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La Redazione

 

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LA PERDITA DI PETROLIO DEL GOLFO: UN BUCO NEL MONDO

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A cura di Das schloss
Il 1 Luglio 2010
121 Views
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DI NAOMI KLEIN
The Guardian

Il disastro della Deepwater Horizon (piattaforma semisommergibile di perforazione) non è solo un incidente industriale – è una violenta ferita inflitta alla Terra stessa. In questo servizio speciale dalla costa del Golfo, una grande autrice e attivista ci mostra come mettere a nudo l’arroganza al cuore del capitalismo.

Tutti i partecipanti riuniti per il Consiglio Comunale erano stati ripetutamente istruiti a mostrare cortesia ai gentiluomini della BP (British Petroleum) e del governo federale. Queste persone distinte avevano trovato del tempo nei loro programmi impegnati per venire alla palestra di un liceo un martedì sera a Plaquemines Parish, in Louisiana, una delle molte comunità costiere nelle quali il veleno marrone stava scivolando attraverso le paludi, parte di tutto questo stava per essere descritto come il più vasto disastro ambientale nella storia degli USA.

“Dire agli altri ciò che vogliono sentirsi dire” il tema dell’incontro dichiarato prima dell’inizio delle domande.E per un momento la folla, per lo più composta da famiglie di pescatori, ha mostrato un notevole autocontrollo. Hanno ascoltato pazientemente Larry Thomas, geniale agente di pubbliche relazioni della BP, mentre diceva loro che si era dedicato a fare di meglio per esaminare le loro richieste a riguardo del reddito venuto meno – poi ha passato tutti i dettagli a un subappaltatore notevolmente meno amichevole. Hanno ascoltato fino alla fine l’uomo in giacca e cravatta dell’Agenzia di Protezione Ambientale (Environmental Protection Agency) quando li ha informati che, contrariamente a quanto avevano letto sulla mancanza di prove e sul fatto che il prodotto era stato proibito in Inghilterra, i solventi chimici spruzzati in enormi quantità sul petrolio erano assolutamente sicuri.

Ma la pazienza è iniziata a terminare quando è salito sul podio per la terza volta Ed Stanton, capitano della guardia costiera, per rassicurarli che “la guardia costiera intende assicurarsi che la BP ripulisca tutto”.

“Mettilo per iscritto!” urlava qualcuno. Ormai l’aria condizionata aveva smesso di funzionare e le bibite ghiacciate della Budweiser scarseggiavano. Un uomo basso chiamato Matt O’Brien si avvicinò al microfono. “Non abbiamo bisogno di sentire altro”, dichiarò, mani sui fianchi. Non avevano importanza la garanzie che venivano offerte perché, spiegò, “semplicemente non vi crediamo ragazzi!”. E con ciò, una sonora esultanza si alzò da terra, tale che avreste pensato che gli Oilers (lo sfortunato nome della squadra di football della scuola) avevano segnato un touchdwon.

Se non altro la resa dei conti è stata catartica. Per settimane i residenti sono stati sottoposti a raffiche di discorsetti e promesse stravaganti venute da Washington, Houston e Londra. Ogni volta che accendevano le loro televisioni c’era il capo della BP, Tony Hayward, che dava la sua solenne parola che “avrebbe aggiustato tutto”. Oppure c’era il Presidente Barak Obama che esprimeva la sua assoluta fiducia che la sua amministrazione “avrebbe lasciato la costa del Golfo in condizioni migliori di prima”, che “era sicuro che sarebbe tornata anche più forte di quanto fosse prima della crisi”.

Tutto suonava eccezionale. Ma suonava anche completamente ridicolo, addirittura doloroso, per le persone i cui mezzi di sostentamento li mettevano a stretto contatto con la chimica delicata delle paludi. Una volta che il petrolio ricopre la base dell’erba delle paludi, come aveva già fatto a soli pochi chilometri da lì, nessuna macchina miracolosa o intruglio chimico può farlo andar via in modo sicuro. Puoi togliere il petrolio dalla superficie dell’acqua aperta, e puoi rastrellarlo via da una spiaggia friabile, ma una palude ricoperta di petrolio si ferma e muore lentamente. Le larve di innumerevoli specie per le quali la palude è una terra per deporre uova – gamberi, granchi, ostriche, pesci – saranno avvelenate.

