DI JAMES K. GALBRAITH
Fonte: my.firedoglake.com
Trascrizione, con il gentile permesso
dell’autore, del discorso di apertura di James K. Galbraith al quindicesimo
congresso annuale “Dijon” sull’economia post-keynesiana, alla
Roskilde University presso Copenhagen, Danimarca, il 13 maggio 2011.
È per me ovviamente un grande privilegio
essere qui in questo ruolo e specialmente in occasione del settantacinquesimo
anniversario della pubblicazione della Teoria Generale.
Due anni fa, come forse ricorderete,
la nostra professione godette di un momento di fermento. Economisti
che si erano costruiti la carriera sull’attenzione all’inflazione,
le aspettative razionali, gli agenti rappresentativi, le ipotesi di
efficienza dei mercati, i modelli dinamico-stocastici di equilibrio
generale, le virtù della deregolamentazione e delle privatizzazioni
e della Grande Moderazione, furono costretti dagli eventi a tacere temporaneamente.
Il fatto di aver avuto torto in modo assurdo, cospicuo e in alcuni casi
addirittura riconosciuto, impose persino un po’ di umiltà ad alcuni.
Un intellettuale statunitense di vertice in politica legale, compagno
di viaggio della Scuola di Chicago, annunciò la sua conversione al
keynesismo come se fosse una notizia.
L’apogeo di tale momento fu la pubblicazione
sull’edizione domenicale del New York Times del saggio di Paul Krugman
‘Come gli economisti si sono sbagliati’. E in esso, ho notato, Krugman
ha ammesso, cito, che:
“… alcuni economisti hanno contestato
l’assunto del comportamento razionale, messo in discussione il credo
che ci si possa fidare dei mercati finanziari e additato la lunga storia
di crisi finanziarie che hanno avuto conseguenze economiche devastanti.
Ma nuotavano controcorrente, incapaci di fare molti passi in avanti
contro una pervasiva e, in retrospettiva, stupida compiacenza.”
E devo dire, guardando a questo uditorio,
che sarebbe corretto essi sono stati più che soltanto alcuni ed
è un piacere essere con voi.
Attenendosi alla prassi convenzionale,
Krugman non ha fatto il nome di quasi nessuno. Perciò, in un saggio
di risposta intitolato ‘Chi erano, comunque, quegli economisti?’
ho descritto il lavoro dimenticato, ignorato e negato della seconda
e terza generazione largamente nella tradizione, anche se non interamente,
di Keynes che l’ha detta giusta. Avrei potuto citare molti più di
quanto ho fatto, compresi molti in questa sala.
Permettetemi perciò di cominciare
distinguendo tra i tre principali indirizzi del pensiero keynesiano
che in effetti hanno visto giusto, che hanno avuto rilievo e applicazione
negli eventi attraverso i quali siamo appena passati. E onorerò gli
amati e ben ricordati identificando questi indirizzi con Wynne Godley,
Hyman Minsky e Galbraith padre.
Godley, ovviamente, ha lavorato nella
tradizione di Keynes, Kuznets, Kalecki e Kaldor dei modelli macroeconomici
attenti alle identità contabili del reddito nazionale e alla coerenza
tagli le disponibilità e i flussi. Il merito di questo approccio sta
nella chiarezza e una relativa assenza di ambizioni esagerate. Modelli
di questo tipo non dicono nulla di falso, il che può non sembrare molto,
ma è un vantaggio enorme rispetto alla posizione di partenza dell’economia
convenzionale che consiste in nulla di vero. E i modelli indirizzano
a controllare se le affermazioni di fatto hanno senso considerato tutto
ciò che esse possono implicare.
Così, che i surplus federali del bilancio
degli Stati Uniti degli ultimi anni ’90 implicassero debiti privati
insostenibili era chiaro all’epoca a coloro che lavoravano in questa
tradizione. Così come il fatto che il carico del debito delle famiglie
era, di nuovo, insostenibile era chiaro nel primo decennio del 2000.
