezzati e insultati dai sunniti, gli sciiti sono adesso in ascesa nel vicino Iraq e stanno acquistando sempre maggiore visibilità in Bahrein, Kuwait, Libano, e nelle aree a maggioranza sciita dell’Arabia Saudita più vicine al Kuwait (dove si trovano importantissimi giacimenti di petrolio sauditi) che si iniziano a considerare come “mezzaluna sciita”.

Attualmente, le capacità militari iraniane non sono impressionanti – risultato, in parte, dell’embargo USA sulla vendita di pezzi di ricambio all’aeronautica iraniana (equipaggiata in gran parte con aerei americani durante il regno dello Scià). Ma l’Iran ha acquisito sottomarini e altre armi moderne dalla Russia, e ha sviluppato un potenziale di missili balistici – probabilmente con l’aiuto di Nord Corea e Cina. Se avesse successo nell’acquisire armi nucleari, potrebbe sicuramente diventare una formidabile potenza regionale, e probabilmente mettere in questione il progettato dominio militare USA del Golfo. E’ per questo motivo più di ogni altro che Washington è così determinato a bloccare l’acquisizione di tale tipo di armamenti.

Mentre Russia e Cina dichiarano di opporsi a un tale sviluppo, certamente non lo vedono con lo stesso grado di terrore e rabbia dell’amministrazione Bush – una considerazione che senza dubbio ha aggiunto motivazione al suo proposito di bloccare gli sforzi nucleari iraniani.

Oltre tutto, comunque, l’Iran possiede la seconda più grande riserva mondiale di petrolio – 132 miliardi di barili (l’11,1% delle riserve mondiali conosciute); e anche la seconda più grande riserva di gas naturale – 971 mila miliardi di metri cubi (il 15,3% delle riserve conosciute). Gli iraniani possono avere meno petrolio dei sauditi e meno gas dei russi, ma nessun’altra nazione controlla una così vasta quantità di entrambe queste risorse vitali. Molti stati compresi India, Cina, Giappone e i membri dell’Unione Europea dipendono dall’Iran per una parte significativa dei propri approvvigionamenti di petrolio; e la Cina e le altre nazioni sono state molto occupate nel negoziare scambi per sviluppare, e quindi attingere alle sue enormi riserve di gas naturale. L’Iran non resterà solamente il principale fornitore di energia, ma anche uno dei pochi con la capacità – con il giusto tipo di investimenti – per incrementare in modo sostanziale il proprio prodotto negli anni mentre molte altre fonti di petrolio e gas inesorabilmente avranno un declino.

Nel 1953, dopo che la CIA aiutò a spodestare il Primo Ministro Mohammed Mossadeq, che aveva nazionalizzato l’industria petrolifera iraniana, le aziende dell’energia americane arrivarono a giocare un ruolo di comando nell’industria petrolifera dell’Iran con la benedizione dello Scià. Questo stato di cose rimase tale fino alla sua caduta nella rivoluzione khomeinista del 1979. Le compagnie avrebbero sicuramente voluto ritornare in Iran, se gliene fosse stata data l’opportunità; ma l’ostilità di Washington verso il regime islamico di Teheran ora preclude il loro rientro. Con L’Ordine Esecutivo 129549, firmato dal Presidente Clinton nel 1995 e rinnovato dal Presidente Bush, a tutte le aziende americane è proibito operare in Iran. Ma se ci fosse un “cambio di regime” – l’obiettivo implicito della politica USA – questo Ordine Esecutivo verrebbe eliminato e le compagnie americane sarebbero in grado di fare ciò che fanno quelle cinesi, giapponesi, indiane, e di altri paesi, cioè sfruttare le riserve energetiche iraniane. E proprio quanto l’energia sia presente nel desiderio dell’amministrazione di un cambiamento politico in Iran non può essere pienamente giudicato dall’esterno, ma dati gli stretti legami di Bush, Cheney, e altri funzionari chiave dell’amministrazione con l’industria dell’energia USA, è difficile credere che non giochi un ruolo molto significativo.