Stava già succedendo. Prima di quel giorno, viaggiavo attraverso le paludi vicine in acque poco profonde. I pesci saltavano nelle acque circondate da barriere bianche, le strisce di cotone spesso e le maglie che la BP usa per assorbire il petrolio. Il cerchio di materiale sporco sembrava stringersi attorno ai pesci come una trappola. Nelle vicinanze, un merlo dalle ali rosse appollaiato in cima ad un giunco alto due metri e inquinato dal petrolio. La morte saliva su per la canna, l’uccellino avrebbe potuto essere seduto su una dinamite accesa.

E poi ci sono le piante stesse, o canna Roseau, come i lunghi e taglienti steli erano chiamati. Se il petrolio si infiltra abbastanza profondamente nella palude, non solo ucciderà l’erba sopra la terra, ma anche le radici. Quelle radici sono ciò che mantiene insieme la palude, impedendo al terreno verde e luminoso di crollare nel delta del Mississippi e nel Golfo del Messico. Così luoghi come Plaquemines Parish non solo stanno per perdere le loro industrie della pesca, ma anche una gran parte della barriera fisica che diminuisce l’intensità dei potenti temporali come l’uragano Katrina. Che potrebbe significare perdere tutto.

Quanto ci vorrà perché un ecosistema così devastato possa essere “risanato e ricostruito per intero”, come ha promesso di fare il ministro degli Interni di Obama? Non è del tutto chiaro come una cosa come questa sia lontanamente possibile, almeno non in un lasso di tempo che possiamo immaginare facilmente. Le pescherie dell’Alaska devono ancora recuperare completamente la perdita di petrolio del 1989 della Exxon Valdez (superpetroliera della Exxon Mobil) e alcune specie di pesce non sono più tornate. Ora gli scienziati del governo stimano che una quantità di petrolio simile a quella della Valdez potrebbe stare entrando nelle acque costiere del Golfo ogni quattro giorni. Una previsione anche peggiore emerge dalla guerra del Golfo del 1991, quando circa 11 milioni di barili di petrolio furono scaricati nel Golfo Persico – la fuoriuscita più grande che ci sia mai stata. Quel petrolio è entrato nella regione paludosa ed è rimasto lì, penetrando in profondità grazie ai buchi scavati dai granchi. Non è un confronto perfetto, dato che fu effettuata poca bonifica, ma secondo uno studio fatto 12 anni dopo il disastro, quasi il 90% delle paludi e mangrovie colpite erano ancora profondamente danneggiate.

Questo lo sappiamo. Lontano dall’essere “ricostruita per intero”, la costa del Golfo, più che probabilmente, sarà danneggiata. Le sue acque ricche e i suoi cieli affollati saranno meno vivi di quanto lo sono oggi. Anche lo spazio fisico che molte comunità occupano sulla carta si restringerà grazie all’erosione. E la cultura leggendaria della costa si contrarrà e appassirà. Le famiglie di pescatori su e giù per la costa non solo raccolgono cibo, dopo tutto. Tengono alta un’intricata rete che include la tradizione della famiglia, la cucina, la musica, l’arte e lingue in via d’estinzione – proprio come le radici d’erba tengono alta la terra nella palude. Senza la pesca queste culture uniche perdono il loro sistema radicale, la base autentica sulle quali posano. (La BP dalla sua parte è ben consapevole dei limiti della ripresa. Il piano di risposta della compagnia alla fuoriuscita regionale di petrolio del Golfo del Messico istruisce specificatamente i funzionari a non fare “promesse che la proprietà, l’ecologia, o qualunque altra cosa saranno restaurati alla normalità”. Non è in dubbio perché i funzionari preferiscano termini alla buona come “aggiustare tutto”.)

