DI RAFAEL POCH
La Vanguardia
Nell’Europa odierna, più
he un problema di nazioni di nazioni scorrette, c’è un problema di stupidità internazionale
Ogni giorno si parla della Germania
in modo sempre più contraddittorio. Da un lato si mormora contro il suo “progetto europeo”, dall’altro si elogia il suo “modello”. È evidente che questa contraddizione si risolverà in un modo o nell’altro, a seconda dell’evoluzione dell’eurocrisi. Probabilmente non si evolverà in modo positivo per il prestigio della Germania. Ma rimaniamo all’oggi.
C’è chi critica la dottrina tedesca,
secondo cui la crisi è “la crisi del debito di alcuni paesi” e non “la crisi di un sistema internazionale dove le debolezze sono intrecciate e che è stata provocata da un settore finanziario che vive negli agi“, ad esempio. C’è anche chi maledice la sua ricetta, che si basa sull’austerità unilaterale che peggiora la situazione nei paesi indebitati dell’Europa, invece di cercare di regolare gli squilibri interni dell’eurozona e porre la Banca Centrale Europea al servizio della cosa pubblica.
In molti diffidano anche dei sospettosi concetti introdotti dalla Cancelliera tedesca, come la “Marktkonforme Demokratie“, la “democrazia concorde al mercato“, una democrazia aggettivata che la Merkel ha coniato il 1° settembre in un’intervista radiofonica in cui disse: “Viviamo in una democrazia parlamentare e, quindi, la formazione del bilancio è un diritto basilare del Parlamento, ma comunque troveremo un modo per trasformarlo in modo tale che possa concordare col mercato“. Questa presunta “nuova democrazia” è già implicita nella cosiddetta “regola d’oro”, perché ha posto un tetto alla spesa e all’indebitamento nella costituzione, e così il dogma neoliberista si trasforma in legge suprema e le politici neokeynesiani diventano poco meno che illegali.
L’apice di questo sproposito è
stato raggiunto questa settimana con la pretesa tedesca di nominare
un “commissario” europeo per governare l’economia greca, sottraendo a questa nazione devastata l’ultima parvenza di sovranità. La Germania “non dovrebbe offendere“, ha detto il cancelliere austriaco Wernar Faymann. “Il paese più grande d’Europa dovrebbe essere più
attento“, ha aggiunto il ministro degli Esteri del Lussemburgo, Jean Aselborn.
Mormorii ed elogi
Malgrado questi brusii di fastidio che evidenziano il crescente isolamento della Germania in Europa, si continua a citarla come modello. Il Presidente francese, Nicolas Sarkozy, ha deciso di inalberare l’esemplare bandiera della vicina di casa come risorsa elettorale per le presidenziali di aprile. “Appoggiamo e stiamo alla testa” della dottrina anticrisi tedesca, ha detto Mariano Rajoy nella sua prima visita a Berlino.
Questa situazione evidenzia quanto
è attuale, e schizofrenico, il “modello tedesco” e il suo “progetto europeo”. Ma cosa c’è dietro a questi cliché?
Ovviamente, sarebbe davvero positivo se un paese come la Spagna imparasse gli aspetti virtuosi e preziosi di un qualsiasi altro paese. Nel caso della Germania la lista è lunga: non hanno avuto una bolla immobiliare interna, conservano un tessuto industriale solido, sono un paese europeo ancora capace di produrre, hanno una particolare propensione al risparmio, mantengono un consumo familiare che non è basato sull’indebitamento, dispongono di un’amministrazione federale piccola, efficace e ben coordinata con quella dei Länder, di un’imprenditorialità più responsabile e di un lavoro più rispettato dove i sindacati hanno una forte partecipazione nelle decisioni d’impresa; distruggono in modo meno dissennato il paesaggio e l’ambiente naturale, per cui hanno una maggiore sensibilità: non si può costruire una qualunque cosa in un qualunque posto per far arricchire il sindaco o il promotore (il suo parente); dedicano un’attenzione davvero esemplare, tanto a livello federale quanto regionale, verso il tema dell’educazione, che può anche determinare il risultato delle elezioni (vedi le ultime ad Amburgo) e il cui sistema – dai licei fino alle università – è pubblico per una quota superiore al 90 per cento. Per questa stessa
ragione, i fondi destinati all’educazione sono gli unici a non aver avuto tagli nella crisi odierna. Purtroppo non si parla di questa lunga lista, alla quale potremmo aggiungere anche altro, quando si cita il “modello tedesco“. Quello che si vuole far passare per modello è, soprattutto, l’aggiustamento neoliberista e antisociale realizzato in Germania negli ultimi venti anni, con condizioni e termini ben differenti da quelle dell’Europa del sud.