Di nuovo, forse non sembra molto, perché è semplicemente un argomento
radicato nella contabilità del reddito nazionale, fino a quando non
si ricorda che la politica in un paese come gli Stati Uniti è fortissimamente
influenzata dalle previsioni macroeconomiche di istituzioni quali l’Ufficio
del Bilancio del Congresso che non impongono tali limiti di coerenza
ai loro modelli e non controllano per verificare se le previsioni in
un settore implicano conseguenze ragionevoli e plausibili in un altro.
Per questo motivo, molto di tale lavoro è sostanzialmente privo di
senso.
Hyman Minsky ha sviluppato un’economia
dell’instabilità finanziaria, dell’instabilità alimentata dalla
stabilità stessa, conseguenza intrinseca dell’eccesso di sicurezza
combinato con l’ambizione e l’avidità. L’approccio di Minsky,
molto diverso da quello di Godley, è concettuale piuttosto che statistico.
Un suo merito chiave sta nell’aver posto la finanza al centro dell’analisi
economica, analiticamente inseparabile da quella che a volte viene definita
l’attività economica reale, per il semplice motivo che le economie
capitaliste sono gestite dalle banche. E, ovviamente, la sua seconda
grande intuizione riguarda le dinamiche delle transizioni di fase: il
famoso movimento dalla posizione limite alla posizione speculativa e
posizione insostenibile destinata al collasso della catena di Sant’Antonio
che emerge dall’interno del sistema ed è soggetta concretamente alla
formalizzazione nelle instabilità endogene dei modelli dinamici non-lineari.
Comprendere Minsky, mi pare, significa
andare immediatamente oltre il concetto grossolano del “momento-Minsky”,
un concetto che implicati falsamente che ci siano anche momenti non
–Minsky. Significa riconoscere che il sistema finanziario è sia necessario
sia pericoloso, che una regolamentazione finanziaria severa è sia indispensabile
sia imperfetta. Immediatamente l’idiozia della “Grande Moderazione”
diviene evidente. Così come nel caso di una qualsiasi macchina, da
un’automobile a un reattore nucleare, un lungo passato di prestazioni
stabili non prova che i controlli e i sistemi d’emergenza siano perfetti
più di quanto possa dimostrare che non sono necessari. Sostenere il
contrario, che sia da parte del capo della banca centrale o di un richiedente
la proroga di una licenza alla Commissione per la Regolamentazione del
Nucleare, è il marchio del fanatico.
La linea di Galbraith è alleata
di quella di Keynes, e ne discende, nello stesso senso in cui lo fu
il lavoro di mio padre; accettazione del ruolo centrale della domanda
aggregata effettiva, della contabilità del reddito nazionale,
della visione della vita economica in termini di circuito del credito
e dell’ipotesi dell’instabilità finanziaria. Ma è anche inserita
in un quadro di istituzioni legali, radicato nel pragmatismo, disegnato
da Thorstein Veblen e John Commons, forgiato nell’economia politica
del New Deal degli Stati Uniti. Questa tradizione enfatizza il ruolo
giocato nelle crisi finanziarie dall’infrazione alla legge e dalla
mancanza di autorità e di regolamentazione, e il ruolo giocato dalla
tecnologia come strumento nelle mani della finanza al fine di infrangere
ed eludere la legge.
Oggi voglio sottolineare questo, e
non solo per motivi famigliari, perché ritengo resti la meno familiare
delle tre, direi, ampie linee di analisi keynesiane che sono più
appropriate per una comprensione di ciò che abbiamo passato e che stiamo
ancora passando.
Quando ci si intrattiene con chi segue
il pensiero prevalente per quanto riguarda la contabilità del
reddito nazionale, almeno si tratta di persone che sanno in che cosa
consista la dannata faccenda. E in questi giorni, anche se chissà per
quanto a lungo, si può sentir rispettosamente menzionato Minsky persino
da gente come Larry Summers, anche se senza segni che lo abbia effettivamente
letto.
Quella che non si riesce a ottenere
– non in una riunione sponsorizzata dal Fondo Monetario Internazionale,
non dai partecipanti all’Istituto per il Nuovo Pensiero Economico
– è una discussione seria della legge e delle frodi contrattuali.
Ci ho provato, ripetutamente. Nessuno nega, in risposta alla domanda,
il ruolo che la frode ha giocato nella crisi finanziaria. Come potrebbe?
