LA PSICHIATRIA DI GUERRA E LE ATROCITA’ IN IRAQ

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blankDI PENNY COLEMAN
AlterNet

Come l’omicidio diventa un riflesso condizionato

Nel 1971 il tenente William Calley fu condannato all’ergastolo per il suo ruolo nel massacro di 500 civili nel villaggio vietnamita di My Lai. Come risposta alla condanna di Calley l’associazione Vietnam Veterans Against the War (VVAW) iniziò la “Winter Soldier Investigation.” In un periodo di tre giorni più di cento veterani testimoniarono sulle atrocità commesse contro civili vietnamiti da truppe USA e di cui erano stati testimoni. La loro esplicita intenzione era di dimostrare che il caso di My Lai non era unico ma che era invece il risultato inevitabile della politica USA. Affermarono che era una forma finta di fare giustizia l’incentrare le accuse di colpevolezza sui soldati quando invece erano stati coloro che prendevano le decisioni, McNamara, Bundy, Rostow, Johnson, LeMay, Nixon e altri ad essere i veri responsabili per i crimini di guerra che erano stati commessi.

Nel 2004 la pubblicazione delle fotografie di Abu Grahib ruppe l’imperdonabile silenzio dei media mainstream sulle atrocità commesse dai soldati americani in Iraq. Seguì la vicenda di Haditha, poi Mahmoudiyah, Ishaqi, e al momento in cui scrivo, è stato riportato un numero imprecisato di altri eventi di violenza selvaggia e omicida rivolta contro i civili. Il numero del 30 Luglio di The Nation includeva un articolo, “L’altra guerra”, di Chris Hedges e Laila Al-Arian che utilizzava interviste con 50 veterani di combattimento per dimostrare che i soldati americani stanno usando uno forza indiscriminata e spesso letale nel trattare con i civili iracheni. Questi veterani, riferiscono gli autori, sono “tornati a casa profondamente scossi dalla differenza tra la realtà della guerra e il modo in cui è ritratta dal governo USA e dai media americani”. Scommetterei che essi sono molto più profondamente scossi dalla realtà stessa piuttosto che da come la riportano i media, ma certamente le distorsioni dei media e del governo sono un ulteriore strato di inganno. In una lettera che contestava l’articolo, Paul Rieckhoff, presidente della organizzazione “Iraq and Afghanistan Veterans of America” contraria alla guerra, ha esposto un argomento parallelo a quello della VVAW, cioè che “chiunque voglia scrivere un articolo serio sul declino etico dei soldati americani dovrebbe iniziare e finire l’articolo dando la colpa a coloro a cui appartiene – ai politici che hanno mandato le nostre truppe in guerra impreparate e senza una chiara missione” (The Nation , 13/07/07).

Non sto suggerendo che i soldati americani non abbiano responsabilità per le loro azioni. Come Rieckhoff ipotizzerei che dobbiamo bilanciare l’indignazione verso atti criminali e sadici con l’insistenza al “badare a non dare la colpa a questa nuova generazione di veterani per le circostanze terribili e tragiche” che hanno portato a tali atti. E sono d’accordo che, ancora una volta, gli architetti hanno ricevuto via libera e che i soldati, che stanno facendo esattamente ciò per cui sono stati addestrati, stanno prendendo tutta la colpa. Ma voglio concentrarmi su un aspetto della situazione che non viene mai affrontato nei media mainstream e non abbastanza spesso altrove: in particolare sul fatto che le truppe americane sono addestrate ad agire in modi criminali e sadici.

L’addestramento militare è stato parte dell’esperienza di milioni di giovani americani si dalla Guerra Rivoluzionaria. Prima dell’era del Vietnam, però, l’addestramento consisteva soprattutto nell’allenare le capacità militari e nell’imparare ad utilizzare l’equipaggiamento militare. Solo nell’ultima metà del secolo l’addestramento si è evoluto in un fenomeno interamente nuovo che fa uso dei principi del condizionamento operante del comportamento per superare ciò che gli studi dell’ultimo secolo hanno coerentemente dimostrato, cioè che esseri umani sani hanno una intrinseca avversione verso l’uccidere altri membri della loro specie.

Il fenomeno del condizionamento operante si basa sull’idea che gli organismi, esseri umani inclusi, si muovono nel loro ambiente in modo casuale sino a che non incontrano un stimolo rinforzante. L’esperienza di tale stimolo diventa associata nella memoria al comportamento che immediatamente la precedeva. In altre parole, un comportamento viene seguito da una conseguenza, e la natura della conseguenza, ricompensa o punizione, modifica la tendenza dell’organismo a ripetere il comportamento. Le reclute odierne vengono intenzionalmente e metodicamente sottoposte ad un regime di addestramento che è esplicitamente progettato per trasformarle in killer automatici. Ed è un addestramento molto efficace. Oltre ad essere attentamente nascosto. I militari preferiscono tenere i loro metodi nascosti alla vista a causa delle discussioni etiche e morali, per non parlare dei freni legali, che un esame pubblico e un dibattito costituzionale potrebbe imporre. O almeno così voglio credere.

