DI ED CUMMINGS
The Telegraph
Grande come gli Stati Uniti, la “Great Pacific Waste Patch” è la discarica più grande del mondo. Ed Cummings scopre che diventa sempre più grande, e potrebbe avvelenare tutti noi.
La discarica più grande del mondo continua a crescere. The Great Pacific Garbage Patch [la Grande Macchia di Rifiuti del Pacifico – ndt] – o Pacific Trash Vortex [il Vortice di Rifiuti del Pacifico -ndt] – è un monumento galleggiante alla nostra cultura dei rifiuti, l’ultima dimora di ogni sacchetto di plastica dimenticato, ogni bottiglia scartata e ogni pezzo da imballaggio portato via dal vento. Le opinioni circa l’esatta dimensione di questa grande mistura brodosa variano, ma alcuni sostengono che negli ultimi dieci anni sia raddoppiata, il che la rende ora sei volte più grande del Regno Unito.
Il dr. Simon Boxall, un fisico oceanografo del National Oceanography Centre [Centro Nazionale Oceanografico- ndt] presso l’Università di Southampton, va anche oltre: “E’ della dimensione del Nord America. Ma anche se la macchia di per sé è molto vasta, è solo una rappresentazione molto chiara del problema più grande di tutto il mondo”.
Nella foto: D. de Rothschild con gli elementi base della Plastiki, barca composta di plastca riciclata.
Questo problema a livello mondiale è la spiegazione del Plastiki, un catamarano di 60 piedi e 12 ton. costruito da 12.500 bottiglie di plastica riciclate che, questa settimana, intraprende il suo viaggio inaugurale da San Francisco. Grazie a un’idea di David de Rothschild, il brillante erede bancario britannico e ambientalista, il Plastiki navigherà proprio al centro del Garbage Patch come parte di una campagna che aiuterà a rendere più persone delle comunità del Pacifico minacciate, consapevoli del danno che i nostri rifiuti stanno facendo ai nostri oceani.
La plastica è il problema principale. Cinquant’anni fa, la maggior parte dei residui galleggianti erano biodegradabili. Ora sono per il 90 per cento di plastica. Nel 2006, l’ United Nations Environment Programme [Programma Ambientale delle Nazioni Unite – ndt] stimò che vi erano 46.000 pezzi di plastica galleggianti in ogni miglio quadrato di oceano. Con il suo ostinato rifiuto a decomporsi, tutta la plastica non sepolta nelle discariche – circa la metà – sguazza in corsi d’acqua, fogne e poi nei fiumi e, infine, nell’oceano. Una parte di essa – alcuni dicono addirittura il 70 per cento – si deposita sul fondo dell’oceano. Il resto rimane a galla, di solito entro 20 metri dalla superficie, ed è trasportata all’interno di stabili correnti circolari, o spirali, “come tangenziali oceaniche”, afferma il dottor Boxall. Una volta all’interno di queste spirali, la plastica è spinta dal vento e da correnti superficiali verso il centro, dove si accumula costantemente. Tutti i più grandi oceani del mondo hanno queste spirali e tutte raccolgono spazzatura. Anche se il Pacifico settentrionale – che lambisce la California, il Giappone e la Cina – è il più grande, ci sono spirali sempre più rilevanti anche nel Pacifico meridionale, nell’Atlantico settentrionale e meridionale e nell’Oceano Indiano. I nostri problemi con le materie plastiche sono solo all’inizio.
La Pacific Garbage Patch era già stata prevista sul finire degli anni Ottanta, ma fu formalmente scoperta solo nel 1997 da Charles Moore, un capitano di regata americano che navigava verso casa attraverso il Pacifico settentrionale proveniente da un concorso alle Hawaii. Notò una grande quantità di detriti al centro di una spirale e, insieme all’oceanografo Curtis Ebbesmeyer, formulò l’idea della Eastern Garbage Patch [Macchia di Rifiuti Orientale – ndt]. Altre ricerche hanno rivelato una macchia secondaria a occidente e, queste due insieme, costituiscono la Great Pacific Patch che si trova all’incirca tra 135-155° W e 35-45° N. Nel 1999, Moore fece seguire ai suoi primi ritrovamenti un rapporto che dimostrò che nel Pacifico settentrionale vi era otto volte più plastica che plancton. E c’è un sacco di plancton.
L’immagine di un grande cumulo di spazzatura galleggiante, anche se suggestiva, può essere fuorviante. Il dr. Boxall dice: “La gente lo immagina come una sorta di campo di calcio fatto di spazzatura su cui si può andare a camminare – non è così”. Poiché la maggior parte della plastica è stata frammentata in piccole particelle che galleggiano sotto la superficie, è impossibile fotografarla dagli aerei o dai satelliti, o anche vederla, fino a quando non si è proprio nel suo centro. Di conseguenza, è difficile spiegare il grave pericolo che questi 100 milioni di tonnellate circa di rifiuti – e oltre – rappresentano. Questo è dove il Plastiki – prende nome dal progetto Kon-Tiki di Thor Heyerdahl nel 1947 – entra in gioco. Il suo equipaggio di sei persone è capitanato dall’astro nascente della navigazione oceanica britannica Jo Royle, 29 anni. Miss Royle è tutto ciò che si può desiderare alla polena della missione: bionda, vivace e – dietro un’aspra pronuncia lancastriana che è sopravvissuta alla sua formazione in Devon – un’ambientalista appassionata. Sembra impaziente di navigare proprio nel mezzo della superficie di acqua ondeggiante che copre il mondo.