Se Katrina tirasse indietro il sipario sulla realtà del razzismo in America, il disastro della BP lo tirerebbe indietro su qualcosa di più nascosto: quanto piccolo controllo ha anche il più ingegnoso tra di noi sulle imponenti, intricatamente collegate forze naturali con le quali ci immischiamo così casualmente. La BP non può tappare il buco che ha fatto nella Terra. Obama non può ordinare alle specie di pesci di sopravvivere, o ai pellicani marroni di non estinguersi (non importa a quale stupido tiri i calci). Nessuna quantità di denaro – né i 20.000 milioni di dollari promessi dalla BP né 100.000 milioni – può rimpiazzare una cultura che ha perso le sue radici. E mentre i nostri politici e leader delle aziende devono ancora venire a patti con queste verità umilianti, le persone della quali l’aria, l’acqua e i mezzi di sostentamento sono stati contaminati stanno perdendo velocemente le loro illusioni.

“Sta morendo tutto” ha detto una donna quando l’assemblea in municipio stava giungendo finalmente a termine. “Come potete dirci onestamente che il Golfo ha buone capacità di ripresa e guarirà? Perché nessuno di voi qui ha fatto un accenno a cosa sta per accadere al nostro Golfo. Vi mettete seduti qui con una faccia sincera e agite come se sapeste, quando non sapete.”

Questa crisi della costa del Golfo riguarda molte cose – corruzione, deregolamentazione, dipendenza dai combustibili fossili. Ma sotto tutto riguarda questo: la pretesa spaventosamente pericolosa della nostra cultura di avere comprensione completa e comando sulla natura, tale che possiamo manipolare radicalmente e ricostruirla col minimo rischio per i sistemi naturali che ci sostengono. Ma, come ha rivelato il disastro della BP, la natura è sempre più imprevedibile di quanto immaginino i più sofisticati modelli matematici e geologici. Durante la testimonianza congressuale di giovedì, Hayward ha detto: “Le menti migliori ed i più grandi scienziati sono stati portati a svoltare” sulla crisi, e che “con la possibile eccezione del programma spaziale nel 1960, è difficile immaginare il ritrovo di una squadra più grande e tecnicamente più efficiente in un luogo in tempo di pace.” E ancora, a dispetto di ciò che il geologo Jill Schneiderman ha descritto come il “pozzo di Pandora”, sono come gli uomini di fronte a questa palestra: agiscono come se sapessero, ma non sanno.

Dichiarazione della missione della BP

Nella storia della natura umana, l’idea che la natura sia una macchina per noi, da modificare secondo la nostra volontà, è una credenza relativamente recente. Nel suo innovativo libro del 1980 La Morte della Natura, la storica ambientale Carolyn Merchant ricorda ai lettori che fino al 1600 la Terra era viva, di solito sotto forma di una madre. Gli europei – come gli indigeni nel mondo – credevano che il pianeta fosse un organismo vivente, pieno di poteri vivificatori, ma anche di umori irascibili. Per questa ragione c’erano forti tabù contro le azioni che deformerebbero e profanerebbero la “madre”, incluse le miniere.

La metafora cambiò con la rivelazione di alcuni (ma non tutti) misteri della natura durante la rivoluzione scientifica del 1600. Con la natura adesso considerata come una macchina, priva di mistero o divinità, le sue parti costitutive potrebbero essere ostruite, estratte e rifatte impunemente. A volte la natura è ancora vista come una donna, ma una facilmente dominata o sottomessa. Sir Francis Bacon incapsulò meglio la nuova filosofia quando scrisse nel 1623 De dignitate et augmentis scientiarum nel quale la natura deve essere “limitata, modellata e fatta come se fosse nuova per l’arte e la mano dell’uomo”.

Queste parole potrebbero essere anche state le dichiarazioni della missione corporativa della BP. Occupando audacemente quello che la compagnia chiamava “la frontiera energetica”, si dilettava a sintetizzare microbi che producono metano e annunciava “una nuova area di indagine” la Geoingegneria. E ovviamente si vantava del fatto che, nel suo giacimento di Tiber nel Golfo del Messico, adesso aveva “il pozzo più profondo mai perforato dall’industria del petrolio e del gas”- tanto in profondità sotto il fondale marino, quanto i jet volano sopra la testa.