La Germania non sta meglio perché
“ha compiuto prima il proprio dovere” (chi li decide
questi “doveri“, chi è il maestro?), ossia perché
ha fatto prima di altri un aggiustamento antisociale contro gli interessi
e le condizioni di vita e di lavoro della maggioranza. In realtà, la
Germania è arrivata molto più tardi all’aggiustamento neoliberista
che Stati Uniti e Regno Unito avviarono con Reagan e Thatcher alla fine
degli anni ’70. È stata tra gli ultimi a “fare il suo dovere”
in Europa. La storia è un’altra.
Crisi dopo la riunificazione
politica
La Germania ha avuto una crisi nel
1990, legata all’annessione della DDR, quando, per ragioni
politiche, decise di promettere una prosperità immediata ai sedici
milioni di tedeschi dell’Est con la fissazione della parità tra il
Deutsche Mark e il marco dell’Est, confinandosi per questo in
un angolo economico che un approccio diversa, meno radicale ed effettivo,
avrebbe evitato. Nel breve termine, fu come se i tedeschi dell’Est avessero
vinto la lotteria. Grazie all’aspettativa dei “paesaggi fioriti”
promessi dal cancelliere Helmuth Kohl, scomparvero i programmi e i discorsi,
principalmente verdi e socialistoidi, pronunciati dai pensatori della
RDA: scrittori, intellettuali e dissidenti. Kohl e la sua CDU,
che erano in forte crisi nel 1990, ottennero la gran parte dei voti
dei nuovi elettori dell’Est e si confermarono al governo per otto anni
fino al 1998. In questo senso, la riunificazione fu un’annessione a
misura della destra politica tedesca: una nuova rivoluzione fallita
che si aggiunge alla storia nazionale.
Ma, nel medio e lungo termine, questa
messe politica capitalizzata dai conservatori determinò una seria
crisi digestiva. Il prezzo fu una pesante zavorra per l’economia tedesca,
con una forte disoccupazione e la quasi totale deindustrializzazione
dell’Est. Si stima che il costo della riunificazione, dovuto all’imperativo
politico, fu di un miliardo di euro. L’euro fu l’uscita
dalla crisi: la moneta unica configurò un’enorme vantaggio per le
esportazioni tedesche nel principale mercato.
Euro come soluzione
Grazie all’euro (virtuale nel 1999,
effettivo nel 2002), la Germania “uscì dalla crisi” della
riunificazione, una crisi creata perché l’imperativo politico di mantenere
Kohl e la sua CDU per otto anni al governo ebbe la meglio sulla
razionalità economica, con lo scandalo della Bundesbank di allora.
L’aggiustamento antisociale applicato nel 2003 con la cosiddetta “Agenda2010”,
realizzata dai socialdemocratici, ebbe una scarsa ripercussione sulla
crescita. Nel 2007 The Economist quantificò l’effetto in uno
0,2 per cento del PIL. Sono stati soprattutto l’euro e la stagnazione
salariale – che ha tolto competitività ai concorrenti europei – che
hanno reso supercompetitivi i prodotti tedeschi in Europa. Oggi si sente
dire la chiave del successo è da ricercarsi nel tardivo aggiustamento
neoliberista e che in questo modo altri potranno uscire dalla crisi.
E si dice che la Germania è un modello per la “poca disoccupazione“.
Non c’è
un modello, ma solo differenze
Ma nella Germania di oggi “con
poca disoccupazione“, si lavora la stessa quantità di ore
di quando c’era “molta disoccupazione“: è cambiata
la ripartizione del tempo di lavoro e il conteggio della disoccupazione.
