DI JAMES MCWILLIAMS
www.theatlantic.com
Uno sguardo alla mentalità che
consente agli allevatori di allevare ed uccidere migliaia di animali
e di considerarsi comunque felici
Conosco un allevatore di nome Bill.
Nel suo ranch nel Texas si allevano oltre 4000 capi di bestiame in una
maniera che caratterizza l’agricoltura animale intensiva. Le vacche
vengono numerate, non gli viene dato un nome. Gli animali non mangiano
cibo, convertono il foraggio. L’obiettivo finale non potrebbe essere
più ovvio: allevare gli animali il più velocemente, efficientemente
e sicuramente possibile; trasformarli in bei tagli marmorizzati di carne
di manzo; e durante tutto il processo, minimizzare i costi e massimizzare
la produzione.Che ne pensa Bill della sua vocazione?
Ne è assolutamente entusiasta. L’allevamento intensivo gli ha
permesso di vivere in campagna, un’opportunità di crescere la sua
famiglia in un ambiente rurale, e gli frutta un reddito abbastanza sostanzioso
da poter mandare i suoi figli a studiare in prestigiosi college. Quando
recentemente ho confrontato Bill sull’eticità dell’allevamento
intensivo, ha sorriso e scosso il capo, insistendo che le vacche che
ingrassava e macellava non avevano più valore morale delle grate di
ferro che le racchiudevano.
Bill è una persona emotivamente
consapevole che dà l’impressione di un tranquillo accademico.
Ha un sorriso affabile, e può essere sorpreso a leggere il New Yorker
come pure Horse and Livestock. Per come la pensa lui, un allevamento
intensivo è semplicemente un buon investimento, un po’ come una catena
di montaggio per fabbricare le auto. Il consolidamento è una risposta
logica agli incentivi economici.
Ma penso che Bill trascuri un punto
cruciale. È vero, anche senza i sussidi, ci potrebbero senz’altro
essere vantaggi economici ad allevare gli animali in condizioni intensive.
Ma non dovremmo mai tralasciare le implicazioni psicologiche di una
cosa così emotivamente intensa come il macello di animali per il cibo.
E quando si arriva a questa impresa, la scala e la densità di produzione
riescono a fare qualcosa di essenziale per tutti gli allevatori di allevamenti
intensivi: recidono il legame emotivo tra allevatori e animali. In parole
povere, permette al mio amico Bill di uccidere migliaia di animali e
di rimanere una persona felice.
Per comprendere questo fenomeno bisogna
ritornare al diciannovesimo secolo. Prima del 1850, quando la maggioranza
dell’allevamento era su una scala relativamente bassa, gli allevatori
vedevano i loro animali come animali. Ossia li vedevano come degli esseri
senzienti con bisogni unici che, se non soddisfatti, avrebbero
portato ad un prodotto inferiore. I manuali agricolturali del tempo
indicavano di routine agli allevatori di parlare ai loro animali con
toni di voce piacevoli, di assicurarsi che le loro lettiere fossero
morbide e abbastanza spaziose, e di lavarli con affetto tutti i giorni.
Gli allevatori non si riferivano mai ai loro animali come a degli oggetti.
Erano più saggi.
Erano più saggi perché il sistema
di pastoralismo misto che praticavano era definito dalla vicinanza fisica.
Questa intimità garantiva che gli allevatori interagissero quotidianamente
con i loro animali, sviluppando un senso emotivo delle loro personalità
e capricci individuali. La scala personale dell’allevamento animale
rendeva il macello – che gli allevatori tendevano a praticare loro
stessi – un’occasione solenne nella migliore delle ipotesi. Nessuna
persona normale, nemmeno nella più dura frontiera di insediamento,
sarebbe rimasto indifferente di fronte al macello di un animale che
aveva allevato per anni. Nessuno avrebbe potuto dubitare che toglieva
la vita ad un essere senziente con bisogni ed esigenze.
Dopo il 1850 le cose sono cambiate.
L’agricoltura americana è caduta preda dell’allevamento scientifico.
Gli scienziati agricolturali, seguiti dagli allevatori, hanno incominciato
a concettualizzare l’allevamento come un’iniziativa strettamente
quantificabile. Iniziando con le piante, per poi proseguire con gli
animali, si sono sempre meno preoccupati delle idiosincrasie individuali,
preoccupandosi più delle valutazioni collettive della produttività.
La catena di produzione si è ampliata e, mentre questo succedeva, gli
allevatori hanno iniziato a parlare in termini di contributo nutritivo,
tempi di allevamento, spazi di confinamento e di gestione delle malattie.
Già intorno al 1870 gli allevatori parlavano regolarmente dei loro
animali non come tali, ma letteralmente come fossero delle macchine
che venivano costruite nelle industrie. “Il maiale”, spiegava un
manuale di agricoltura, “è una delle macchine più preziose nell’allevamento”.
Il balsamo psicologico di questa retorica
offriva un sollievo agli allevatori che portavano il fardello del macello
di massa. Come all’inizio del XIX secolo gli allevatori comprendevano
intuitivamente, gli animali di allevamento sono creature senzienti che
hanno interessi, un senso di identità, e la capacità di presagire
e sentire il dolore. È nel contesto di queste qualità – qualità
che la costante interazione con gli animali rendeva impossibile ignorare
– che il “beneficio” psicologico dell’allevamento intensivo
diventa chiaro. La sua struttura impersonale, altamente razionalizzata
è ideata per proteggere chi è coinvolto dalle conseguenze emotive
dell’uccidere.
Oggi molti critici dell’agricoltura
industriale insistono che dobbiamo ritornare al sistema di allevamento
antecedente al 1850. Sono scettico su questo, non tanto per ragioni
economiche – sì, è più conveniente allevare animali su più grande
scala – ma per ragioni psicologiche. Mi chiedo se, in un’era post-darwiniana
di etologia animale (lo studio delle menti animali), ne sappiamo troppo
sulle emozioni e sull’intelligenza animale per guardare negli occhi
a milioni di vacche – animali allevati con sincero affetto e attenzione
– e macellarli. Mi chiedo in altre parole, se siamo pronti come cultura
di carnivori, a fare ciò che il sistema di produzione industriale di
Bill lo assolve dal fare: contemplare il peso morale dell’allevamento
animale.
Fonte: The
Dangerous Psychology of Factory Farming
24.08.2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di MICAELA MARRI