L’immaginazione e la preparazione a cosa sarebbe successo se questi esperimenti nell’alterazione degli elementi fondamentali della vita e della geologia fossero andati male hanno occupato poco spazio nell’immaginario dell’azienda. Come abbiamo scoperto tutti, dopo che la piattaforma della Deepwater Horizon è esplosa il 20 Aprile, la compagnia non aveva sistemi sul posto per rispondere efficacemente a questo scenario. Spiegano perché non ha fallito la cupola di contenimento, un portavoce della BP, Steve Rinehart, ha detto “Non penso che qualcuno abbia previsto la circostanza che ora dobbiamo affrontare”. Apparentemente, “sembrava inconcepibile” che la valvola di sicurezza fallisse, quindi “perchè prepararsi?”.

Il rifiuto di considerare il fallimento chiaramente veniva forte dai vertici. Un anno fa, Hayward disse a un gruppo di studenti laureati all’Università di Stanford che ha una targa sulla sua scrivania che dice: “Se sapessi che non puoi fallire, cosa proveresti?”. Lungi dall’essere uno slogan di ispirazione benevolo, questa era in realtà una descrizione accurata di come si comportavano nel mondo reale la BP e i suoi concorrenti. Nelle recenti udienze a Capitol Hill, il membro del congresso del Massachussets Ed Market interrogò i rappresentanti delle maggiori compagnie petrolifere e di gas sui modi in cui avevano destinato le risorse. Per tre anni avevano speso “39.000 milioni di dollari per la prospezione di petrolio e nuovi giacimenti di gas. Tuttavia, l’investimento medio in ricerca e sviluppo per la sicurezza, la prevenzione degli incidenti, la reazione agli sversamenti erano 20 miserabili milioni di dollari l’anno”.

Queste priorità sono molto utili per spiegare perché il piano iniziale di esplorazione che la BP ha presentato al governo federale per il mal riuscito pozzo di Deepwater Horizon si legge come una tragedia greca sull’arroganza umana. 5 volte compare la frase “basso rischio”. Anche se ci fosse una fuoriuscita, la BP prevede fiduciosamente che, grazie alla squadra e alla tecnologia approvata”, le conseguenze sarebbero minime. Presentando la natura come un socio minore prevedibile e piacevole (o forse subappaltatore), la relazione spiega allegramente che nel caso si verificasse una fuoriuscita, “le correnti e la degradazione microbiotica eliminerebbero il petrolio della colonna d’acqua o diluirebbero i componenti a livello d’ambiente”. Gli effetti sui pesci, nel frattempo, “probabilmente sarebbero subletali” per la capacità dei pesci di evitare una fuoriuscita (e) di metabolizzare idrocarburi”. (Nella versione della BP più che una minaccia terribile, una fuoriuscita sembra un self-service per la vita acquatica).

La cosa migliore è che se si verificasse una fuoriuscita importante, esiste, sembra, “poco rischio di contatto o d’impatto con la costa” per la reazione veloce progettata dalla compagnia (!) e “a causa della distanza (dalla piattaforma) alla riva”- circa 77 km. Questa è la richiesta più stupefacente di tutte. In un golfo che vede spesso venti a più di 70 km orari, per non menzionare gli uragani, la BP ha avuto un così piccolo rispetto per la capacità dell’oceano di rifluire e scorrere, di scendere e risalire, che non pensava che il petrolio potesse fare un misero viaggio di 77 km (la settimana scorsa, un frammento di Deepwater Horizon è apparso su una spiaggia nella Florida, a 306 km di distanza).