“War Psychiatry” [“Psichiatria di Guerra” n.d.t.], il libro di testo dell’esercito sui traumi da combattimento, afferma che “la pseudospeciazione, la capacità degli esseri umani e di alcuni altri primati di classificare certi membri della loro stessa specie come ‘altri’, può neutralizzare la soglia di inibizione tanto da permettere loro di uccidere altri membri della loro specie.” L’addestramento militare moderno ha sviluppato accuratamente elementi sequenzializzati e coreografati di ciò che molti chiamerebbero lavaggio del cervello, in modo da disconnettere le reclute dalle loro identità civili. I valori, gli standard e i comportamenti che hanno assorbito in una vita dalle loro famiglie, scuole, religioni e comunità vengono disprezzati e puniti. Tramite l’uso di crudeltà, umiliazione, degradamento e disorientamento cognitivo le reclute vengono riprogrammate con un intero nuovo insieme di risposte acquisite. Ogni aspetto del comportamento in combattimento viene ripetuto sino a che non diventa automatico. Il condizionamento operante ha enormemente migliorato l’efficacia dei soldati americani, almeno dal punto di vista degli standard militari. Si è dimostrato un modo efficace per spegnere l’interruttore che controlla l’avversione innata del soldato verso l’omicidio. I soldati americani uccidono più spesso e più efficacemente. Il tenente colonnello Dave Grossman, autore di “On Killing” [“Dell’uccidere” n.d.t.], chiama questa forma di addestramento “guerra psicologica, [ma] guerra psicologica condotta non sul nemico ma sulle proprie truppe”.

La guerra psicologica che viene condotta contro le attuali reclute è una indicazione davvero preoccupante della visione del mondo dei nostri leader, tanto militari che politici. L’identità di gruppo che stanno instillando in questi ragazzi, l’identità di “appartenenza”, è basata sull’esplicito disprezzo non solo verso il dichiarato nemico della settimana, ma anche verso l’intera popolazione civile, in particolare verso donne e omosessuali. In un esercito che è oggi composto al 15% da donne e che conosce (non chiedetela, non ditela) qual è la percentuale di gay, gli esercitatori si affidano ancora su etichette come “ragazzina” o “fica”, “lady” o “fatina” per umiliare, degradare e infine esigere conformismo. Le reclute vengono addestrate con canti di marcia che privilegiano il loro rapporto con le loro armi rispetto alle loro relazioni con le donne (“you used to be my beauty queen, now I love my M-16” [“un tempo eri la mia bella regina, adesso amo il mio M-16” n.d.t.]) o che apertamente mescolano sesso e violenza (“this is my rifle, this is my gun; this is for fighting, this is for fun.” [questo è il mio fucile e questa è la mia pistola; questo è per combattere e questa per divertirsi n.d.t.]). Oltre che insegnare ai giovani come mettere a tacere i loro sentimenti innati verso l’omicidio in generale, essi vengono programmati con una visione distorta non solo di cosa significhi essere uomini, ma anche di cosa significhi essere cittadini. Per fare strada nella classe guerriera si deve imparare a disprezzare e diffidare di ciò che non è militare. Chaim Shatan, uno psichiatra che ha lavorato con veterani dell’era del Vietnam, ha descritto questo processo di trasformazione come deliberato, più che come sadico o involontario, “il cui scopo è di inculcare obbedienza agli ordini”.



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[40 anni di sadiche violenze USA sui civili: il massacro di My Lai, Vietnam, 1968 e di Haditha, Iraq, 2005. Accanto al titolo un’immagine tratta da “Full Metal Jacket” di Stanley Kubrick.]

Vi sono molti modi con cui i moderni metodi di addestramento appoggiano tanto la violenza, l’aggressione quanto l’obbedienza e aiutano a disconnettere una azione automatica dalle sue implicazioni morali, etiche, spirituali o sociali, ma una delle migliori illustrazioni di questo processo sono i canti eseguiti durante le marce, o “jodies,” come sono noti tra i militari. Il nome “jody” proviene da una canzone afro-americana su un tale Joe de Grinder, un furbo dongiovanni che rimane in patria a intrattenere la ragazza di un soldato impegnato in guerra (“ain’t no use in going home; Jody’s on your telephone” [“non serve tornare a casa, c’è Jody al tuo telefono” n.d.t.]). Secondo i militari i jodies rinforzano il morale e distraggono l’attenzione da esercitazioni monotone e spesso faticosissime. La seguente canzone, un prodotto originale dell’era del Vietnam, è stata risuscitata a scopo di addestramento in ogni guerra da allora ed è un esempio del genere di rinforzo morale che viene ritenuto appropriato per la formazione di un soldato americano:

Shell the town and kill the people. [Bombarda la città e uccidi la gente]
Drop the napalm in the square. [lancia il napalm sulla piazza.]
Do it on a Sunday morning [Fallo la domenica mattina]
While they’re on their way to prayer. [mentre stanno andando a pregare]

Aim your missiles at the schoolhouse. [Mira alla scuola]
See the teacher ring the bell. [guarda l’insegnante che suona la campanella.]
See the children’s smiling faces [Guarda le facce sorridenti dei bambini ]
As their schoolhouse burns to hell[mentre la loro scuola brucia come l’inferno.]

Throw some candy to the children. [Getta qualche caramella ai bambini]
Wait till they all gather round. [aspetta che si riuniscano tutti.]
Then you take your M-16 now [Ora tira fuori il tuo M-16]
And mow the little fuckers down. [e massacra quei piccoli bastardi.]

Per fortuna il lavaggio del cervello non ha ancora raggiunto un livello di sviluppo tale da cancellare l’umanità della maggior parte dei soldati americani. Secondo i soldati intervistati da The Nation solo una minoranza si dedica al genere di brutalità psicotica descritta nella canzoncina precedente. Eppure essi descrivono le atrocità commesse contro i civili come “comuni”—e quasi mai punite. Mentre diventa la norma effettuare molti turni di servizio e sempre più menti malate vengono fatte tornare in combattimento anziché essere curate, è spaventoso pensare che il lavaggio del cervello possa avere la meglio. Visto l’addestramento a cui sono stati sottoposti questi soldati e le caotiche condizioni in cui vengono a trovarsi è inevitabile che sempre più cedano alla paura, alla rabbia e alla frustrazione. Verranno inevitabilmente schiacciati dalle sempre maggiori dosi di orrore che si accumulano e finiranno per perdere il controllo della loro compassione e della loro capacità di giudizio. Trentasei anni fa dei veterani americani cercarono di far emergere dal fumo e dal gioco di specchi della risposta ufficiale alle atrocità contro i civili, la versione che rendeva i soldati capri espiatori e ignorava coloro che davano gli ordini. Come allora disse il tenente John Kerry “Possiamo rimanere in silenzio; possiamo non dire cosa sia successo in Vietnam, ma abbiamo la sensazione che non siano i rossi o le giacche rosse (che minacciano questo paese) ma i crimini che stiamo commettendo.” I soldati che, seguendo degli ordini, hanno investito dei bambini sulle strade anziché rallentare il loro convoglio non saranno mai più gli stessi, che il governo e i media dicano o meno la verità. Né saranno più gli stessi i soldati che in servizio ai checkpoint sparano, come ordinato loro, e uccidono intere famiglie che non si sono fermate, per sapere solo poi che nessuno si era preoccupato di dire loro che il segnale di “stop” americano –una mano tenuta alzata con il palmo rivolto verso il veicolo in arrivo—per un iracheno significa “Salve, venite qui”. Ho sentito un gran numero degli uomini citati nell’articolo di The Nation parlare delle loro esperienze di combattimento, e sono tormentati da ciò che hanno visto e fatto. Loro vogliono raccontare le loro storie, non perché stiano cercando un’assoluzione, ma perché vogliono credere che gli americani desiderino sapere. Ma non sono nemmeno disposti ad assumersi la colpa.

Hanno già portato a casa le ferite psicologiche e i pericolosi comportamenti automatici di violenza che squalificheranno per sempre le loro vite e le loro relazioni. Invece, sperano che questa volta li ascolteremo quando ci chiederanno di guardare un po’ più in là, scavare più a fondo e usare maggiore spirito critico. O siamo già arrivati al punto del nostro sviluppo morale collettivo in cui, come ha predetto Shatan, “Come Eichmann…consideriamo il male qualcosa di banale e comune?”

Penny Coleman è vedova di un veterano del Vietnam che si è tolto la vita dopo essere tornato a casa. Il suo ultimo libro Flashback: Posttraumatic Stress Disorder, Suicide and the Lessons of War è uscito per il Memorial Day 2006. Il suo blog si chiama Flashback.

Titolo originale: “War Psychiatry and Iraq Atrocities.
How Killing Becomes a Reflex”

Fonte: http://www.alternet.org
Link
23.08.2007

Scelto e tradotto per www.comedonchisciotte.org da ALCENERO

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