Grazie a trucchi contabili, più di un milione di disoccupati è stato
buttato sotto il tappeto. Dove prima lavorava una persona con condizioni
decenti, ora lavorano più persone, molti nel precariato.
In Germania ci sono 8,18 milioni di
lavoratori a tempo determinato, part-time, che hanno un minijob
o “autonomi precari”: il 75 per cento dei nuovi impieghi appartiene
a questa categoria. In Germania c’è “poca disoccupazione“,
perché si è creato un “secondo mercato del lavoro” che è
più simile alla disoccupazione che a un passaggio verso un impiego
decente con cui poter vivere senza cadere nella povertà. In un paese
che aveva una gran fiducia per il lavoro, si è passati all’insicurezza.
E un paese, che era socialmente più livellato rispetto alle media europea,
ora è presente precipitato una disuguaglianza di tipo statunitense:
l’1 per cento più ricco della popolazione concentra il 23 per cento
della ricchezza, e il 10 per cento più agiato il 60 per cento, mentre
metà della popolazione dispone solo del 2 per cento della ricchezza
nazionale (dati del 2007, che quasi ricalcano quelli degli Stati Uniti
dello stesso anno).
Valutando questi aspetti, è vero
che in Germania c’è meno disoccupazione rispetto alla Spagna (in
alcuni zone del Baden-Württemberg c’è quasi il pieno impiego), così
come, in modo analogo, c’è meno disoccupazione nei Paesi Baschi che
in Extremadura o in Andalusia, e tutto questo ci porta alla banale scoperta
delle differenze.
La Germania ha meno disoccupazione,
per quanto spiegato prima, e anche perché è differente:
perché ha una struttura economica particolare: industriale, esportatrice,
con piccole e medie imprese che sono leader
mondiali, con un’intensa partecipazione lavorativa nelle imprese e anche
con grandi consorzi multinazionali. È un paese fatto a modo suo, con
una società che ha la propria mentalità, come tutte le altre. Quello
che qui viene considerata una qualità, in altri posti è un difetto,
e viceversa. Trapiantare meccanicamente le sue ricette – e proprio quelle
che hanno fatto perdere alla Germania molte delle sue virtù – senza
considerare le differenze strutturali, è tanto ridicolo quanto pretendere
di trasformare l’Andalusia in un Paese Basco. Nei Paesi Baschi ci sono
industrie e meno disoccupazione che nel resto della Spagna, e un’amministrazione
efficace e meno corrotta che nel Levante.
Non c’è
un “progetto tedesco”
Alla Germania viene chiesto di essere
la guida dell’eurocrisi, ed è naturale perché è la prima economia
dell’Europa e la nazione più popolata. Ma la Germania non ha un “progetto
europeo“. Mentre si agitano ridde di fantasmi sul suo presunto
“dominio“, la dura realtà è che la Germania non sa
che farsene di questa responsabilità e i suoi politici non sembrano
preparati ad assumerla. La sua tradizione nazionale verso l’Europa non
è davvero esemplare – quale nazione in Europea può vantarla, d’altra
parte? – ed è un paese molto provinciale, senza esperienze coloniali,
con una tradizione nazionalista che tende più al razzismo che all’universalismo
come diceva Heine, con grosse difficoltà a mettersi nei panni degli
altri e che durante il mezzo secolo del dopoguerra ha avuto una sovranità
ipotecata dagli esiti della disastrosa Seconda Guerra Mondiale, una
sovranità che da poco inizia a manifestare al mondo. In queste condizioni
e circostanze, la Germania fa quello che fanno tutti in Europa: una
politica nazionale.
Il “progetto europeo”
della Merkel non va molto oltre alla volontà di vincere le prossime
elezioni in Germania, o, come ha detto, “che la Germania esca
rafforzata dalla crisi nel G-20“. La sua “visione”
non va molto oltre l’autunno del 2013 e l’Europa è, innanzitutto,
un tema di politica interna: dimostrare fermezza all’elettorato che
pensa che la Germania sia il pagatore di un’Europa indebitata, un
problema di cui questo paese ha una responsabilità non minore. Il progetto
politico della Merkel è il cercare di ripetere nella campagna elettorale
del 2013 le stesse cose che disse ai tedeschi nel suo ultimo messaggio
di fine d’anno: “Abbiamo meno disoccupazione rispetto a venti
anni fa, la Germania sta vivendo un buon momento.” Per questo
motivo, è sufficiente mantenere la situazione attuale.