Per i piani energetici cinesi, lo status di “paria” dell’Iran è stato sicuramente un vantaggio. Poiché alle compagnie americane è proibito investire e quelle europee dovrebbero affrontare le ritorsioni economiche americane se lo facessero (secondo l’ Iran-Libia Sanctions Act del 1996 approvato dal Congresso), le aziende cinesi hanno avuto campo relativamente libero dal momento che contrattano per transazioni energetiche previste come quella da 50 miliardi di dollari firmata nel 2004 per sviluppare il massiccio giacimento di gas dello Yadavaran e per acquistare dall’Iran 10 milioni di tonnellate di gas naturale liquido (LNG) all’anno per 25 anni.

La Russia, al contrario della Cina, affamata di energia, sta praticamente affogando nel petrolio e nel gas naturale, ma ha un costante interesse nel non lasciare che il vicino Iran, ricco di riserve energetiche, cada sotto il controllo statunitense e, come maggior fornitore di equipaggiamenti e tecnologie nucleari, ha anche un interesse particolare a tendere un’opportunista mano all’industria energetica iraniana. I russi stanno completando la costruzione di un reattore nucleare civile a Bushehr nell’Iran sud-occidentale, un progetto da un miliardo di dollari, e sono desiderosi di vendere più reattori e altri sistemi per l’ energia nucleare agli iraniani. Tutto ciò è ovviamente fonte di notevole frustrazione per Washington, che cerca di isolare Teheran e di non fargli arrivare alcuna tecnologia nucleare. (Anche se si tratta di un progetto interamente civile, Bushehr sarebbe senza dubbio nella lista di ogni attacco aereo americano con lo scopo di ridurre la capacità nucleare iraniana).

Ciononostante, il capo dell’agenzia russa per l’energia nucleare, Sergei Kiriyenko, ha annunciato a febbraio “Non vediamo alcun ostacolo politico al completamento di Bushehr” e al portarlo a compimento “nel più breve periodo”.

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[La centrale nucleare di Bushehr]

Dato quello che c’è in gioco, è facile capire perché USA, Russia e Cina hanno tutte un interesse stabile nell’esito della crisi iraniana. Per Washington, la sostituzione del governo teocratico di Teheran con un regime filo-americano rappresenterebbe un enorme, triplice successo: eliminerebbe la massima minaccia al dominio continuativo americano del Golfo Persico, aprirebbe il fornitore numero due al mondo di petrolio e gas alle compagnie americane, e diminuirebbe enormemente l’influenza Cinese e Russa nella più ampia regione del Golfo.

Da una prospettiva geopolitica, non potrebbe esserci una vittoria maggiore sulla scacchiera globale oggi. Persino se Washington fallisse nell’ottenere un cambio di regime ma, utilizzando i suoi mezzi militari, riuscisse a paralizzare l’industria nucleare iraniana senza averne un danno maggiore in Iraq o altrove, questa sarebbe un’importante vittoria geopolitica, perché metterebbe a nudo l’incapacità di Russia e Cina di contrastare mosse americane di questo genere. (Questo potrebbe funzionare solo, ovviamente, se l’amministrazione Bush fosse in grado di contenere l’inevitabile ricaduta di una tale azione, sia essa l’acuirsi del conflitto etnico in Iraq o un’impennata dei prezzi del petrolio).

Senza troppe sorprese, Mosca e Pechino stanno facendo tutto quanto è in loro potere per evitare ogni trionfo geopolitico americano in Iran o in Asia Centrale, senza tuttavia provocare una rottura nelle relazioni con Washington – e senza quindi mettere in pericolo i complessi legami economici con gli Stati Uniti.

