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La Redazione

 

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“La ragazza di Trieste”: storie d’incontri tra normalità e follia

Un film dei primi anni Ottanta dove dramma romantico e disagio psichico si fondono inaspettatamente; una terra di confine a pochi passi dalla cortina di ferro dove si cercò radicalmente di restituire ai "matti" la loro dignità di persone, rimettendo in discussione le barriere stesse che li relegavano ai margini del mondo. Un approfondimento cinematografico, una riflessione sugli spunti sopra citati e un omaggio alla rivoluzionaria e attuale figura di Franco Basaglia, di cui in questi mesi si celebra il centenario dalla nascita.
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A cura di Federico Degg
Il 22 Luglio 2024
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Di Federico Degg per comedonchischiotte.org

 

Fra i numerosi titoli del panorama cinematografico italiano di fine anni Settanta/inizio anni Ottanta, disperso nei meandri di un genere apparentemente poco attrattivo per l’occhio analitico, spunta un curioso film del 1982 che, sebbene all’epoca raggiunse un buon incasso al botteghino, con il passare del tempo è rimasto limitrofo come le zone in cui è girato e ambientato.

Stiamo parlando de “La ragazza di Trieste”, di Pasquale Festa Campanile, regista di numerose commedie all’italiana del secolo scorso. Adattata da un suo stesso romanzo, la pellicola si presenta dalle prime scene come una semplice storia romantica fra Dino, ispirato e bonario fumettista di mezza età impersonato da Ben Gazzara, e Nicole, ragazza nel fiore della giovinezza,  che egli incontra per puro caso mentre sta disegnando ai bordi di una spiaggia dove lei è appena stata soccorsa da un bagnino. Un’attrazione irrefrenabile e improvvisa li spinge subito l’una verso l’altro nonostante le evidenti differenze di carattere e di età, con Dino che immediatamente fa di Nicole – interpretata da un’ispirata e sensuale Ornella Muti – la modella per le sue tavole e si offre di ospitarla a casa sua.

Ma non passano molti minuti che il nucleo centrale del film comincia a palesarsi: Nicole tende a “sparire” misteriosamente e a ricomparire presso Dino solo quando le fa comodo, fa affermazioni alquanto strane sul suo carattere, rivelando per esempio che l’iniziale annegamento in mare era solo una messinscena per farsi soccorrere, sentirsi amata e ritrovare la propria identità, “la prova che il mondo sa che esisto”, e comincia a inondare l’innamorato e condiscendente fumettista con storie su sé stessa assai poco plausibili che egli scoprirà essere completamente inventate o “prese a prestito” dalle vite di altre persone.

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Tradizionalmente, nella grammatica cinematografica, la rappresentazione allo specchio simboleggia identità doppie, ambigue e sfuggenti

Una scena girata presso la collina di San Giovanni, sede del più noto ex-ospedale psichiatrico della città di Trieste, rivela ciò che ormai appare la spiegazione più plausibile: Nicole soffre di un disturbo psichico. Allo spettatore non sarà dato sapere quale – poiché, a detta del dottore che la segue all’ospedale psichiatrico, categorizzarlo non farebbe alcuna differenza -, ma nel corso dell’intreccio ne diventeranno sempre più evidenti le manifestazioni. Addirittura, ad un certo punto, la ragazza verrà sottoposta ad un esecrabile trattamento shock mediante somministrazioni di insulina, momento in cui la sua condizione non potrà essere più nascosta a Dino.

La scoperta mette il fumettista – il quale si trova ancora alle prese con gli strascichi di una relazione del suo recente passato – di fronte a una scelta non di poco conto, che egli si mostra pronto ad accogliere in nome dei sentimenti che prova per Nicole: accettare il suo stato mentale ed entrarvi in relazione, convivere con il suo peculiare modo di sentire la realtà e impegnarsi ad amarla e, se necessario, assecondarla, nonostante le difficoltà che ciò potrà comportare.

“Ci sono persone che sono incapaci di affrontare la realtà. Tutto le ferisce. Nicole è fatta così, ha un equilibrio delicato.”

“Ma che cos’ha?”

“Farebbe una qualche differenza se le dicessi che è una maniaco-depressa, una schizofrenica o una semplice nevrotica? Non è questo il punto.”

– Dialogo fra lo psichiatra e Dino

Ecco, in sintesi, buona parte del contenuto del lungometraggio. Una storia dove il classico sviluppo di una storia d’amore e il più delicato tema del disturbo psichico, che all’epoca era fresco di prospettive che ne avevano rivoluzionato le chiavi interpretative, si incrociano in modi ora drammatici ora leggeri, alternando piacevoli tocchi d’umorismo ed erotismo a momenti più cupi in cui la tragicità e l’incommensurabilità dello status di chi soffre di un disagio mentale emergono senza troppi filtri. Caratteristica a tal proposito è una delle sequenze collocate verso la fine: Nicole ha un’orrenda allucinazione che le mette di fronte un’orda di scarafaggi e Dino cerca di calmarla scacciando con forza gli insetti che solo lei può vedere. Di tutte, quest’ultima è per certo la scena più rappresentativa dell’incontro fra le due prospettive, quella “distorta” e quella “normale”, il cui entrare in rapporto ne piega e ne mescola inevitabilmente – qui in maniera quasi commovente – le rispettive barriere.

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Nicole davanti ai cancelli dell’ex-ospedale psichiatrico

Si può affermare, giunti a questo punto, che il contesto geografico della pellicola non sia per nulla scelto a caso, bensì sia un preciso e ulteriore collegamento al fulcro del discorso sulla salute mentale e sull’integrazione in società di chi soffre di disturbi psichici. “La ragazza di Trieste” è girato quasi interamente nelle vie della città-capoluogo del Friuli-Venezia Giulia e nei suoi dintorni: compaiono in più occasioni la località balneare di Duino, il litorale monfalconese con la spiaggia di Marina Julia, situata in provincia di Gorizia (e punto più a nord dell’intero mar Adriatico e Mediterraneo, per i più curiosi); e fu proprio in questi due capoluoghi, prima a Gorizia e poi a Trieste, che, nei due decenni precedenti all’uscita del film, uno psichiatra veneziano di nome Franco Basaglia diede l’impulso a una riforma, o meglio rivoluzione, collettiva e radicale dell’intera prospettiva psichiatrica italiana e non solo.

Conosciuto da tutti per avere ispirato la famosa legge del 1978 che porta il suo nome e che decretò la chiusura dei manicomi rendendo l’Italia il primo paese al mondo a compiere questo passo, Basaglia – nato nel 1924 a Venezia e laureatosi in medicina con specializzazione in malattie nervose e mentali a Padova – , venne nominato nel 1961 direttore dell’ospedale psichiatrico di Gorizia, situato a pochi passi dal confine con la Slovenia. Fu il suo primo importante incarico al di fuori dell’ambiente accademico padovano, dove il suo approccio umanistico e antistituzionale all’argomento della psicanalisi non veniva visto di buon occhio: Basaglia condivideva infatti le idee di critica alla repressione istituzionale di Michel Foucault e di Erving Goffman (sociologo che nell’opera “Asylums” approfondì i gravi effetti di marginalizzazione sociale e spersonalizzazione dei pazienti ricoverati per disturbi mentali), e si mostrava interessato alle prime embrionali esperienze di comunità terapeutiche in Europa.

La sua prima impressione una volta arrivato a Gorizia, come ricorda chi lo conobbe, fu quella di trovarsi dinanzi non a un luogo di cura, bensì ad un agghiacciante carcere [1]: il neodirettore si vide di fronte persone che venivano tenute legate al letto o al termosifone, private di ogni dignità, soffocate da camicie di forza e sottoposte a elettroshock o lobotomie, tutte pratiche che nei primi anni Sessanta erano ancora ritenute del tutto normali come trattamento dei “matti” e degli emarginati. Memore di cosa significasse trovarsi imprigionati, poiché durante il periodo della Repubblica di Salò fu lui stesso, ancora un giovane studente, ad essere incarcerato per aver collaborato con la resistenza antifascista, Basaglia vinse l’iniziale impulso di abbandonare l’incarico e l’abietto ambiente del manicomio e, grazie all’aiuto e al supporto di colleghi, impiegati e altri professionisti che ne condividevano gli ideali, cominciò pian piano a modificare ed eliminare l’approccio disumanizzante allora pienamente in voga.

Come primo provvedimento fece abolire le pratiche di contenzione dei pazienti; in seguito, dotò le camerate dove questi dormivano di specchi e comodini (giudicati “pericolosi” poiché i ricoverati vi si sarebbero potuti ferire) e accolse l’idea di introdurre un “menù” per i pasti con più opzioni di scelta, così da dare una parvenza di vita normale anche dietro le cupe pareti dell’istituzione. Con il passare degli anni e non senza diversi rischi e difficoltà dovuti all’assoluta novità del progetto, le riforme e le novità portate avanti da Basaglia e colleghi si fecero sempre più radicali: vennero abbattute le reti di confine del parco dell’ospedale psichiatrico per abbandonare l’idea del manicomio “chiuso” al “mondo dei normali”, venne istituita una formazione specifica per infermieri e un supporto sociale per i pazienti, nacquero laboratori di espressione artistica e cooperative di lavoro retribuito e fu anche istituita un’assemblea di pazienti chiamata a dare contributi e suggerimenti per il miglioramento dei servizi alle riunioni di reparto con il personale medico.

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Crediti: Gianni Berengo Gardin

Al termine degli anni Sessanta, Basaglia lasciò Gorizia per diventare direttore dell’ospedale psichiatrico di Trieste mostrato nel film. Qui la sua visione, che nel frattempo si arricchì di pubblicazioni sull’esperienza goriziana e fece nascere l’associazione “Psichiatria Democratica”, raggiunse gradualmente il culmine: l’OMS decretò la città come zona pilota di ricerca nel campo della salute mentale, e nel 1978 il suo approccio ormai consolidato fu la principale ispirazione della definitiva legge n° 180 di riforma psichiatrica. Essa decretò la chiusura definitiva dei manicomi e la loro conversione in centri di sola assistenza psichiatrica (cosa che Basaglia prefissò come obiettivo della riforma generale già nel 1964, ma che nel concreto avverrà molto più lentamente, nel giro di vent’anni) e vietò tutte quelle pratiche e approcci barbaramente definiti “terapeutici”, risalenti agli inizi del secolo, contro cui Basaglia agì e si espresse fin dal suo arrivo in Friuli-Venezia Giulia [2].

Ci sarebbe naturalmente molto altro da dire riguardo alla figura e all’operato del rivoluzionario psichiatra di cui quest’anno si celebra il centenario dalla nascita, ma ai fini del presente articolo può essere sufficiente fermarci qui. Trieste e Gorizia, estremi di un’area storicamente di confine – prima fra impero Austroungarico e regno d’Italia, poi fra i blocchi geopolitici est e ovest stabiliti dalla linea della Cortina di ferro – e spesso al centro di importanti cambiamenti storico-politici, si caricarono anche, grazie all’esperienza di Basaglia, della connotazione di luogo d’incontro e scambio fra chi vive in prima persona una condizione di malattia mentale e chi no. A pochi passi dalla frontiera fondamentale della Guerra Fredda, insomma, vennero messe in discussione e fatte crollare le barriere segreganti fra normalità e follia.

Nelle scelte registiche di Pasquale Festa Campanile vi sono precisi riferimenti a tutto ciò [3], ma allo stesso tempo nella storia permangono elementi molto dissonanti. Come accennato alcuni paragrafi indietro, ad un certo punto Nicole, preda di forti crisi, viene immobilizzata su un letto del reparto ospedaliero e sottoposta ad un trattamento di shock insulinico, una pratica rischiosa ed altamente invasiva in voga nel regime psichiatrico del secolo scorso che è stata esplicitamente vietata assieme all’elettroshock proprio dalla legge n°180 [4]! Le istituzioni psichiatriche sono mostrate come ancora arretrate e attaccate a metodi in fase di superamento – ritratto molto più fedele alla realtà dei fatti rispetto a quanto promesso dall’ottimistica riforma nel 1978 [5] -, e forse è proprio per questo motivo che il film si chiude in maniera ben poco ottimista nei confronti di Nicole e della sua condizione, con delle sequenze cupe e perturbanti che stilisticamente si avvicinano al cinema di Dario Argento e Lucio Fulci.

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La figura realmente basagliana ne “La Ragazza di Trieste” non è di certo qualche psichiatra, bensì il personaggio di Dino, disposto per genuino interesse ed affetto verso la giovane Nicole a mettere in discussione i limiti fra la sua prospettiva “normale” e le peculiarità di lei, integrandole nel suo vissuto senza elevare barriere; disposto ad accogliere la difficile ragazza triestina come si deve, cercando di restituirle quell’equilibrio che la sua stessa mente o il mondo dell’umanità circostante hanno pesantemente alterato.

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Di Federico Degg per comedonchischiotte.org

 

NOTE E FONTI

[1] Questa ed altre informazioni presenti nel paragrafo sono tratte dalla prima puntata dell’interessante inchiesta in formato podcast “Tutta colpa di Basaglia” di Ludovica Jona ed Elisa Storace, disponibile per l’ascolto sulla piattaforma Spotify.

[2] Purtroppo, la normazione del TSO e il divieto apposto a pratiche quali la contenzione dei pazienti restano ancora oggi un’auspicabile prospettiva: attualmente sono più i sedicenti centri di assistenza psichiatrica che ricorrono a tali sistemi rispetto a quelli che hanno fatto tesoro dell’esperienza di Basaglia – come testimoniato nelle successive puntate del podcast d’inchiesta citato nella nota precedente.

[3] Addirittura, volendo concedersi l’ipotesi che alcuni elementi narrativi siano scelte volute e non semplici coincidenze, si può notare che due dei pochi altri luoghi in cui il film è esplicitamente ambientato, ossia Venezia e Padova (dove Dino si reca in gita con la sua ex-amante del passato per allontanarsi da Trieste e dalla difficile situazione in cui si è venuto a trovare con Nicole), hanno a loro volta un ruolo di rilievo nel vissuto di Basaglia, che nelle due città rispettivamente vi nacque e vi studiò.

[4] https://www.farodiroma.it/luso-dellelettroshok-e-dellinsulinoterapia-prima-della-legge-180-di-e-ferri/

[5] L’ospedale psichiatrico di Udine, seconda città per dimensioni del Friuli-Venezia Giulia, ad esempio, chiuse definitivamente i battenti e si avviò alla riconversione in centro assistenziale solo nel 1999.

 

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Federico Degg è uno studente e lavoratore di 23 anni. Si occupa di comunicazione, cultura ed arte in tutte le sue forme (musica, immagini, scrittura, teatro). Attivista e membro di associazioni ed iniziative locali. Giovane collaboratore di Come Don Chisciotte
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