Nessuna di queste trascuratezze sarebbe stata possibile, comunque, se la BP non avesse fatto le sue predizioni ad una classe politica ansiosa di credere che la natura era stata veramente domata. Alcuni, come la repubblicana Lisa Murkowski, erano più ansiosi di altri. La senatrice dell’Alaska era così impressionata dall’ingegneria sismica quadrimensionale che ha proclamato che la perforazione in acque profonde aveva raggiunto la massima artificialità controllata. “E’ meglio di Disneyland in termini di come si possono prendere le tecnologie ed andare poi alla ricerca di risorse di 1000 anni fa e farlo in modo ecologicamente sano”, ha detto al comitato dell’energia del Senato solo 7 mesi fa.

Perforare senza pensare è stata di certo la politica del partito Repubblicano dal Maggio 2008. Con i prezzi del gas in forte aumento senza precedenti, è quando il leader conservatore Newt Gringrich ha scoperto lo slogan “Perfora qui, perfora ora, paghi meno”- con particolare attenzione per l’ora. La campagna estremamente popolare è stata un grido contro la cautela, contro lo studio, contro l’azione misurata. Nella storia di Gringrich, perforare a casa ovunque potrebbero essere il petrolio e gas – chiusi nello scisto del Rocky Mountain, nell’Arctic National Wildlife Refuge (ANWR), e in alto mare – era una strada sicura per ridurre il prezzo delle benzine, creare posti di lavoro e dare filo da torcere agli arabi, tutto allo stesso tempo. Di fronte a questa triplice vittoria, la cura per l’ambiente era per femminucce: come ha detto il senatore Mitch McConnell “In Alabama, nel Mississippi, nella Louisiana e nel Texas, pensano che le piattaforme petrolifere siano bellissime”. Dal famigerato “Perfora, baby, perfora!” la convention nazionale repubblicana rotolò, la base del partito sentiva tale frenesia per il combustibile fossile made in USA, che avrebbe perforato sotto il suolo della convention se qualcuno avrebbe portato una perforatrice sufficientemente grande.

Infine Obama ha ceduto, come fa sempre. Con un pessimo tempismo, solo tre settimane prima che la Deepwater Horizon esplodesse, il presidente aveva annunciato che avrebbe aperto zone precedentemente protette del paese alle perforazioni in mare aperto. La pratica non era così rischiosa come aveva pensato, spiegò. “Generalmente le piattaforme petrolifere non causano fuoriuscite. Sono tecnologicamente molto avanzate.” Comunque questo non era abbastanza per Sarah Palin, che si prendeva gioco dei piani dell’amministrazione di Obama per condurre più studi prima di perforare in alcune aree. “Mio Dio, gente, queste aree sono state studiate fino alla morte”, ha detto alla conferenza sulla leadership repubblicana del sud, a New Orleans, solo 11 giorni prima dell’esplosione. “Perforiamo, baby, perforiamo, non aspettiamo, baby, perforiamo!”. E ci fu grande giubilo.

Nella sua testimonianza congressuale, Hayward ha detto: “Noi e l’intera industria impareremo da questo terribile evento.” E si potrebbe immaginare che una catastrofe di questa grandezza certamente avrebbe ispirato un nuovo senso d’umiltà ai sostenitori del “perfora ora”. Non ci sono comunque indizi che sia questo il caso. La risposta al disastro – a livello aziendale e governativo – è stata diffusa piena di precise tracce di arroganza e previsioni eccessivamente ottimistiche che hanno creato il disastro in primo luogo.

L’oceano è grande, può resistere, l’abbiamo sentito dire ad Hayward nei giorni precedenti. Mentre il portavoce John Curry insisteva sul fatto che microbi affamati avrebbero consumato qualsiasi petrolio fosse nel sistema acquatico, perché “la natura ha un suo modo di risolvere la situazione”. Ma la natura non sta facendo il loro gioco. I venti e le correnti dell’oceano hanno ridicolizzato le barriere fluttuanti leggere che la BP aveva messo per assorbire il petrolio. “Lo abbiamo detto”, ha detto Byron Encalade, presidente dell’Associazione delle Ostriche della Louisiana, “il petrolio sarebbe passato sopra le barriere fluttuanti o sotto”. Certamente lo ha fatto. Il biologo marino Rick Steiner, che ha seguito da vicino i lavori di pulizia, calcola che “il 70 o l’80% delle barriere non stanno facendo assolutamente nulla”.