Ma nemmeno nessuno vuol discuterne. E a me sembra che ciò rifletta
una logica che merita di essere indagata.
Perché no? Perché questo
è uno dei grandi argomenti tabù della nostra storia economica
moderna? Beh, la complicità personale, francamente, gioca un ruolo
tra i dirigenti governativi di oggi e di ieri, i regolatori, consulenti
e accademici che hanno consigliato e i protagonisti del mercato o coloro
hanno incassato provvigioni da chi sul mercato ha operato.
Al congresso dell’INET [Istituto
per il Nuovo Pensiero Economico] a Bretton Woods, qualche settimana
fa, Summers ha affermato di essere (è stata una splendida frase) …
di non essere tra coloro che considerano necessariamente le innovazioni
finanziarie come il male. Mi sono preso nota, sentendolo affermare ciò;
ho pensato che davvero meritasse una citazione.
C’è una rete di negligenza e complicità
lì. Di colpevolezza, accusa che è legittimata dal modo in cui le università
sono finanziate e da quel che insegnano.
Ma è più di questo. Permettetemi
di inquadrare la cosa in termini più astratti. Direi che la merce
è la pietra angolare dell’economia convenzionale. Che la teoria
dello scambio richiede la mercificazione di manufatti scambiabili. Senza
di ciò non vi è offerta e domanda. Un mondo di contratti, ciascuno
basato su un insieme distinto e separato di promesse, ciascuno di un
valore pari agli impegni specificamente previsti e alla capacità delle
leggi e dei tribunali di farli rispettare è un tipo di mondo diverso.
Soltanto perché si attribuisce un nome a un insieme di tali contratti
(“obbligazioni assistite da collaterale” o “copertura inadempienze”
[‘credit default swaps’, CDS]) e soltanto perché si è in grado
di creare qualcosa – si potrebbe anche essere in grado di creare una
borsa per trattare questi prodotti – ciò non lo rende merci con un
prezzo di mercato credibile.
Qui è la complessità quella
che sconfiggerà il mercato con, in linea di principio, una variabilità
infinita e, in pratica, con un numero di caratteristiche distinte superiore
a quello che si può dominare. Nei grandi volumi, contratti di questo
tipo sono di per sé vulnerabili alle frodi. Gli esempi spaziano dalla
compagnia telefonica del New Jersey che semplicemente stampa sulle bollette
spese inventate nella speranza che nessuno le noti, e per molto tempo
nessuno le ha notate, al fatto che quasi nessuno presso il gigante assicurativo
AIG si è reso conto che i contratti CDS che la società vendeva contenevano
una clausola di collaterali di cassa, qualcosa che sarebbe costato milioni
alla società in un momento in cui non aveva accesso alla liquidità.
Spaziano da clausole elusive che permettono ai gestori di obbligazioni
con collaterale debitorio (CDO) di sostituire mutui peggiori a mutui
migliori in pacchetti venduti in precedenza senza informarne gli investitori,
al Sistema di Registrazione Elettronica dei Mutui e al dilagante incentivo
alle frodi documentali nella procedura di pignoramento.
L’ammissione che la frode è stata
presente in questo processo è simile all’espressione “momento-Minsky”.
Anche se vera e anche se ammette qualcosa, non inizia neppure a esaurire
il caso. Persino dire che le frodi hanno schiacciato il sistema non
va abbastanza in là.
Vi raccomando fortemente, se non l’avete
già fatto, di leggere il Rapporto della Commissione d’Inchiesta sulla
Crisi Finanziaria appena pubblicato negli Stati Uniti, o l’ancor più
recente rapporto del Comitato Permanente d’Indagine del Senato, il
molti rapporti del Gruppo di Supervisione del Congresso e il rapporto
dell’Ispettore Generale Speciale del Fondo per il Soccorso agli Attivi
Problematici (SIGTARP). Sono, per inciso, documenti molto, molto buoni,
preparati da pubblici dipendenti seri ed è chiaro come il sole: la
frode non è stata un baco del sistema, ne è stata una caratteristica.
Il termine stesso, insieme con abusivi, enormi, sconsiderati e persino
criminogeni, soffonde questi resoconti di ciò che è accaduto.
I seguaci di Godley insegnano che le
scorte non possono essere separate dai flussi. I seguaci di Minsky insegnano
che la finanza non può essere separata dalla realtà. E la tradizione
di mio padre è che la legalità e la tecnologia non possono essere
separate. Il mondo finanziario, così com’è, non ha nulla a che fare
con il mondo delle merci dell’economia dello scambio con il suo delicato
equilibrio di forze interagenti. E’ il mondo della tecnologia all’opera
sotto forma di una produzione quasi in serie di documenti legali di
complessità incontrollabile. E’ il mondo, in altre parole, della
specializzazione evolutiva in una danza infinita del predatore e della
preda. In natura, quando i predatori conseguono un vantaggio schiacciante,
le prede subiscono un crollo della popolazione, del quale i predatori
soffrono a loro volta successivamente. In economia si tratta di crolli
finanziari, ma le dinamiche sono sostanzialmente simili.
La frode da parte delle imprese non
è una cosa nuova; la frode finanziaria non è una cosa nuova.
Ciò che qui è stato nuovo sono state la scala e la complessità
delle obbligazioni debitorie, garantite da mutui. I mutui non sono la
stessa cosa, diciamo, delle azioni ordinarie che, anche se emesse a
milioni, sono, ciascuna, un diritto identico sul patrimonio netto di
una società. I mutui sono, ciascuno, un diritto sul flusso di entrate
di famiglie diverse, garantite da abitazioni di una diversità resa
irriducibile dal semplice fatto che ciascuna di esse si trova in un
luogo diverso. I mutui a lungo termine esistono, negli Stati Uniti,
sin dal New Deal ma sono stati resi gestibili per decenni dalla loro
semplice struttura uniforme, dal loro sostanziale margine di sicurezza
e dal fatto che i mercati secondari erano pubblici e imponevano standard
a ciò che poteva essere emesso e a ciò che poteva essere trasferito
agli organismi creati per rifinanziare tali mercati. E ciò che questo
ha significato è stato che il controllo era possibile. E’ potuto
esserci un codice ben accettato che stabiliva quel che era giusto e
quel che era sbagliato da parte dei professionisti che comprendevano
l’etica della cosa e dei dirigenti addetti ai controlli che potevano
collaborare con essi in modo abbastanza agevole, per la maggior parte,
e intervenire quando venivano alla luce abusi.
Nell’era dei computer, invece, siamo
entrati nel mondo di cartolarizzazioni etichettate dai privati, della
possibilità di ammortamenti negativi, di mutui a tasso variabile con
un ricarico a copertura dell’anticipo. Oh, e documentazione facoltativa!
C’era un vocabolario privato, ben
noto nell’industria, che riguardava questi finanziamenti e i relativi
prodotti finanziari: prestiti ai bugiardi, prestiti NINJA (i debitori
non avevano reddito, né lavoro, né beni), prestiti al neutrone (prestiti
che sarebbero esplosi distruggendo le persone ma lasciando intatti gli
edifici), rifiuti tossici (il residuo del processo di cartolarizzazione).
Suggerisco che questo riveli che coloro che vendevano questi prodotti
sapevano o sospettavano che il loro tipo di lavoro non era onesto neppure
per l’un per cento. Pensate a un ristorante dove il personale si riferisce
al cibo come a immondizia, melma e liquame.
È da apprendere, come facciamo dall’eccellente
libro di Bethany McLean e Joe Nocera ‘All the Devils are Here’ [Tutti
i diavoli stanno qui] che presso il creatore dominante dei mutui negli
Stati Uniti, Ameriquest, i capi degli uffici nutrivano gli addetti alle
vendite a base di meta-amfetamine in cristalli per tenerli all’opera.
La cosa aggiunge un tocco di dettaglio significativo, così come il
fatto che il fondatore di Ameriquest ha finito la carriera come ambasciatore
degli Stati Uniti in Olanda.
Rendere comparabili tali complessi
e innumerevoli strumenti debitori richiede un approccio statistico basato
su indicatori. E ciò ci getta in un mondo che non era immaginabile
nel, diciamo, 1927. Il mondo dei punteggi creditizi, delle valutazioni
e degli algoritmi, un mondo di strumenti derivati e super-derivati di
obbligazioni supportate da mutui residenziali sminuzzati, di obbligazioni
con collaterale debitorio, di CDO sintetiche, di CDO sintetiche pareggiate,
di CDS [credit default swaps – in pratica assicurazioni sul rischio
di insolvenza – n.d.t.], tutti costruiti in modo da garantire la famosa
tripla A e da piazzare strumenti che, tanto per cominciare, erano contraffatti;
sembravano mutui ma non erano realmente mutui. Riciclati, cioè, trasformati
dall’immondizia che erano in obbligazioni da tripla A e ricettati,
vale a dire venduti sul mercato degli investimenti legittimi da un intermediario
chiamato banca commerciale o banca d’investimenti. Per mettere questi
strumenti contraffatti, riciclati e ricettati nella mani del mercato.
E chi era il mercato? Michael Lewis, nel suo ‘The Big Short’ [Il
grande ammanco] ci dice chi era il mercato. Il mercato aveva un nome
nell’industria; usavano dire “a chi vendiamo questa roba?”. E
la risposta era: “A Duesseldorf”. [Probabile gioco di parole sul
doppio significato di ‘mark’, qui tradotto con ‘mercato’ che
sta anche per ‘marco tedesco’ – n.d.t.]
Lo studioso di economia istituzionale,
Clarence Ayres, (per portarvi una voce dal mio luogo natale ad Austin,
Texas) ha sottolineato con la massima forza il ruolo della tecnologia
e il contributo irreversibile dei nuovi strumenti al processo produttivo.
In finanza, a me pare, lo strumento è l’algoritmo. Un sostituto radicalmente
a buon mercato delle procedure di collocamento, un meccanismo per convertire
gli utili finanziari in un casinò computerizzato, in senso stretto,
in cui nessuno può essere certo di quanto la casa distorca le regole.
Ci siamo limitati a osservare, come ho già citato, che nessuno alla
sezione Prodotti Finanziari della AIG sapeva delle clausole di collaterale
liquido in tali contratti, che i detentori di CDO sintetiche non sapevano
che i mutui solvibili venivano sostituiti da mutui peggiori, che i modelli
di valutazione non consideravano il rischio di insolvenza quando i mutui
venivano perfezionati con due anni iniziali di tassi allettanti e via
di seguito.
Keynes, penso, comprese molto bene
questi problemi nella misura in cui, nella sua epoca, entrarono da protagonisti
attivi nei mercati speculativi. E ciò lo portò a sostenere che tali
mercati dovessero essere limitati, di accesso costoso e limitati a coloro
che potevano permettersi di giocare e perdere. Non riteneva che dovessero
essere interamente repressi, in parte perché vi speculava e in parte
perché, come notoriamente disse, è meglio che un uomo sia tiranno
riguardo al suo conto in banca piuttosto che nei confronti di altri
uomini. Ma in termini keynesiani, a me pare, ciò che ci ritroviamo
dopo il crollo finanziario non dovrebbe essere affatto una sorpresa.
Vale a dire che l’incapacità dell’economia mondiale, e particolarmente
delle economie finanziarizzate dell’Europa e del Nord America, di
riprendersi da questa crisi è un prodotto del carattere della crisi
stessa. Assoluta sfiducia che porta a una preferenza assoluta per la
liquidità è la conseguenza incurabile, a me pare, della frode finanziaria.
Io dico ‘incurabile’. E’ la diagnosi
di una malattia irreversibile. La corruzione e il collasso dello stato
di diritto, nella sfera finanziaria, sono fondamentalmente irreparabili.
Non è solo il fatto che ripristinare la fiducia richiede molto tempo.
E’ che nel nuovo ordine tecnologico in questo campo, la cosa non può
essere fatta. Le tecnologie sono progettate per seminare e promuovere
la sfiducia ed essa è la conseguenza del loro utilizzo. A me pare che
la recente esperienza lo dimostri. E perciò non può esserci ritorno
al modo in cui stavano le cose in precedenza. In altre parole, siamo
alla fine dell’illusione di un mercato nella sfera finanziaria.
Permettetemi di condurre questa analisi
momentaneamente in Europa. In questi giorni parliamo per luoghi comuni
della crisi greca, della crisi irlandese, della crisi portoghese e così
via, come se si trattasse di eventi finanziari distinti. Ciò rafforza
l’impressione che ciascuna possa essere risolta mediante accordi appropriati
con i creditori, con quartier generale a Francoforte, Bruxelles, Berlino,
Parigi e con i debitori presi uno alla volta. Un buon comportamento,
nella forma di un’austerità appropriata, sarà ricompensato con un
ritorno a normali condizioni di credito e all’accesso al mercato.
Questo, almeno, è l’assunto ufficiale. Il mercato finanziario, in
questo immaginario, è severo ma equo, abbatte la sua frusta sui dissoluti
ma elogia e premia chi si comporta bene.
Ma che la Grecia abbia un sistema fiscale
debole e una grande amministrazione pubblica, è difficile dire
che sia una novità. E’ un fatto vero da decenni, trascurato nei tempi
buoni e che emerge quando conviene. Che l’Irlanda abbia avuto una
bolla immobiliare che era intrinsecamente insostenibile sicuramente
non era una novità. Lo shock iniziale all’Europa non è venuto dalla
scoperta di questi fatti, è venuto dai mercati statunitensi dei mutui.
Quando le banche europee e altri investitori si sono resi conto della
misura delle proprie perdite, a cominciare dalla fine del 2008, hanno
cercato modi per proteggersi e lo hanno fatto come avrebbe fatto qualsiasi
investitore sensato, vendendo le attività deboli e acquistandone di
solide: obbligazioni tedesche e francesi e soprattutto titoli del Tesoro
statunitensi. È per questo che i rendimenti sono saliti in tutti i
piccoli paesi periferici e sono scesi in quelli grandi, nonostante le
situazione molto diverse nei paesi che erano stati colpiti duramente.
È ovvio che la Grecia non può attuare
il programma che le viene richiesto senza far crollare il proprio PIL
e accrescendo perciò il suo rapporto debito/PIL. Ma anche se potesse,
un qualsiasi evento che colpisse una nazione europea o, quanto a questo,
qualsiasi altro paese al mondo, potrebbe far nuovamente precipitare
la Grecia indipendentemente da ciò che la Grecia facesse. Dunque non
c’è alcuna soluzione in termini di politica nazionale e nessuna soluzione
in termini di mercato finanziario. È questo il significato dei negoziati
in corso in Lussemburgo e altrove. Ci sarà una ristrutturazione o l’insolvenza
e deve esserci un salvataggio economico e non meramente finanziario.
E, oltre a ciò, ovviamente non deve esserci soltanto una nuova architettura
europea bensì una nuova architettura finanziaria che non sia costruita
intorno alle banche, come accade oggi, e ai mercati del credito così
come si sono trasformati nel periodo precedenti la crisi. O si fa ciò
o la depressione in Europa non farà che proseguire. Fino a quando,
alla fine, l’Unione Europea andrà a pezzi.
È questo che intendo quando affermo
che in termini pratici ciò di cui ci occupiamo qui e ciò di cui abbiamo
bisogno di riconoscere non è un’interruzione di un lungo processo
di crescita economica, una recessione o un qualche sconvolgimento della
domanda aggregata. E’ una malattia incurabile al cuore del sistema.
La nostra sfida, in quanto keynesiani,
consiste ora nell’elaborazione delle implicazioni pratiche di questa
realtà e nella chiara esposizione di una linea d’azione. E forse
il primo passo che dobbiamo compiere, a me pare, consiste chiaramente
nel condannare quello che definirò il falso keynesismo che è salito
per poco tempo al potere nella nuova amministrazione statunitense nel
2009.
