Di Alessia Vignali per ComeDonChisciotte.org
La parola stabilisce i limiti del pensabile.
A proposito dei limiti del linguaggio vorrei citare un pezzo di Gianrico Carofiglio apparso sulla rivista Myself, che racconta di uno studio condotto a Tahiti dall’antropologo e psicoterapeuta Bob Levy. Nel tentativo di individuare le ragioni dell’altissimo numero di suicidi registrati a Tahiti, Levy scopre che i tahitiani non dispongono delle parole atte a significare dolore, angoscia, disperazione… possono indicare con le parole solo il dolore fisico. Naturalmente provano anche il dolore psichico, ma non hanno per esso un concetto e un nome.
Che accade, dunque? Che la mancanza delle parole per nominare gli affetti impedisce a queste persone prima di tutto d’aver coscienza di quanto loro sta accadendo: esse continuano ad aver paura di ciò che provano, si sentono sempre di fronte all’ignoto; in secondo luogo, essa gli impedisce di gestire il loro stato d’animo e di trovare soluzioni. La libertà dell’uomo, anche in questo caso, risiede nella cultura. Addirittura possiamo ipotizzare che sia tanto più ampia quanto più numerose sono le parole di cui disponiamo per rappresentare noi stessi e la sfera in cui operiamo. Nel romanzo “1984” di George Orwell chi gestiva il potere voleva lasciare agli uomini solo 300 parole, ma c’è chi ci prova anche oggi: al di là dei tentativi nostrani di abolire i generi, fortunatamanete “bocciati” dall’Accademia della Crusca, ma ahimé portati avanti persino nelle istituzioni – comunicazioni ufficiali dell’università di Bologna recano rigorosamente la schwa o l’asterisco per riferirsi ai cittadini (“car* cittadin* e nefandezze linguistiche simili), una proposta di legge americana avrebbe voluto bandire dai test scolastici di maturità nello stato di New York termini come divorzio (perché a detta degli amministratori susciterebbe angoscia), dancing (ecciterebbe troppo), dinosauro (termine evoluzionista che può urtare la sensibilità dei creazionisti). Il 50 % dei figli americani ha un divorzio in casa, abolire la frequenza del termine significherebbe ridurre le possibilità offerte alla mente di elaborare le emozioni legate a quell’evento, a quel nodo emotivo; in buona sostanza, significa cominciare a “decostruire” l’individualità, la soggettività, l’intelligenza, la capacità di attivarsi, alla fine la libertà di chi ha un divorzio nella sua vita o vi assiste.
Infine, ancora a proposito di linguaggio vorrei ricordare alcune esperienze di senso comune. Spesso si sente dire che il tedesco è la lingua dei filosofi: come può non favorire il pensiero, la riflessione, il controllo una lingua in cui devi avere già in mente tutta la frase in anticipo, in cui occorre collocare il participio passato del verbo alla fine e strutturare tutto il periodo spostandone gli elementi proprio per seguire quel participio? La lingua tedesca separa e definisce i generi inserendone un terzo, il neutro; mette le maiuscole ai sostantivi degli oggetti dando loro singolarità e importanza; rende i sostantivi e gli aggettivi compartecipi dell’azione declinandoli, così che ogni parola sia “cosciente” di ciò che sta facendo l’altra nella frase. Insomma, una lingua così non può che costringere a una mente che opera “differenziando” l’oggetto singolo e facendolo spiccare nel caos, che vuol con precisione “catalogare e collocare” le cose del mondo, operando secondo le modalità di categorizzazione tipiche della “mente occidentale”.
Il francese, si dice romanticamente e un po’ stereotipicamente, è la lingua dell’amore…In esso si presenta il pensiero di Jacques Lacan, il teorico dell’inconscio strutturato come linguaggio e sostanziato dai significanti. Il grande psicoanalista creò e inventò la parola “lalangue” inserendo in essa la lallazione, quei primi vocalizzi che il bambino emette per gioco, facendo lalà, mettendo in uso l’apparato della fonazione, dolcemente solleticato dal facile arrotolarsi della lingua sul palato, per il semplice piacere dell’esercizio libidico di funzioni. Ci pensate? Il linguaggio, nell’ontogenesi del “padre dell’uomo”, che è poi il bambino, nasce per gioco.
Il portoghese sensuale si strascica e indugia. E come sanno gli amanti dei capolavori di Andrea Camilleri, anche l’italiano del sud ha caratteristiche spiccate: sa subito di mare, per via di quelle tante “s” e “c” e “sc”, di quel suo appoggiarsi sulle vocali rotonde, di quel mangiarsi le consonanti rinunciando per esempio allo sforzo della t per appoggiarsi alla facilità della d, della sua ritmica pausata, di quello scivolare tra le labbra impreciso e lucido come un pesce.
Potremmo continuare all’infinito per tutte le lingue del mondo, dimostrando così quanto nel linguaggio la forma sia, già, evocatrice o portatrice di contenuto. Come ogni contenitore essa vizia e sostanzia, vincola insomma ciò che contiene.
Viola Di Grado è scrittrice che più d’altre s’interessa alla parola, facendone un’estasi e un problema. La sua visione della lingua è illuminata dalla femminile consapevolezza di quanto l’acquisizione di questa dipenda dal rapporto tra madre e figlia, di quanto il “tradimento” materno della possibilità che il bambino ha di “nominare” correttamente i suoi sentimenti, di evocare gli enti che vuole raggiungere senza vedersi travisato, sviato o distratto, possa essere nefasto per tutto il suo futuro.
La madre è un anello nella catena di trasmissione dei significanti e delle norme della società: dunque è quest’ultima, in definitiva, a imbavagliare il soggetto così come lo imbavaglia la società, secondo l’Autrice.
Se le prime parole apprese sono distorte rispetto ai loro significati, anche le frasi lo saranno. Esse costruiranno discorsi fallaci e visioni del mondo tragicamente lontani dalla realtà degli eventi e dei sentimenti. Il pensiero finirà per tradire la stessa persona che lo pensa, opererà contro di lei e le si rivolterà contro.
“A Grosnover Road parlare è contronatura, le parole escono storpie, con troppe vocali o troppe consonanti. Rimbombano nell’aria con un peso vergognoso, sparpagliano significati in più, significati che non meritano” (da “Settanta acrilico trenta lana”).
Anche quando la madre non lo abbia tradito volontariamente, essa ha comunque travisato la sensibilità del piccolo, ignorando gran parte della vita interiore di lui: una parte destinata a rimanere in ombra e per la quale, di fatto, non vi saranno mai parole.
Per le protagoniste dei romanzi di Di Grado la parola nuova, sia essa derivata dall’apprendimento di una lingua lontana come il cinese o dall’uso ideosincratico di suoni e posizioni anomale delle parole nella frase, è un’occasione di libertà. Facendola suonare in modo diverso per via dei rimandi e delle assonanze che crea con gli altri termini nel discorso, scegliendola in maniera autentica e non scontata, la parola che pur conosciamo finisce per riacquisire il suo senso grazie alla sorpresa, ed è come avessimo ritrovato qualcosa che avevamo perduto da tempo.
Per l’artista la lingua materna nella sua forma abituale non è sufficiente, bisogna romperla, occorre distruggerne le regole al fine di accedere a forme finalmente capaci di accogliere il dolore, la rabbia, l’incantamento per il mondo. Grazie alle forme create egli può rinverdire il contatto suo e del lettore con la cosa rappresentata. E’ così che avviene l’epifania, la palingenesi di sé e della realtà. Rinominare il mondo, è questo il suo potere: “Questo momento deve assolutamente avere un nome. Così poi faccio come coi cani, lo chiamo e torna da me. Lo chiamo l’inizio dell’anno zero”, si dice in “Settanta acrilico trena lana”. E’ come se l’artista possedesse una magia in grado di tornare al momento originario in cui avvenì il suo primo contatto d’infante con gli elementi e di riscriverlo. D’altronde, la posta in gioco è alta: si tratta, per citare Massimo Recalcati nel suo saggio “Il miracolo della forma”, di riuscire a “soggettivare ciò che ci assoggetta”. Di vincere, cioè, la battaglia con l’jndicibilità di ciò che si ha dentro, di dargli una struttura e di farlo nascere alla coscienza.
Di Alessia Vignali per ComeDonChisciotte.org
09.09.2024
Alessia Vignali, psicologa, psicoterapeuta, psicoanalista e giornalista.