E poi ci sono i controversi disperdenti chimici: più di 37 milioni di galloni scaricati con il marchio del comportamento della compagnia “Cosa potrebbe andare storto?”. Come giustamente hanno segnalato i furiosi abitanti durante l’assemblea di Plaquemines Parish, sono stati fatti pochi studi ed esiste poca ricerca su ciò che farà alla vita marina quella quantità di petrolio. Non c’è nemmeno modo di ripulire la miscela tossica di petrolio e prodotti chimici sotto la superficie. Sì, i microbi che si moltiplicano rapidamente divorano petrolio in mare aperto, ma così facendo assorbono anche l’ossigeno dall’acqua, creando una nuova minaccia per la vita marina.

La BP aveva anche osato immaginare di poter evitare che le spiacevoli immagini delle spiagge e degli uccelli ricoperti di petrolio sfuggissero dalla zone del disastro. Quando ero sull’acqua con un’equipe televisiva, per esempio, ci si avvicinò un’altra barca il cui capitano chiese: “Lavorate per la BP?”. Quando rispondemmo di no, la risposta – in oceano aperto – fu “Allora non potete stare qui”. Ma certamente questa tattiche maldestre, come tutte le altre, hanno fallito. Semplicemente c’è troppo petrolio in troppi posti. “Non si può dire all’aria di Dio dove scorrere e andare, e non si può dire all’acqua dove scorrere e andare”, mi ha detto Debra Ramirez. Era una lezione che aveva imparato vivendo a Mossville, Louisiana, circondata da 14 impianti petrolchimici che spargevano esalazioni, nel vedere come le malattie si diffondevano da un quartiere all’altro.

Il limite umano è stato una costante di questa catastrofe. Dopo due mesi ancora non abbiamo idea di quanto petrolio stia scorrendo né di quando si fermerà. La pretesa della compagnia di completare i pozzi di soccorso entro la fine di Agosto – ripetuta da Obama nel suo discorso dallo Studio Ovale – da molti scienziati è vista come un bluff. La procedura è rischiosa e potrebbe fallire, e c’è la reale possibilità che il petrolio possa continuare a fuoriuscire per anni.

Il flusso degli spettacoli di diniego non è neanche un segnale da sminuire. I politici della Lousiana si oppongono con indignazione al temporaneo congelamento di Obama delle perforazioni in acque profonde, accusandolo di distruggere l’unica industria importante che esiste adesso quando la pesca ed il turismo sono in crisi. Palin rifletteva su Facebook che “nessuna attività umana è sempre senza rischio”, mentre il congressista repubblicano del Texas John Culberson ha descritto il disastro come una “anomalia statistica”. La reazione di gran lunga più sociopatica, comunque, proviene dal veterano commentatore Washington Llewellyn King: invece di voltare le spalle a rischi della grande ingegneria, dovremmo fermarci e “meravigliarci del fatto che possiamo costruire macchine così notevoli che possono scoprire un mondo sotterraneo”.

Fermare il sanguinamento

Fortunatamente, molti stanno imparando una grande lezione differente dal disastro, non rimanendo sorpresi dal potere dell’umanità di ridisegnare la natura, ma dalla nostra impotenza a farcela contro le feroci forze naturali che si scatenano. C’è anche qualcos’altro. E’ il sentimento che il buco in fondo all’oceano sia più di un incidente d’ingegneria o una macchina rotta. E’ una violenta ferita in un organismo vivo, che è parte di noi. E grazie al materiale in diretta dalle camere di BP, tutti possiamo vedere in tempo reale, 24 ore al giorno come sgorgano le budella della Terra.

John Wathen, ambientalista della Waterkeeper Alliance, era uno dei pochi osservatori indipendenti a volare sopra la fuoriuscita di petrolio nei giorni precedenti al disastro. Dopo aver filmato le grosse macchie di petrolio alle quali i guardiacoste si riferiscono cortesemente come “splendore arcobaleno”, ha osservato quello che molti avevano sentito: “Il Golfo sembra sanguinare”. Queste immagini appaiono ripetutamente in conversazioni e interviste. Monique Harden, avvocato di diritto ambientale a New York, ha rifiutato di chiamare il disastro una “marea nera” e dice invece: “Abbiamo un’ emorragia.” Altri parlano del bisogno di “fermare il sanguinamento”. Ed io personalmente ero impressionata, sorvolando il tratto di oceano dove è affondata la Deepwater Horizon, con i guardiacoste degli USA perché le forme vorticose che l’oceano faceva nelle onde dell’oceano assomigliavano alle pitture rupestri: un polmone piumoso respirava a fatica, gli occhi che guardano in su, uccello preistorico. Messaggi dal profondo.

E questa è certamente la svolta più strana nella saga della cosa del Golfo: sembra sia per noi il risveglio della realtà che la Terra non è mai stata una macchina. Data per morta da 400 anni, la Terra si anima in mezzo a così tanta morte.

L’esperienza di seguire i progressi del petrolio attraverso l’ecosistema è una specie di corso intensivo di ecologia profonda. Ogni giorno impariamo di più su come ciò che sembra essere un problema terribile in una località isolata del mondo si irradia in realtà in modi che la maggior parte di noi non avrebbe mai potuto immaginare. Un giorno sentiamo che il petrolio potrebbe arrivare a Cuba – poi in Europa. Dopo sentiamo che i pescatori sopra l’Atlantico, nell’isola Prince Edward, Canada, sono preoccupati perché i tonni di pinne blu che pescano di fronte alle loro coste nascono a mille di km in quelle acque del Golfo inquinate dal petrolio. E impariamo anche che le zone umide della costa del Golfo sono per gli uccelli l’equivalente di un centro attivo di connessioni aeree – tutti sembrano avere una sosta: 110 specie di uccelli canori migratori e il 75% di tutti gli uccelli acquatici migratori degli Stati Uniti.

Una cosa è sentirsi dire da un incomprensibile teorico del caos che una farfalla che batte le ali in Brasile può scatenare un tornado in Texas. Un’altra è vedere come la teoria del caos si svela davanti ai tuoi occhi. Carolyn Merchant descrive così la lezione: “Il problema, come tragicamente la BP ha scoperto troppo tardi, è che la natura è una forza attiva che non si può limitare”. I risultati prevedibili sono poco usuali nei sistemi ecologici, mentre “gli eventi imprevedibili, caotici (sono) usuali”. E solo nel caso che ancora non l’avessimo capito, pochi giorni fa, è caduto un fulmine su una barca della BP come un punto esclamativo, obbligandola a sospendere i suoi sforzi di contenimento. E non menzioniamo nemmeno cosa farebbe un uragano con la minestra tossica della BP.

Si deve sottolineare che c’è qualcosa di unico in questo particolare percorso contorto verso l’illuminazione. Dicono che gli americani imparano dove sono i paesi esteri bombardandoli. Adesso sembra che tutti stiamo imparando i sistemi circolatori della natura, avvelenandola.

Alla fine degli anni ’90, un gruppo isolato di indigeni in Colombia catturò i titoli dei giornali del mondo, con un conflitto quasi Avataresco. Dalla loro casa lontana nelle nuvolose foreste andine, gli U’wa fecero sapere che se la Occidental Petroleum avesse realizzato piani per perforare la loro terra in cerca di petrolio, avrebbero commesso un suicidio rituale di massa saltando da un precipizio. I loro anziani spiegavano che il petrolio forma parte della ruiria, “il sangue della Madre Terra”. Credono che tutta la vita, la loro compresa, fluisca dalla ruiria, quindi estrarre petrolio porterebbe alla loro distruzione. (Oxy finì con l’allontanarsi dalla regione, dicendo che non c’era tanto petrolio come credeva).

Praticamente tutte le culture indigene hanno miti sugli dei e sugli spiriti che vivono nel mondo naturale – nelle rocce, nelle montagne, nei ghiacciai, nelle foreste – così come le culture Europee prima della rivoluzione scientifica. Katja Neves, antropologa della Concordia University, sottolinea che la pratica ha uno scopo pratico. Chiamare “sacra” la Terra è un altro modo di esprimere umiltà di fronte alle forze che non comprendiamo nella loro totalità. Quando una cosa è sacra essa richiede che si proceda con cautela. Anche con timore reverenziale.

Se finalmente impariamo questa lezione, le implicazioni potrebbero essere profonde. Il sostegno pubblico per altre perforazioni in mare aperto diminuisce bruscamente, è sceso un 22% dal picco della frenesia del “Perfora ora”. Comunque la questione non è finita. È solo un problema di tempo prima che l’amministrazione di Obama annunci che, grazie ad un’ingegnosa nuova tecnologia e strette regole, adesso è perfettamente sicuro perforare nel mare profondo, anche nell’Artico, dove una pulizia sotto il ghiaccio sarebbe infinitamente più complessa di quella che ha luogo nel Golfo. Ma forse questa volta non saremo così facilmente rassicurati, così pronti a giocare con i pochi paradisi ancora protetti.

Lo stesso vale per la geoingegneria. Mentre continuano le negoziazioni per il cambiamento climatico, dobbiamo essere preparati ad ascoltare di più il Dr Steven Koonin, sottosegretario di Obama di energia per la scienza. È uno dei principali sostenitori dell’idea che il cambiamento climatico può essere combattuto con trucchi tecnici, rilasciando particelle di solfato di alluminio nell’ atmosfera – e ovviamente è tutto perfettamente sicuro, proprio come Disneyland! Succede anche che è l’ex scienziato capo della BP, l’uomo che solo 15 mesi fa ancora visionava la tecnologia dopo la presunta sicura offensiva della BP nella perforazione in acque profonde. Forse questa volta opteremo per non permettere l’esperimento del buon dottore con la fisica e la chimica della Terra, e scegliere invece di ridurre il nostro consumo e passare alle energie rinnovabili che hanno la virtù del fatto che, quando falliscono, falliscono in piccole dimensioni. Come ha descritto il comico statunitense Bill Maher: “Sapete cosa succede quando i mulini a vento cadono in mare? Uno schizzo”.

Il risultato più positivo possibile di questo disastro sarebbe non solo un’accelerazione di fonti di energia rinnovabile come il vento, ma un abbraccio totale del principio di precauzione nella scienza.
Lo specchio opposto del credo di Hayward “Se lo sai non puoi fallire”. Il principio preventivo sostiene che “quando un’attività implica minacce di danni all’ ambiente o alla salute umana” dobbiamo andarci piano, come se la falla fosse possibile, addirittura probabile. Forse potremmo anche ottenere una nuova targhetta per la scrivania di Hayward perché la contempli mentre firma assegni di compenso. “Agisci come se sapessi, ma non sai”.

[Naomi Klein ha visitato la costa del Golfo insieme alla squadra di riprese di Fault Lines, un programma documentario presentato da Avi Lewis su Al-Jazeera English Television. L’hanno consultata per il film.]

Naomi Klein è una giornalista di stampa internazionale, vincitrice di premi e autrice del best seller del New York Times “The Shock Doctrine: The Rise of Disaster Capitalism” adesso in edizione economica. I suoi libri precedenti includono il best seller internazionale “No Logo: Taking Aim at the Brand Bullies” ( che è stato appena ripubblicato in una edizione speciale per il Decimo Anniversario ); e la collezione “Fences and Windows: Dispatches from the Front Lines of the Globalization Debate” (2002). Per leggere tutti i suoi ultimi scritti visitate www.naomiklein.org.

Titolo originale: “Gulf Oil Spill: A Hole in the World”

Fonte: http://www.guardian.co.uk
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19.06.2010

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ELISA CURATOLO

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