MIKE WHITNEY INTERVISTA JOHN BELLAMY FOSTER
Global Research
“Il salvataggio attuale del sistema sta avvenendo con i soldi dei contribuenti ma senza che l’opinione pubblica abbia voce in capitolo. E’ perciò necessaria una rivolta per riottenere il controllo popolare della politica economica.”
MW: La crisi finanziaria si sta rapidamente trasformando in una crisi politica. Già dei governi, in Islanda e in Lettonia, sono caduti, e il crollo globale sta appena iniziando ad accelerare. Tafferugli e violenza di strada sono esplosi in Grecia, Lettonia e Lituania, e proteste dei lavoratori sono diventate comuni in tutta l’Unione Europea. Con la disoccupazione che salirà alle stelle e l’attività economica che rimarrà stagnante, i paesi vedranno probabilmente una maggiore instabilità sociale. Come si può prendere del malcontento e della rabbia da tempo sedimentati e trasformarli in un movimento politico per un cambiamento strutturale?
JBF: La prima cosa è riconoscere che ci siamo ritrovati improvvisamente in un periodo storico differente. Una delle mie citazioni favorite proviene dal film “Burn!” del 1969, di Gillo Pontecorvo, il cui protagonista, William Walker (impersonato da Marlon Brando) afferma: “molto spesso, tra un periodo storico e un altro,10 anni improvvisamente potrebbero essere sufficienti a rivelare le contraddizioni di un intero secolo”. Noi stiamo vivendo in un tale periodo; non solo a causa della Grande Crisi Finanziaria e di ciò che il FMI oggi definisce depressione nelle economie capitaliste avanzate, ma anche a causa della crisi ecologica globale che durante gli ultimi 10 anni è accelerata uscendo dall’ordinario controllo, e a causa del riapparire dell'” imperialismo nudo”. Ciò che aveva senso 10 anni fa ora è un non-senso. Nuovi pericoli e nuove possibilità si stanno aprendo. Sta emergendo un genere di lotta completamente differente.
Nella foto: in Islanda, a seguito della crisi finanziaria, dure proteste hanno costretto il governo alle dimissioni.L’improvvisa caduta dei governi in Islanda e in Lettonia come risultato delle proteste contro il furto finanziario è un fatto notevole, così come lo sono le diffuse rivolte in Grecia e in tutta l’Unione Europea, con milioni di persone nelle strade. Gli scioperi generali in Guadeloupe e Martinique, le Antille francesi, e l’appoggio fornito a questi movimenti dal Nuovo Partito Anticapitalista Francese [NPA, “Nouveau parti anticapitaliste“, N.d.t.] sono degli enormi passi avanti. Di fatto gran parte del mondo è in fermento. I latinoamericani sono impegnati in una rivolta a grande scala contro il neoliberismo, guidata dalla rivoluzione bollivariana del Venezuela, e dall’aspirazione a un nuovo socialismo per il ventunesimo secolo (immaginato anche in Bolivia, Ecuador e Cuba). La rivoluzione nepalese ha offerto una nuova speranza in Asia. Lotte sociali di prima grandezza stanno avvenendo nelle economie emergenti come il Brasile, in Messico e l’India. Anche la Cina sta assistendo a un fermento.
L’unico posto al mondo in cui questo fermento storico sembra non avere un effetto significativo è, attualmente, negli Stati Uniti d’America. Ciò può essere spiegato da due ragioni. In primo luogo gli Stati Uniti come centro dell’impero mondiale sono una fortezza di conservatorismo. In secondo luogo l’elezione dell’amministrazione Obama ha confuso le forze progressiste portando all’assurda nozione che i democratici sotto Obama creeranno un nuovo New Deal senza bisogno della pressione proveniente da una rivolta sottostante. Nel frattempo, sotto lo sguardo di Obama e con l’aiuto dei suoi consiglieri scelti, grandi quantità di fondi statali vengono iniettati nel sistema finanziario a beneficio del capitale privato.
Ciò di cui c’è bisogno negli Stati Uniti oggi, sosteniamo in “The Great Financial Crisis”, è un rinnovamento del concetto classico di economia politica (con la sua prospettiva di classe), attraverso il quale si giunge a comprendere che l’economia è soggetta al controllo pubblico, e dovrebbe essere strappata al controllo della classe dominante. Il salvataggio attuale del sistema sta avvenendo con i soldi dei contribuenti ma senza che l’opinione pubblica abbia voce in capitolo. E’ perciò necessaria una rivolta per riottenere il controllo popolare della politica economica.