Ossia, in primo luogo mantenere le
esportazioni tedesche, favorite da un euro a basso presso, sperando
che non ci sia un raffreddamento globale che impedisca di compensare
la caduta delle vendite nel sud europeo con gli aumenti della domanda
in Cina, Stati Uniti, Russia, eccetera, perché un raffreddamento simile
distruggerebbe l’attuale “miracolo” e sommergerebbe la Germania
in una crisi sicuramente peggiore di quelli dei meridionali, perché
il suo potenziale autarchico è minore.
In secondo luogo, mantenere la sua
coalizione di governo, che include la coesistenza col FDP, un
partito molto settario, che sembra diventato marginale ed extraparlamentare
nei sondaggi, ma che determina molto, e tenere a riga i maschi della
CDU-CSU che potrebbero sognare di strappargli la leadership.
E in terzo luogo, mantenere il nazional-populismo propagato dalla stampa
più retrograda e un certo discorso di impresa: il mito della nazione
virtuosa che deve insegnare a vivere agli spendaccioni europei, ai pigri
greci, ai sensuali francesi e gli altri fantasmi del pantheon
dei complessi nazionali.
Se tutto questo dovesse mantenersi,
che la periferia europea si sgretoli e che se ne vada all’inferno: si
tratta di un aspetto periferico rispetto al principale, il 2013.
Anzi, tanto maggiore sarà la rovina altrui, tanto più si potrà sottolineare
la differenza della Germania rispetto alla periferia, e tutto questo
alimenterà la timorosa consolazione del suo popolo, che oggi è a favore
dei presupposti essenziale nei periodi di crisi: “Per lo meno
a noi, non va così male.”
La Germania non
è la cosa peggiore: la cosa peggiore
è la Spagna
Si dirà che è una cosa
stupida, ed è vero, ma non la più stupida: i più stupidi
siamo noi.
Se nella linea tedesca c’è per
lo meno una logica politico-esportatrice, che potevamo considerare irresponsabile,
temeraria e miope, come qualificare il disciplinato gregarismo masochista
dei governi di Francia, Spagna e degli altri, che neanche difendono
gli interessi nazionali e che consentono una politica che aggrava la
propria crisi?
In Spagna c’è stato neanche un
“mea culpa” per l’immobiliare. Non c’è stato aeroporto
inutile o distruzione di litorale che ha portato qualcuno in carcere.
Al contrario, il discorso politico dell’attuale partito di governo rivendica
quella “fase di crescita” che il partito ora all’opposizione
non ha mai messo in questione.
Non sappiamo se c’è un “piano”
per questa crisi, oltre l’evidente volontà di approfittarne per
terminare la distruzione dello Stato sociale e del consenso europeo
del dopoguerra, ma dobbiamo metterci di accordo su una cosa: nell’Europa
odierna, la stupidità è internazionale.
Di fronte alla divisione di un’Europa
in paesi virtuosi e spendaccioni, che pretende di dissolvere I problemi
sociali in questioni nazionali, bisogna constatare l’assoluta unità
della stupidità europea come primo passo dell’internazionalismo.
E un’altra cosa: gli asini volano.
I “mercati” sono le
banche
Ci dicono sempre che bisogna digiunare
e che bisogna uccidere la vecchietta perché è improduttiva, che bisogna
mettersi i pannolini per andare al lavoro, ben disciplinati e intimoriti
per la disoccupazione e accettare le ingiustizie e lo sfruttamento
in nome della “competitività“, perché così l’esigono
“i mercati“. Ci dicono che “noi siamo i mercati”.
No, i mercati sono di chi li gestisce e li manipola: le banche, i fondi
di investimento, le agenzie di rating, eccetera, eccetera. Siccome gli
asini volano, i mercati sono le banche. Così, quando qualcuno vi dice
che bisogna fare qualcosa, “perché
lo esigono i mercati“, mettete la mano al portafoglio, perché
ve lo stanno portando via.
Fonte: El fraude del modelo alemán y el mito de su “proyecto político”
03.02.2012
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE