LA NATIVITA' DEL BUDDHA A LADAKH

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DI ISRAEL SHAMIR
The Truthseeker

Un lungo serpente scendeva velocemente dalla montagna: centinaia di monaci correvano lungo un sentiero lastricato curvo dal monastero posto in cima verso i vasti terreni di polo a valle, dove l’intera popolazione di Leh si era riunita per celebrare la Nascita del Budda. Monaci forti e muscolosi dai copricapo gialli e dalle vesti color arancione erano accompagnati da contadini, popolazione cittadina, monelli di ogni genere, macchine e bestiame. I terreni di polo con bandiere e ghirlande, personaggi importanti seduti su una lunga tribuna elevata e artisti messi in fila ricordavano una tipica festa del Primo Maggio in un paese di provincia sovietico, benché ci fossero dei Lama al posto dei dirigenti di partito. In realtà, il Tajikistan (ex-sovietico) non è distante da qui – appena oltre le impraticabili montagne, giacchè Leh, la città capoluogo del Ladakh, si trova nella parte superiore del fiume Indo, tra l’Himalaya e l’Hindu Kush, stretta tra Tibet e Kashmir, confinante con Cina e Pakistan, in prossimità di Afghanistan e Tajikistan. La gente del luogo è appassionata di equitazione, così che per loro il gioco del polo non è un’invenzione straniera, ma piuttosto un gioco originario del posto. In realtà, i britannici lo hanno appreso nei pendii meridionali dell’Himalaya, e più tardi costruirono campi da polo in tutto l’Impero.

Una volta, Leh era un luogo importante lungo una strada importante, ma questo fu molto tempo fa. Oggi il Ladakh appartiene all’India come parte dello Stato di Jammu e il Kashmir è la sua regione più remota. A causa della chiusura del confine con la Cina e il Pakistan, Leh è isolata da frontiere, soldati, fiumi e montagne. In inverno, il Ladakh è praticamente isolato dal resto del mondo. La strada dal Kashmir al Ladakh è stata aperta a maggio e sarà chiusa nuovamente alla fine di settembre. Attraversa maestosi passi dai nomi romantici: Zoji-La, Namika-La, Fatu-La, che evocano Shangri-La, oltre le montagne dalle cime innevate. Raggiungere il Ladakh dal Kashmir è un’esperienza spaventosa – il passo di montagna di Zoji-La atterrisce al punto da spingere ogni ateo a recitare una preghiera. C’è un’immagine della Vergine accanto a quella del Buddha e a un mihrab islamico in cima al passo, e tutti sono ben frequentati da viaggiatori grati. Ciò nonostante, i passi sulla seconda strada per l’India, la strada Manali, sono a quanto si dice perfino peggio, sebbene venga da chiedersi se questo sia mai possibile.

Ladakh, questo deserto vasto, ghiacciato e scarsamente popolato, ricorda nel suo aspetto il Sinai meridionale, una terra brulla con montagne alte ed enormi basi militari, misericordiosamente animata da templi e monasteri. Ci sono alberi in pochi punti delle valli del fiume, ma per il resto questa terra è spoglia. I villaggi del Ladakh sono minuti e alquanto piacevoli. Hanno meravigliose case sontuose con affreschi colorati sulle pareti. Una volta il Ladakh era governato dal suo proprio re, ma non è più così. Il palazzo reale è passato nelle mani del governo. Ora la regina, la vedova dell’ultimo re, vive in una comune casa a un’ora di viaggio dalla capitale Leh.

Ho visitato alcuni monasteri in questo paese buddista remotissimo con un’altitudine media di 3.000 metri. Anche se le religioni differiscono, il bisogno dell’uomo di essere in comunione con Dio rimane una costante. I buddisti – come i cristiani ortodossi – si esercitano al fine di raggiungere questa unione perfetta con Dio; la chiamano Illuminazione mentre noi la chiamiamo theosis o deificazione. I loro monasteri sono colmi di icone che chiamano tanka. I loro canti notturni iniziano nel momento in cui i monaci del Monte Athos iniziano la loro preghiera mattutina, e durano molto, molto a lungo. Ci sono anche delle differenze: seppure ammiriamo e veneriamo i nostri maestri spirituali, non adoriamo mai una persona vivente come fanno loro. Ci sono più foto del Dalai Lama nei monasteri di quanti ritratti di Stalin o Mao ci furono in Russia e Cina. Per rendere saldo il paragone, esistono anche copie della sua raccolta di opere in molte lingue.

Un tempo c’erano molti monaci e monasteri; enormi rilievi del Buddha abbelliscono ancora il paese, così come i loro muri mani fatti di pietre piatte ritualmente incise. Ma l’attrattiva del monachesimo si è affievolita in modo notevole. Io stavo a Lamayuru, uno dei più grandi monasteri del Ladakh. È un vasto complesso con dozzine di case e stupa, grandi e piccoli – ma c’era solamente un monaco residente. Mi dissero che pochi altri erano sparsi per la zona, aiutando con il raccolto e insegnando ai bambini. Nei tempi passati, i monaci istruivano i bambini in una scuola del monastero. Ora il governo indiano fornisce scuole, per cui i bambini non devono andare ai monasteri, anche se i monaci seguitano a insegnare. Ciò nonostante, il tasso di alfabetizzazione qui è al di sotto del 25%, mentre nel confinante Tibet è al 95%. Inoltre il Tibet è accessibile durante tutto l’anno anche in treno, mentre il Ladakh non lo è.

Il Ladakh è un buon posto per iniziare a capire il problema tibetano, dato che anche il Ladakh fa parte del Tibet e gli abitanti del posto sono parenti dei Tibetani. Ladakhi e Tibetani si comprendono quasi nella stessa misura in cui le persone di parti differenti del Ladakh si capiscono l’uno con l’altro.

C’è una differenza importante: non sentiamo mai nessuna cattiva notizia dal Ladakh, anche se la loro situazione è piuttosto simile. Entrambi non sono indipendenti. Mentre il Tibet appartiene alla Cina, il Ladakh fa parte dell’India. Mentre denaro e affari in Tibet sono principalmente nelle mani dei cinesi, nel Ladakh business, commercio, alberghi, turismo sono in mani indiane, soprattutto kashmire. I motivi per il trattamento differente stanno altrove: l’India è più accondiscendente con l’Occidente che la Cina, ed è per questo che la Cina viene attaccata. Se l’India dovesse diventare altrettanto ‘testarda’, sentiremmo presto parlare anche di Ladakhi maltrattati.

I popoli del Ladakh e del Tibet hanno certamente i loro problemi, ma questi sono in maggior parte dovuti al “progresso” – lo Stato (Cina o India) ha assunto il ruolo una volta svolto dai monasteri. Oggi, è lo Stato che ripara le strade, dirige le scuole e raccoglie le tasse, e non i monasteri. I monasteri hanno perso la loro posizione di signori feudali. Naturalmente i monaci non ne sono felici; ma lo stesso si può dire in Francia o in Russia: anche là, i monaci vorrebbero tornare a tempi meno frenetici. Il Tibet è semplicemente l’unico posto da dove i media occidentali ci riportano l’opinione dei monaci come una opinione valida piuttosto che come una curiosità.

Gli abitanti del luogo non hanno capitale, conoscenze o esperienza sufficienti per competere con gli indiani e i cinesi in commercio e affari. La cultura indigena viene erosa dalla globalizzazione sia in Tibet che nel Ladakh (come lo è a casa vostra), ma solo in Tibet lo sentiamo chiamare “genocidio culturale”.

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Su un muro nel Ladakh ho notato questo adesivo attaccato a un … cartello della Pepsi Cola, apparentemente l’esatto opposto del “genocidio culturale”. Effettivamente l’attacco attuale alla Cina a causa del suo “genocidio culturale” in Tibet è una cinica manipolazione mediatica. In realtà i Tibetani stanno meglio in Tibet che non i Ladakhi nel Ladakh, e con la fine del comunismo anche questa motivazione è svanita.

Se mai il Tibet diventerà indipendente, è probabile che strapperà i territori indiani del Ladakh e del Himachal Pradesh, dato che la popolazione del luogo è imparentata con i Tibetani e unita al Tibet da sangue, matrimoni, costumi, lingua e religione. Questo è un argomento forte contro il dare troppo appoggio alla causa tibetana: i cambiamenti dello status quo sono sanguinosi e violenti e sono solitamente collegati con la pulizia etnica.

I Tibetani nel Himachal Pradesh e nel Ladakh si autodefiniscono ‘rifugiati’, ma dopotutto vivono in stretta prossimità alle loro vecchie case, tra i loro cugini e per scelta propria. Sono rifugiati quanto gli Irlandesi a Liverpool. Dovrebbero prendere una decisione: ritornare in Tibet o essere naturalizzati in India. Apparentemente entrambe le possibilità sono aperte per loro. Il Tibet cinese non è un posto atroce di camere di tortura comuniste, e possono ritornarvi senza temere per la propria vita. Invece prendono soldi dalla CIA per devastare i muri di Leh con i loro brutti slogan anticinesi e con la loro scadente propaganda in inglese indirizzata ai turisti stranieri. Ho chiesto ad alcuni rifugiati Tibetani: ritornerebbero in Tibet? Si, torneremmo, dicevano, se anche il Dalai Lama tornasse, e questo con ogni probabilità non accadrà molto presto.

I Tibetani sono solo un gruppo etnico fra tanti che vivono nell’area. La loro indipendenza porterebbe altri piccoli gruppi a rivendicare la propria indipendenza, come è successo nel caso più recente di Georgia e Ossezia. Effettivamente, se i Kartveli [la maggiore etnia georgiana n.d.r.] possono diventare indipendenti dalla Russia, perché l’Ossezia non può diventarlo dalla Georgia? Se c’è la possibilità che i Tibetani diventino indipendenti dalla Cina, perché i Ladakhi non possono diventare indipendenti dall’India? La promozione dell’‘indipendenza nazionale’ è un gioco mortale, lo è sempre stato, ed è meglio fermarlo.

Lasciate che i Tibetani e i Ladakhi preghino nei loro monasteri e migliorino la propria vita, lasciate che il Dalai Lama concentri i suoi sforzi sui veri scopi buddisti, ad esempio cercare il Nirvana, lasciando i sogni di piena indipendenza culturale (figurarsi quella politica) dove appartengono – nel Regno dei Sogni.

Titolo originale: “Buddha’s Nativity in Ladakh”

Fonte: http://www.thetruthseeker.co.uk
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23.08.2008

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di KARIN LEITER

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