È possibile iniziare con la richiesta per un nuovo New Deal, che abbia le radici nella migliore eredità dell’amministrazione Roosevelt negli anni 30, in particolare nella Works Progress Administration. Ma, come sosteniamo io e Robert McChesney nell’articolo “A New New Deal Under Obama?” apparso nell’edizione di febbraio 2009 della Monthly Review , la lotta deve andare rapidamente al di là di ciò verso un’espansione dei diritti dei lavoratori secondo principi socialisti, rompendo con la logica del capitale. Perché ciò accada deve esserci una grande rivolta dal basso almeno delle dimensioni del movimento di sindacalizzazione industriale degli anni 30 che creò una nuova forza politica nel paese, successivamente distrutta nell’era McCarthy. La storia di questa lotta è raccontata nel classico di David Milton “The Politics of U.S. Labor”, che sottolinea anche che il nascente movimento dei lavoratori era guidato da sindacalisti radicali e socialisti.
È importante, come ha spiegato István Mészáros nel suo “Beyond Capital”, che le forze politiche radicali che nascono in questo momento storico non si facciano distrarre dal tentativo di salvare il sistema esistente, ma siano dirette a trascenderlo. Come ha scritto Mészáros: “Per avere successo nel suo scopo originario, la politica radicale deve portare le sue aspirazioni all’altezza della crisi, nella forma di efficaci poteri decisionali per il corpo sociale stesso, a tutti i livelli e in tutte le aree, economia compresa, da cui emaneranno successivamente richieste politiche e materiali”.
Negli Stati Uniti lo scopo primario di qualunque politica radicale dovrebbe essere il taglio della spesa militare, che è il pugno di ferro che sottomette il mondo intero mentre corrompe la classe politica Usa e allontana qualunque surplus dai pressanti bisogni sociali.
L’ovvio punto debole dell’intera struttura politica, ideologica ed economica che è oggi al comando negli Stati Uniti è che il sistema è stato chiaramente incapace di andare incontro ai reali bisogni della gente. Anziché affrontare questi pressanti bisogni durante la crisi, l’enfasi dei padroni dell’economia cade sul salvataggio del capitale privato praticamente a qualunque costo. Tra ottobre 2008 e gennaio 2009 il governo federale ha fornito circa $ 160 miliardi in capitale, infusioni di denaro e di garanzie sul debito alla Bank of America, che aveva a fine gennaio un valore netto pari solo a una piccola frazione di tale cifra. Il resto è sceso giù per lo scarico.
La rapina dei fondi pubblici per salvare il capitale privato avviene oggi su una scala probabilmente mai vista prima. Ciò che dobbiamo sperare è una classe di lavoratori politicizzata e organizzata capace di comprendere e reagire a tale furto, e perciò di scegliere di ristrutturare la società e andare incontro a reali bisogni sociali ed egualitari. Il titolo di un recente articolo di apertura di Newsweek era “We Are All Socialists Now” [“Ora siamo tutti socialisti”]. Come si è capito i redattori di Newsweek si stavano semplicemente riferendo all’aumento della spesa pubblica che sta avvenendo di questi tempi, difficilmente un’indicazione di socialismo. Ma il fatto che ciò venga apertamente detto nei media mainstream mostra che siamo in un momento storico differente in cui le forze politiche radicali hanno la possibilità di farsi avanti.
MW: Mentre l’economia è diventata sempre più dipendente dalla finanziarizzazione per ottenere la crescita, il divario tra ricchi e poveri è diventato sempre più ampio. Come fa notare nel suo libro: “Negli Stati Uniti l’1% di più ricchi nel 2001 possedeva più del doppio dell’80% più povero della popolazione. Se ciò dovesse essere semplicemente misurato in termini di ricchezza finanziaria, l’1% più ricco possedeva quattro volte di più dell’80% più povero” (pag 130). Come sono riusciti gli appartenenti alla classe lavoratrice a mantenere la testa fuori dall’acqua mentre tutta questa ricchezza veniva girata verso i ricchi?
JBF: La risposta è piuttosto ovvia. Se la gente non riesce a mantenere il proprio standard di vita grazie al proprio reddito, prenderà a prestito dando come garanzia il proprio reddito e qualunque ricchezza possieda. Il risultato, se il reddito non sale, o se il valore dei beni che possiedono non aumenta, è che le persone diventeranno sempre più profondamente indebitate nel tentativo di rimanere a galla. Mi preoccupai della crescita del debito delle famiglie della classe lavoratrice già nel 2000 e feci uno studio sulla “Survey of Consumer Finances” che viene pubblicata ogni tre anni dal governo federale con un ritardo di tre anni nei dati. Questa è l’unica grossa fonte del governo federale che abbiamo sul debito delle famiglie diviso per gruppi di reddito, per poter determinare l’entità del debito delle diverse classi.
Ho pubblicato un articolo basato su questa ricerca, intitolato “Working-Class Households and the Burden of Debt” [“Le famiglie della classe lavoratrice e il fardello del debito”], nell’edizione di Monthly Review del maggio 2000. L’ho fatto seguire dopo sei anni da un articolo nella Monthly Review del maggio 2006 su “The Household Debt Bubble” [“La bolla del debito famigliare”] che sarebbe stato incluso in “The Great Financial Crisis”. In esso scrissi che ” la bolla immobiliare e l’entità dei consumi nell’economia sono collegati a quella che potrebbe essere definita ‘la bolla del debito famigliare’, che potrebbe facilmente esplodere come risultato di crescenti tassi di interesse e della stagnazione o del declino dei prezzi delle case”. Naturalmente ciò è quanto è accaduto, e la ragione per cui questa crisi si è rivelata così dura è stata la distruzione attraverso i decenni delle finanze delle famiglie della classe lavoratrice, sulle cui spalle è avvenuta la finanziarizzazione.
MW: Potrebbe darci una definizione di “debito-defllazione” [“debt-deflation”] e spiegare il suo potenziale pericolo per l’economia? Mentre il credito continua a restringersi e i prezzi delle case affondano, non stiamo forse scendendo in una spirale defllazionaria? Pensa che la politica fiscale invertirà questo andamento o il pacchetto di stimolo è troppo piccolo per impedire che azioni e valori immobiliari continuino a cadere?
JBF: Il termine “debito-deflazione” è associato in particolare con il lavoro di Irving Fisher durante la Grande Depressione. Fisher nel 1933 scrisse un articolo per la rivista Econometrica intitolato “The Debt-Deflation Theory of Great Depressions” [“La teoria del debito-defllazione delle grandi depressioni”]. La deflazione nell’economia generale è una caduta del generale livello dei prezzi, qualcosa che non si vede negli Stati Uniti dalla Grande Depressione, ed è catastrofico nell’economia del capitale di monopolio (e ancora di più sotto il capitale di monopolio finanziario). In primo luogo, la defllazione (o disinflazione, cioè la riduzione dell’inflazione oltre quelli che la Federal Reserve definisce livelli “al di sotto dell’ottimale”) significa che i margini di profitto delle aziende vengono ristretti, anche se la struttura di costo della produzione, e la produttività, rimangono le stesse. Sotto queste circostanze si riattiva la competizione nei prezzi, con le grandi aziende che si ritrovano realmente in una battaglia per la vita o la morte. Ciò genera anche pressioni per pesanti licenziamenti e riduzioni salariali, creando ogni genere di circoli viziosi.
Ma la vera paura della defllazione ha a che vedere con la struttura finanziaria enormemente gonfiata e con l’enorme carico di debito dell’economia. Sotto l’inflazione, che solitamente si assume che si sviluppi nelle economie capitaliste avanzate, i debiti vengono ripagati con dollari più piccoli (che valgono cioè di meno col tempo). In una economia defllazionaria, però, il debito deve essere ripagato con dollari più grandi (che valgono di più al passare del tempo). Ciò crea allora una spirale di debito-defllazione che accelera enormemente il crollo finanziario. Come spiega Fisher, “la defllazione causata dal debito reagisce sul debito. Ogni dollaro di debito che rimane non pagato diventa un dollaro più grande, e se il sovra-indebitamento con cui siamo partiti era sufficientemente grande, la liquidazione del debito non può mantenere il passo con la caduta dei prezzi che causa”. Per dirla diversamente, citando “The Great Financial Crisis” (p. 116), ” i prezzi cadono dal momento che i debitori vendono i loro beni per pagare i loro debiti, e mentre i prezzi cadono i debiti che rimangono devono essere ripagati in dollari che valgono di più di quelli presi in prestito, provocando altri fallimenti e portando a prezzi più bassi, e perciò a una spirale deflazionaria”. Per controllare questa tendenza defllazionaria, la Federal Reserve e il Tesoro hanno cercato di rigonfiare l’economia con lo stampare denaro (eufemisticamente chiamato ” attenuazione quantitativa”). Ma non sono riusciti nel loro intento e le spinte deflazionarie sono ancora molto forti, portando il presidente Obama ad avvertire, poco dopo la sua elezione, che ” oggi rischiamo di cadere in una spirale deflazionaria che potrebbe aumentare ulteriormente il nostro massiccio debito”.
Vale anche la pena di menzionare l’effetto che la defllazione ha sugli investimenti. Dal momento che il capitale fronteggia il fatto che tra qualche anno il livello dei prezzi potrebbe essere inferiore a oggi, i profitti aspettati sugli investimenti in nuove capacità produttive (che richiedono anni perché vengano costruite ma devono essere pagate ai prezzi correnti) ne risultano depressi, creando una più profonda stagnazione dell’accumulazione.
Il pacchetto di stimolo introdotto dall’amministrazione Obama è di gran lunga troppo piccolo per far risalire la domanda e rigonfiare l’economia in queste circostanze. Ammonta a meno di 400 miliardi l’anno, 40% dei quali in tagli alle tasse, cosicché l’aumento delle spese governative è minuscolo se paragonato alle dimensioni del buco creato dal drastico crollo dei consumi, degli investimenti e delle spese dei governi statali e locali. Esso risulta anche minuscolo in confronto al totale dei programmi di appoggio del governo federale, rivolti principalmente alle istituzioni finanziarie, che ammontano ora a più di 9700 miliardi di dollari sotto forma di infusioni di contante, di garanzie sul debito, scambi tra buoni del Tesoro e spazzatura finanziaria tossica, eccetera.
MW: Karl Marx sembra avere previsto il disastro finanziario che stiamo fronteggiando. Nel Capitale egli scrisse: “la superficialità dell’economia politica si mostra nel fatto che vede l’espansione e la contrazione del credito come la causa di periodiche alterazioni del ciclo industriale, mentre in realtà è un semplice sintomo di essi”. Marx sembra in accordo con la sua teoria che il vero problema è più profondo, una stagnazione economica che costringe il capitale in surplus a cercare investimenti più proficui. Mentre le teorie monetariste di Milton Friedman sono oggi sotto devastante attacco, Keynes e Marx sembrano resistere piuttosto bene. Cosa intende dire Marx quando parla di “politica economica”?
JBF: Marx era un acuto analista delle crisi finanziarie del suo tempo e ne descrisse le loro principali caratteristiche. Però egli vedeva l’espansione finanziaria come un fenomeno tipico del picco di un boom, non come un fenomeno secolare. La finanziarizzazione, intesa come uno spostamento a lungo termine del centro di gravità dell’economia verso la finanza, con la speculazione finanziaria che cresce nei decenni, è una situazione completamente senza precedenti.
Marx e Engels posero grande enfasi sulla crescita delle società/aziende per azioni e sulla comparsa del mercato delle obbligazioni industriali, che iniziarono a comparire verso la fine del diciannovesimo secolo. Fu questa creazione del moderno mercato delle obbligazioni industriali il vero inizio dell’emergere della finanza come aspetto relativamente indipendente dell’economia capitalista di monopolio. Nell’economia vi sono essenzialmente due strutture di prezzo: la prima, nell’economia reale, legata alla produzione di beni e servizi, l’altra, nel regno finanziario, associata con l’assegnazione di un prezzo ai beni (diritti cartacei su una ricchezza). I due sistemi sono legati tra loro ma possono essere dissociati l’uno dall’altro per un periodo di tempo. Keynes scoprì negli anni 30 i pericoli di un’economia che era sempre più governata dall’assegnamento speculativo di un prezzo ai beni finanziari. Marx era un osservatore talmente acuto del capitalismo che già al suo tempo iniziò a vedere le contraddizioni emergenti tra il capitale monetario (o fittizio) e il capitale reale.
Una cosa che Marx sosteneva nel suo contesto era che gli incrementi nella speculazione finanziaria erano risposte alla stagnazione e al declino dell’economia reale, quando il capitale cercava disperatamente una via per mantenere ed espandere il suo surplus. Perciò egli scrisse che la “pletora di capitale monetario” in questi periodi era dovuta alle “difficoltà nell’impiego, tramite una mancanza di sfere d’investimento, cioè a causa di un eccesso nei rami produttivi” e mostrò nientemeno che le barriere immanenti all’espansione capitalista (citato in “The Great Financial Crisis”p. 39).
Marx rimane il fondamento più solido della critica all’economia capitalista sino ai nostri giorni. Ma il vero Keynes (da non confondersi con il Keynesianismo bastardizzato di oggi) è anche importante, dal momento che sottolinea quelli che egli definiva i “notevoli difetti” dell’economia capitalista: la tendenza ad una forte diseguaglianza e ad un’alto tasso di disoccupazione. Egli indicava anche i pericoli di un sistema legato alla finanza speculativa.
MW: La stagnazione dei salari e la diseguaglianza tra i redditi sono un diretto risultato della finanziarizzazione?
JBF: Direi l’opposto. La stagnazione dei salari e la crescente diseguaglianza di redditi e ricchezze sono le componenti della sottostante tendenza alla stagnazione. Entrambe hanno mostrato la tendenza a peggiorare nel tempo, dando come risultato tendenze ad una stagnazione più profonda all’interno dell’economia in generale. I salari reali negli Stati Uniti hanno avuto un picco nel 1971 sotto la presidenza di Richard Nixon, nel 2008 erano già caduti ai livelli del 1967 quando era presidente Lyndon Johnson. Ciò nonostante l’enorme crescita della produttività e l’espansione della ricchezza nei decenni trascorsi. Perciò questo è un segnale della “tendenza alla crescita del surplus” descritta da Baran e Sweezy, o di una tasso crescente del valore di surplus per usare i termini di Marx. Essa è stata accompagnata da una massiccia crescita dei redditi della ricchezza al vertice. Come affermiamo in “The Great Financial Crisis” (p. 130): ” dal 1990 al 2002 per ogni dollaro in più guadagnato da coloro che sono il 90% più alto in quanto al reddito, coloro che sono lo 0,01% dei più ricchi (oggi circa 14.000 famiglie) ha guadagnato altri $ 18.000″. Per il 2007 la diseguaglianza in reddito e ricchezza negli Stati Uniti aveva raggiunto le proporzioni del 1929, cioè il livello raggiunto appena prima del Crollo del Mercato Azionario nel 1929 che portò alla Grande Depressione.
Penso comunque che lei abbia ragione a dire che la finanziarizzazione ha reso la diseguaglianza di reddito e ricchezza peggiore, e ha contribuito alla stagnazione dei salari. Possiamo vedere il neoliberismo fondamentalmente come l’ideologia del capitale finanziario di monopolio, introdotto originariamente come la risposta della classe dominante alla stagnazione, e poi sempre più legata alla promozione della finanziarizzazione del capitale, essa stessa una risposta strutturale alla stagnazione. Il neoliberismo ha promosso incessantemente la distruzione dei sindacati, ha forzato verso il basso i salari, tagliato spese del welfare, portato alla deregolamentazione e al libero movimento di capitali e allo sviluppo di una nuova architettura finanziaria, eccetera.
Un modo per comprendere ciò è l’enorme bisogno di infusioni di contante per alimentare la superstruttura finanziaria che era vorace nella sua richiesta di nuovo capitale monetario, di cui aveva bisogno per sollevare ulteriori nuove montagne di debito e speculazione finanziaria. Assicurazioni, mercato immobiliare, fondi comuni hanno tutti fornito infusioni alla superstruttura finanziaria, così come ha fatto lo Stato. Tutti i limiti sono stati rimossi. Sotto queste circostanze i lavoratori sono stati incoraggiati ad usare le loro case come salvadanai per finanziare il consumo, le carte di credito sono state date agli adolescenti, i mutui subprime sono stati spacciati a coloro che avevano scarsa capacità di pagamento. Pacchetti pensionistici individuali sono stati spostati verso IRA [Individual Retirement Arrangement] legati al sistema finanziario speculativo. Tutto ciò portava i segni di un sistema che dà assuefazione. In queste circostanze anche l’economia reale, in particolare la produzione di beni e la manifattura, sono state decimate. Nell’introduzione di “The Great Financial Crisis” includiamo un grafico di tutto il periodo a partire dal 1960 che mostra la produzione di beni come percentuale del Pil in un declino lento e a lungo termine, mentre il debito come percentuale del Pil sale alle stelle nello stesso periodo. Tutto ciò significa una massiccia ridistribuzione, dai lavoratori verso il capitale e verso coloro che sono in cima alla piramide finanziaria.
MW: Nel vostro libro “The Great Financial Crisis”, criticate le iniezioni di capitale di Paulson verso le banche affermando che, “al massimo acquistano il tempo necessario per liquidare in modo ordinario l’enorme massa di prestiti dubbi, restaurando la solvibilità ma ad un tasso di attività economica molto minore, quello di una seria recessione o di una depressione”. Venerdì Timothy Geithner ha detto alla CNBC: “preserveremo il sistema posseduto e gestito dal settore privato”. Ciò suggerisce che il segretario al Tesoro potrebbe non liquidare affatto i beni tossici, ma cercare di mantenere l’apparenza che queste banche affogate siano solventi. Che cosa pensa accadrà se Geithner si rifiuta di nazionalizzare le banche?
JBF: Non interpreterei l’affermazione di Geithner in quel modo. Piuttosto stiamo assistendo ad una delle più grande rapine della storia. Ho scritto della questione delle nazionalizzazioni nelle “Notes from the Editors” dell’edizione di marzo della Monthly Review . Tutti i tentativi di salvare il sistema finanziario ad oggi vanno nella direzione della nazionalizzazione. Il governo federale sta fornendo sempre più capitale e sta assumendo sempre più responsabilità finanziaria nelle banche. Però stanno facendo tutto ciò che possono per mantenere le banche in mani private, con il risultato di un tipo di nazionalizzazione de facto con un controllo privato de jure. Se il governo federale sarà alla fine forzato o no verso una completa nazionalizzazione (assumendo cioè il controllo diretto delle banche) è una grossa domanda. Ma anche ciò probabilmente non cambierà la natura di quanto sta accadendo, un classico caso di socializzazione delle perdite delle istituzioni finanziarie lasciando intoccati i massicci guadagni ancora nelle mani di coloro che più hanno approfittato del periodo più estremo di speculazione finanziaria.
Per avere un’idea di ciò che sta accadendo si deve capire che il governo federale, come ho già indicato, in questa crisi si è impegnato sin ora a dare 9700 miliardi di dollari in programmi di appoggio principalmente rivolti alle istituzioni finanziarie. La Federal Reserve (insieme col Tesoro) si è convertita in quella che è definita una “bad bank”. Ha dato i certificati del Tesoro in cambio di spazzatura finanziaria tossica come le Collateralized Debt Obligations. Come risultato la Federal Reserve è diventata l’ultima spiaggia bancaria per la spazzatura tossica mentre la percentuale di emissioni del Tesoro nel bilancio della Fed è calata dal 90% a circa il 20% nel corso della crisi, con la restante percentuale composta ormai da spazzatura finanziaria tossica.
Ovviamente una piena e diretta nazionalizzazione sarebbe molto più razionale di ciò. Però ci si deve ricordare del sistema di potere, economico e politico, con cui abbiamo a che fare oggi. Il classico caso di una piena nazionalizzazione bancaria è quello del capitalismo corporativista italiano degli anni 20 e 30, dovuto al regime fascista. Senza suggerire che siamo diretti in questa direzione, dovrebbe essere ormai chiaro da ciò che la nazionalizzazione stessa delle banche non è una panacea.
Il fatto che Geithner, la scelta di Obama per il posto di segretario al Tesoro, stia supervisionando l’enorme rapina in corso, probabilmente superiore a qualunque altro furto nella storia, mentre i comuni contribuenti pagano il conto, dovrebbe certamente portarci a fare domande sulla natura “progressista” della nuova amministrazione.
MW: L’ex presidente della Fed Alan Greenspan ha respinto ogni critica alle sue politiche monetarie affermando che nessuno avrebbe potuto vedere la mastodontica bolla del credito svilupparsi nel mercato immobiliare. Nel vostro libro, però, fate la seguente osservazione:” è stata la realtà della stagnazione economica iniziata negli anni 70…che ha portato all’emergere del nuovo genere di ‘paradossale Keynesianismo finanziario’ del nuovo regime capitalista finanziarizzato in cui la domanda economica era stimolata principalmente ‘grazie a bolle nei beni'”. L’affermazione suggerisce che la Fed sapeva esattamente cosa stava facendo mentre tagliava i tassi e creava una frenesia speculativa. Le bolle alimentate dal debito sono un modo per spostare la ricchezza da una classe all’altra evitando la stagnazione dell’economia sottostante. Questo problema può essere risolto tramite la regolamentazione e una migliore supervisione o è qualcosa di intrinseco al capitalismo stesso?
JBF: Greenspan sta ovviamente cercando un modo disperato di salvare la sua reputazione e di rimuovere qualunque sensazione che egli sia colpevole. Sono d’accordo nel dire che la Fed, sino un certo punto, sapeva cosa stava facendo, e promuoveva deliberatamente una bolla immobiliare, quella che Stephanie Pomboy ha definito “The Great Bubble Transfer” in seguito all’esplosione della bolla tecnologica della New Economy nel 2000. L’idea che nessuno abbia visto i pericoli è ovviamente falsa. Mi ricorda l’affermazione fatta da Paul Krugman per salvarsi la faccia nel suo libro “The Return of Depression Economics and the Crisis of 2008”, cioè che mentre alcune persone pensavano che i problemi finanziari ed economici degli anni 30 potessero ripetersi, queste non erano “persone appropriate”. Secondo Krugman, le “persone appropriate” come lui (cioè quelli che esprimono il consenso di coloro che sono al potere) sapevano che queste cose non potevano succedere, ma si sbagliavano. È vero, come dice Greenspan, che nessuno avrebbe potuto prevedere esattamente cosa sarebbe successo. E certamente vi erano molti paraocchi al vertice. Ma vi erano un sacco di avvertimenti e preoccupazioni. Per esempio scrissi un articolo (“The Great Fear”) per l’edizione dell’aprile 2005 di Monthly Review che faceva riferimento ai “crescenti tassi di interesse che minacciano un’esplosione della bolla immobliare che sostiene i consumi americani”, come uno dei “pericoli chiave di una economia in stagnazione”. Altri attenti osservatori dell’economia dicevano la stessa cosa.
Il Federal Reserve Board, infatti, in questi anni dibatteva al suo interno se adottare la politica di far esplodere le bolle nei beni prima che finissero ulteriormente fuori controllo. Ma Greenspan e Bernanke erano entrambi contro una operazione così pericolosa, affermando che ciò avrebbe potuto far crollare tutta l’instabile struttura finanziaria. Dal momento che non sapevano cosa fare con le bolle, semplicemente si sono seduti con le mani in mano e hanno cercato di alzare la voce col mercato. La visione dominante era che la Federal Reserve potesse bloccare una valanga finanziaria mettendo una roccia nel punto giusto nel momento in cui ci fosse stato segno di problemi. Perciò Bernanke andò avanti, chiuse gli occhi e pregò, alzando i tassi di interesse per restringere l’inflazione (un’azione richiesta dall’elite finanziaria), e il resto è storia.
In tutti i momenti sono stati quelli al comando delle istituzioni finanziarie a condurre il gioco, e la Fed ha assecondato i loro desideri. Lo stesso Greenspan non è uno stupido. Egli scrisse nel Challenge Magazine di Marzo-Aprile 1988 dei pericoli associati con le bolle immobiliari. Ma da presidente del Federal Reserve Board ha peresguito la finanziarizzazione fino in fondo, dal momento che per il sistema non vi erano altre opzioni. Non c’è bisogno di dire che tale finanziarizzazione era associata alle crescenti diseguaglianze in ricchezza e reddito all’interno del paese. Lo stesso debito è uno strumento di potere e coloro che stanno sul fondo vengono incatenati da esso, mentre quelli al vertice lo usano come leva per creare patrimoni. Il valore netto totale dei 400 americani più ricchi per Forbes (una crescente percentuale dei quali grazie alla finanza) è crescituo da 91.8 miliardi di dollari del 1982 ai 1200 miliardi di dollari del 2006, mentre gran parte delle persone trovavano sempre più difficile far quadrare i conti. Niente di tutto ciò è successo per caso. E’ tutto intriseco del capitale monopolistico finanziario.
John Bellamy Foster è editore del Monthly Review e professore di sociologia presso la University of Oregon. E’ coautore con Fred Magdoff di “The Great Financial Crisis: Causes and Consequences”, recentemente pubblicato dalla Monthly Review Press.
Titolo originale: “The “Great Financial Crisis”: A whole new kind of struggle is emerging “
Fonte: http://www.globalresearch.ca
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26.02.2009
Scelto e tradotto per www.comedonchisciotte.org da ALCENERO