Con il dispiegarsi di questo “Grande Gioco” geopolitico, con il potenziale benessere economico del pianeta in ballo, tutte le parti in gioco stanno cercando di trovare alleati dovunque sia possibile, utilizzando ogni leva diplomatica disponibile. Dall’invasione dell’Iraq nel 2003, la posizione USA sia nel Golfo Persico che in Asia Centrale si è notevolmente deteriorata. Ad oggi, la più grande debolezza dell’amministrazione Bush rimane lo scisma nelle relazioni USA-UE generato dalla stessa invasione unilaterale da parte degli USA. Poiché gli Europei si sono sentiti traditi da questa azione, si sono ampiamente astenuti dall’aiutare gli USA sia nello sforzo di contenere la ribellione in Iraq, sia nel finanziamento della ricostruzione del Paese. Tutto ciò ha imposto uno spaventoso e crescente costo per gli Stati Uniti. Temendo il ripetersi di questo insuccesso in Iran, la Casa Bianca ha chiaramente deciso di lasciare che il processo diplomatico si sviluppi nella crisi iraniana in un modo che avevano rifiutato si sviluppasse nel caso dell’Iraq di Saddam. Quindi, entro certi limiti, stanno lasciando agli europei la conduzione del gioco diplomatico per “risolvere” la disputa nucleare.

Tutto ciò, a sua volta, ha offerto a Mosca e Pechino la loro unica occasione di evitare quello che potrebbe essere per loro un disastro geopolitico in Iran: il possibile uso del veto al Consiglio di Sicurezza per bloccare l’imposizione delle sanzioni minacciate dagli USA secondo il Capitolo 7 della Carta ONU, che potrebbe legittimare non solo tali sanzioni ma anche l’uso della forza contro ogni stato che si ritenga possa costituire una minaccia alla pace mondiale. Gli europei vogliono evitare che un simile voto si verifichi – sapendo che ogni “sconfitta” alle Nazioni Unite può solamente rafforzare le argomentazioni dei falchi di Washington che intendono muoversi unilateralmente e con la forza contro l’Iran. Perciò, sono allineati con i russi e i cinesi che insistono nell’affidarsi alla diplomazia – e a null’altro – per risolvere la crisi, non importa quanto tempo possa servire.

“La Russia crede che l’unica soluzione a questo problema sarà fondata sul lavoro dell’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica), “ ha detto il ministro degli esteri russo, Sergey V. Lavrov, a marzo. Dichiarazioni molto simili sono state adottate dai funzionari cinesi, che hanno espressamente escluso la forza come una soluzione accettabile della crisi. A febbraio, per esempio, l’ambasciatore cinese presso la AIEA, Wu Hailongon, ha richiamato “ogni parte interessata a fare esercizio di fermezza e pazienza” e “ad astenersi da ogni azione che possa ulteriormente complicare o deteriorare la situazione”.

Scaccomatto per chi?

E’ fuori di dubbio che tutte le parti con un ruolo chiave vedono la crisi che si sta sviluppando come parte di un più ampio confronto geopolitico. Per esempio, russi e cinesi hanno iniziato a costruire qualcosa di simile a un controblocco agli Stati Uniti in Asia Centrale, utilizzando l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO) come veicolo. Originariamente instaurata da Mosca e Pechino per combattere il separatismo etnico in Asia Centrale, la SCO – che oggi include Kazakhistan, Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan – è diventata più simile a un’organizzazione di sicurezza regionale, una specie di mini-NATO (ma anche un anti-NATO). Chiaramente, i russi e i cinesi sperano che possa aiutarli a respingere l’influenza USA nei territori islamici ricchi di energia precedentemente della vecchia Unione Sovietica, e in questo ha dimostrato – in Uzbekistan, almeno – alcuni segni di successo. In un recente meeting dell’organizzazione, gli attuali membri sono andati così oltre da invitare l’Iran a unirsi a loro come osservatore – con l’ovvio dispiacere di Washington. “Mi stupisce enormemente,” ha detto recentemente il Segretario Rumsfeld a Singapore, “che si voglia portare all’interno di un’organizzazione che si dice contro il terrorismo… la maggiore nazione terrorista del mondo: l’Iran.”