A gennaio di quell’anno, come ricorderete,
la nuova amministrazione ha annunciato la necessità di un programma
di stimolo o di ripresa. Senza di esso l’amministrazione aveva calcolato
che la disoccupazione poteva salire sino al 9% nel 2010 prima di iniziare
a ridiscendere. Con il programma, la disoccupazione prevista poteva
essere mantenuta all’8%, la ripresa sarebbe iniziata a metà 2009
e per gli inizi del 2011, vale a dire ora, la disoccupazione sarebbe
scesa al 7% per arrivare al 5% nel 2013. Mentre parliamo, negli Stati
Uniti è al 9%.
La previsione è stata un disastro
politico ed economico, ma in retrospettiva è più interessante
per quel che ci dice riguardo a coloro che l’hanno formulata. Chiaramente
non hanno compreso, forse non hanno voluto comprendere, quel che stava
accadendo. Hanno adottato il presupposto di un percorso in discesa verso
la disoccupazione al 5%, il che ha significato che il tasso naturale
di disoccupazione – il concetto più non-keynesiano e anti-keynesiano
mai ideato nell’economia moderna – era incorporato nella loro mentalità
e nei modelli computerizzati che hanno utilizzato. L’unico problema
era la velocità dell’aggiustamento e se un po’ di stimolo ci avrebbe
aiutato ad arrivarci più velocemente. Il pacchetto di stimolo non era
finalizzato a fornire una risposta sostanziale alla crisi, bensì solo
ad accrescere tale velocità di aggiustamento di un piccola quantità.
Chiaramente, per farla breve, non vi
era alcuna crisi nella mente di coloro che erano in carico nel 2009.
C’era soltanto una recessione insolitamente profonda, una Grande Recessione,
come finì per essere definita, e la recessione sarebbe terminata. Il
Presidente del Consiglio della Federal Reserve, Bernanke, affermò fin
dall’inizio che la recessione sarebbe terminata e che l’economia
si sarebbe ripresa. Non disse come lo sapeva, ma quando lo fece era
sicuro che le cose sarebbero tornate alla normale prosperità dei metà
del primo decennio del 2000. E’ stata la noncuranza riguardo alle
carenze di produzione, l’unanimità delle previsioni circa il ciclo
economico e riguardo alla legge di Okun. Il momento-Minsky sarebbe sicuramente
passato.
È un brutto film e, ovviamente, lo
abbiamo già visto in precedenza. Ricorderete che nel 1960 lo zio di
(succede) … di Larry Summers fu co-inventore di un concetto chiamato
la curva di Phillips, che determinava, sulla base di prove empiriche
molto deboli e senza una teoria chiara, il rapporto tra il tasso di
disoccupazione e il tasso d’inflazione. I keynesiani veri, compresi
il mio maestro, Nicholas Kaldor, Joan Robinson, Robert Eisner, un mio
grande eroe, e mio padre, rimasero sbigottiti. La costruzione era destinata
a crollare e quando ciò accadde, dopo il 1970, la scuola che molti
ritenevano keynesiana fu spazzata via nella risacca.
Oggi gli errori che stanno dietro le
previsioni di ripresa si fondono con il fallimento dello stimolo stesso
e la stessa cosa sta accadendo di nuovo. Coloro che hanno fallito più
miseramente nel lanciare l’allarme riguardo alla crisi finanziaria
hanno, in conseguenza, recuperato la voce come flagellatori del deficit
e del debito pubblico. Vi è un coro di condanna con coloro che un tempo
pensavano che il nuovo paradigma avrebbe potuto andare avanti per sempre
che ora inveiscono contro il vivere al di là dei nostri mezzi e predicono
il fallimento federale e il collasso del dollaro e del sistema monetario
mondiale, tra altre favole paurose. Ne fanno parte luminari quali la
dirigenza del Fondo Monetario Internazionale e, fra tutte le altre,
la divisione di analisi di Standard and Poor’s, una società che dalla
quale si potrebbe sperare che un minimo di modestia si sia sviluppata
o sia esibita sulla scia degli eventi recenti.
Sarebbe patetico se non fosse così
pericoloso. Ma il fatto è che queste forze stanno scendendo lungo un’autostrada
che è stata liberata da ostacoli ad opera della ritirata, di fatto
della distruzione, della posizione falso-keynesiana.
È dunque nostro compito, mi pare,
contro ogni probabilità, costruire una nuova linea di resistenza. E
finirò col dire che penso che tale linea debba comprendere almeno i
seguenti elementi:
Primo: la comprensione dei rapporti
di contabilità monetaria all’interno delle società e tra di
esse, in modo da non essere presi dal panico da semplici rapporti finanziari
ed essere spinti a politiche sociali autodistruttive o a condannarci
a vite di stagnazione economica e spreco umano. E aggiungerei in particolare,
perché è importante in Danimarca al momento, alla distruzione dei
sistemi di assistenza sociale e pensionistici che sono stati le fondamenta
di una vita decente per decenni per una gran parte della popolazione.
Secondo: un’analisi efficace della
deflazione del debito in corso, la crisi bancaria e le risposte, sin
qui, delle politiche fiscali inadeguate e delle politiche monetarie
illusorie. Negli Stati Uniti e in Europa questa è una crisi principalmente
delle banche, non dei governi, e sta a noi richiamare l’attenzione
su questo fatto.
Terzo: un’analisi completa dell’attività
delittuosa che ha distrutto il settore bancario, comprese le sue fondamenta
tecnologiche, in modo da scacciare l’illusione che questi mercati
possano effettivamente essere ripristinati a una forma in qualche modo
simile a quella di 4 o 5 anni fa. Come parte di ciò, ovviamente, sarebbe
utile ottenere un impegno rinnovato a denunciare i crimini, punire i
colpevoli e far valere le leggi. Economisti Keynesiani per un FBI Più
Efficace credo sia una corrente che sarei lieto di sponsorizzare e cui
sollecitare la vostra adesione.
Quarto: una comprensione del modo in
cui i mercati finanziari interagiscono con la mutevole geofisica dell’energia,
specialmente del petrolio, e con i mercati delle materie prime per scoraggiare
la ripresa economica salvo che il problema energetico sia affrontato
direttamente. Penso che sia qualcosa che ora stiamo vedendo accadere.
Quinto: una direttiva strategica per
riprogettare e ricostruire le nostre società in rapporto alle
sfide dell’invecchiamento, delle infrastrutture, dell’energia, del
cambiamento climatico e dello sviluppo condiviso che tutti abbiamo di
fronte. E per creare le istituzioni necessarie perché ciò accada.
Ciò richiede, penso, da un punta di vista intellettuale, una fusione
delle tradizioni Keynesiana, Post-Keynesiana e Istituzionale che, di
fatto, è qualcosa già in corso.
Sesto: conseguire questi obiettivi
mobilitando muscoli e cervelli umani per superare la disoccupazione
e garantire una società largamente condivisa, decente e ragionevolmente
egalitaria secondo i modelli sociali di maggior successo e più duraturi,
col che io intendo un impegno ai più profondi principi politici che
Keynes stesso sosteneva e anche a una comprensione del fatto che dovremmo
utilizzare la storia come guida a ciò che ha funzionato e a ciò che
non ha funzionato.
E, settimo: la ricostruzione degli
strumenti del potere pubblico – il potere di spendere, il potere di
tassare, il potere monetario e il potere di regolamentare – in modo
da perseguire efficacemente questi obiettivi con sistemi democratici
di pesi e contrappesi per evitare che le nuove istituzioni finanziarie
siano prese in ostaggio da forze predatrici.
Non fingerò, come fece Keynes, che
nulla intralci il cammino se non pochi vecchi gentiluomini in redingote
che chiederebbero soltanto di essere abbattuti come nove birilli e che
potrebbero godere della cosa.
Dovremmo farci carico di questa sfida
semplicemente come di una questione di coscienza. Non siamo concorrenti
al potere. E’ per noi una questione di responsabilità professionale
e di dovere civico. Il mio amico Bill Black, che ha qualche esperienza
in quest’area, ama dire, nelle parole di Guglielmo d’Orange, che
per perseverare non è indispensabile sperare.
Grazie molte per il piacere e l’onore
di aver potuto proporre queste osservazioni.
(Traduzione di Giuseppe Volpe)
Articolo originale: James K. Galbraith: The
Final Death (and Next Life) of Maynard Keynes
01.08.2011