“Non vedo l’ora di arrivare”, dice. “Essere nel mezzo dell’oceano rimette al proprio posto – se non si reagisce, non si sopravvive. Fa riflettere bene su ciò che si consuma”.
Tuttavia, lei prontamente ammette che è facile per il profano chiedere: “E allora?” Qualcuno potrebbe essere tentato di dire che la spazzatura deve pur finire da qualche parte e che l’oceano non è peggio di una discarica. Qui sta il pericolo principale: la plastica non è biodegradabile, ma se esposta alla luce solare si foto-degrada, frantumandosi in particelle sempre più piccole e, infine, in ‘nurdles’, nome specifico che indica i piccoli granelli che vanno a comporre i blocchi di plastica più moderni. Queste piccole particelle non sono dannose per se stesse, ma sono molto assorbenti e assorbono tossine a base acquosa, come ad esempio pesticidi e agenti di raffreddamento. Queste nurdles, ormai sature di veleni, vengono mangiate da animali marini filtro-alimentatori che si trovano nella posizione più bassa della catena alimentare e poi iniziano la risalita della catena stessa.
La scala del problema tossina è sconosciuta. Anche se la plastica è stata in giro per un secolo, il suo utilizzo si è diffuso praticamente solo da 50 anni. Inoltre, la minaccia non viene solo dal cibo – estratti marini vengono utilizzati anche in innumerevoli altri prodotti: in particolare i cosmetici. Poiché ci sono tanti percorsi possibili attraverso cui le tossine provenienti dalla plastica possono entrare nella nostra catena alimentare, c’è ancora da fare uno studio scientifico approfondito del loro possibile effetto sugli esseri umani. Ma queste particelle stanno certamente uccidendo la vita marina: le Nazioni Unite stimano che più di un milione di uccelli e 100.000 mammiferi muoiono ogni anno a causa della plastica – per avvelenamento, imprigionamento e soffocamento. Ci sono anche studi in corso che esaminano la possibile connessione tra un aumento dei problemi di fertilità e cancro e la proliferazione di plastica nell’oceano.
La soluzione è altrettanto confusa – c’è troppa spazzatura. Molti esperti concordano sul fatto che il cambiamento reale deve verificarsi sul campo, soprattutto a partire da persone che si assumano più responsabilità per i loro rifiuti.
Miss Royle dice: “I quattro oggetti di plastica più dannosi – sacchetti, tappi di bottiglie, bottiglie e polistirolo – sono alcuni prodotti di cui potremmo tranquillamente fare a meno, con appena un po’ di attenzione in più. E’ solo questione di fare lo sforzo di cambiare le nostre abitudini: non prendere patatine in contenitori di polistirolo, riutilizzare i sacchetti – piccole cose”.
Ci sono alcuni – capitanati dalla celebre ambientalista americana e libera esploratrice del National Geographic Sylvia Earle – i quali pensano che dovremmo semplicemente cercare di non utilizzare affatto le materie plastiche. Miss Royle respinge questo approccio: “La plastica è una parte del nostro mondo, ed è estremamente importante”.
Altri vorrebbero che il Governo degli Stati Uniti avviasse un’ operazione per ripulire l’ oceano manualmente mediante l’uso di autocisterne per recuperare la plastica che potrebbe poi essere usata come combustibile.
“Io non credo che sia una buona idea”, dice miss Royle. “Ci vorrebbe una quantità enorme di risorse per ripulire il mare. Se poi si brucia la plastica, si crea un sacco di biossido di carbonio nero che inquina l’atmosfera. Io penso che la soluzione debba venire dalla terraferma”. Ella sottolinea che San Francisco, la città più vicina al Great Pacific Patch, ha messo in atto con successo norme per evitare che la gente sprechi la plastica. “Se possono farlo loro, possiamo farlo anche noi. Abbiamo solo bisogno di fermare tutto questo dissennato utilizzo”.
Il dr. Boxall è decisamente meno ottimista: “Non c’è niente che possiamo fare”, dice. “E’ troppo grande. E’ qui per restare. E’ come i rifiuti nucleari. Anche una fuoriuscita di petrolio, disastrosa come è, alla fine si distrugge. Per la plastica non è così. Dobbiamo semplicemente migliorare il modo di smaltire i rifiuti”.
L’equipaggio del Plastiki spera che il suo viaggio possa fare la differenza, per quanto piccola. Ma fino a quando qualcosa non cambierà drasticamente – in particolare nei paesi in via di sviluppo, come Cina e Brasile – il mare continuerà a sostenere il peso dei nostri sprechi di plastica. The Great Pacific Garbage Patch, e i suoi crescenti imitatori in tutto il mondo, continuerà ad allargarsi.
Titolo originale: “The Biggest Dump in the World”
Fonte: http://www.telegraph.co.uk
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16.03.2010
Scelto e tradotto per www.comedonchisciotte.org da CONCETTA DI LORENZO