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[Ahmadinejad con Putin e con il Presidente Cinese Hu Jintao]

Allo stesso tempo, gli Stati Uniti hanno cercato di serrare i ranghi dei propri alleati – incluso il jolly del Sud Asia, l’India – per un possibile scontro militare con l’Iran. Anche se Bush insiste nel dichiarare di essere pronto ad affidarsi alla diplomazia per la soluzione della crisi, i funzionari del Pentagono hanno cercato l’assistenza della NATO nel pianificare attacchi aerei contro le installazioni nucleari iraniane. A marzo, per esempio, il capo dell’ “Airborne Early Warning and Control Force” [Forza Aerea di Controllo e Avvertimento Rapido n.d.t.] della NATO, il Generale Axel Tuttelmann, dichiarava che la sua forza era pronta per dare assistenza alle forze americane nella veridica possibilità di un attacco USA all’Iran. La stampa tedesca ha anche riportato la notizia che il precedente direttore della CIA Peter Goss avrebbe visitato la Turchia alla fine dell’anno passato per richiedere l’aiuto del Paese nel condurre attacchi aerei contro l’Iran.

Nonostante i continui appelli per il prevalere della diplomazia, tutte le parti in gioco in questo più ampio confronto riconoscono che l’attuale situazione non può durare per sempre. Come prima cosa, la posizione traballante dell’amministrazione Bush – politicamente all’interno, nelle sue guerre in Iraq e Afghanistan, nei suoi tentativi di assicurarsi un vantaggio geopolitico in Asia Centrale, ed economicamente a livello globale – continua a generare rotture e a incoraggiare quelle nazioni, Iran compreso, che potrebbero frustrare i suoi desideri. Per i maggiori collaboratori di Bush, che ancora sognano l’egemonia globale sull’energia, la situazione può sembrare sempre più pericolosa, ma gli spazi per agire appaiono essi stessi in pericolo di chiudersi. Il loro gradimento per le tattiche di stallo europee, cinesi o russe, non meno dell’intransigenza iraniana, non è senz’altro alto; e, anche se Mosca e Pechino tentano di convincere gli iraniani a tornare indietro sulla strada degli armamenti nucleari, in modo da evitare un’azione militare americana, la loro influenza su Teheran può non risultare abbastanza forte.

Se, nei prossimi mesi, l’Iran respingerà le richieste USA per un arresto completo e permanente delle sue attività di arricchimento nucleare, gli Stati Uniti insisteranno sicuramente sull’imposizione di sanzioni presso le Nazioni Unite. Se invece il consiglio di Sicurezza (con il tacito accordo di Russia e Cina) adotterà misure puramente simboliche senza effetto evidente, Washington allora richiederà sanzioni più significative ai sensi del Capitolo 7; e se Russia o Cina porranno il veto su queste misure, l’amministrazione Bush sceglierà quasi sicuramente di utilizzare mezzi militari contro l’Iran, concretizzando le peggiori paure di Mosca e Pechino.

Ci si può quindi aspettare che la Russia e la Cina porteranno avanti il processo diplomatico più a lungo possibile, sperando di fare in modo che un’azione militare da parte degli USA sembri illegittima agli europei e agli altri membri. Rispondendo con la stessa moneta, i falchi di Washington diventeranno senz’altro sempre più impazienti a seguito dei ritardi – vedendoli come mosse di retroguardia strategiche di Russia e Cina – e quindi premeranno per un’azione militare per la fine dell’anno se nulla sarà stato ottenuto sul fronte diplomatico.

Man mano che la crisi iraniana si sviluppa, la maggior parte dei commentatori continua a focalizzarsi sulla guerra parlata tra Washington e Teheran. Gli insider politici sanno, tuttavia, che il confronto più significativo è proprio quello che resta fuori dalla vista, portando Washington contro Mosca e Pechino nella battaglia per l’influenza globale e il dominio dell’energia. Da questo punto di vista, l’Iran è solo un campo di battaglia – per quanto significativo – in una lotta molto più grande, di maggiore importanza e più a lungo termine.

Michael T. Klare è Professore di Studi sulla Pace e la Sicurezza nel Mondo all’Hampshire College e l’autore, più recentemente, di “Blood and Oil: the Dangers and Consequences of America’s Growing Dependance on Imported Petroleum” (Owl BookS) e di“Resource Wars, The New Landscape of Global Conflict”.

Fonte: http://www.commondreams.org/
Link: http://www.commondreams.org/views06/0616-24.htm
16.06.2006

Traduzione per www.comedonchisciotte.org di CAMPALLA

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