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La Redazione

 

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LA FINE DELLE MACCHININE ROSSE – MEMORIE DI BERLINO EST

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A cura di Das schloss
Il 21 Novembre 2009
68 Views

DI JAMES RIDGEWAY
Counterpunch

Due immagini predominano in questa settimana di celebrazioni per il ventesimo anniversario della “caduta” del Muro di Berlino: la prima, Ronald Reagan in piedi di fronte alla Porta di Brandeburgo che intona “Mr. Gorbachev, butti giù questo muro”. La seconda, una folla di berlinesi giubilanti che si riversano attraverso Checkpoint Charlie, mentre altri si arrampicano sul Muro o lo attaccano con i martelli, spesso con l’accompagnamento musicale di David Hasselhoff. Vedendo queste immagini, uno non s’immaginerebbe mai che questi due eventi sono avvenuti a più di due anni di distanza l’uno dall’altro – e di certo nessuno potrebbe immaginare quanto poco in realtà hanno avuto a che fare l’uno con l’altro.

I media principali questa settimana erano pieni di tributi a quello che definivano “il discorso che ha messo fine alla Guerra Fredda”. Alcune fonti di notizie –assieme ad Angela Merkel e allo stesso popolo tedesco – hanno avuto l’accortezza di riconoscere che anche Mikhail Gorbachev c’entrava qualcosa con questo. Comunque, molte storie attribuiscono la caduta del Muro ad azioni e decisioni che sono state prese ai vertici, dai leader delle due grandi potenze della Guerra Fredda. In gran parte dimenticati o ignorati sono i normali cittadini che per anni si sono riuniti nelle chiese della RDT, sottoponendo se stessi a un enorme rischio personale mentre lavoravano per il cambiamento in modo pacifico e persistente.Ho potuto avere un assaggio di questi movimenti popolari quando mi sono recato a Berlino Est nei primi giorni dell’ottobre 1989, un mese prima della caduta del Muro. Assieme a Sylvia Plachy, fotografo, e Bettina Muller, giovane giornalista della Germania Ovest, mi stavo in teoria occupando del 40esimo anniversario della RDT; in realtà, eravamo là per capire qualcosa sul crescente movimento democratico. Per la maggior parte del decennio, i dissidenti si erano riuniti in chiese protestanti a Lipsia o a Dresda, così come anche a Berlino – da principio per protestare contro la lotta armata, poi anche per farsi promotori di una riforma politica. Queste chiese erano tollerate dal governo ed era ad esse consentito di fornire una sorta di rifugio per l’opposizione – sebbene, come dovunque nella Repubblica Democratica Tedesca, esse fossero monitorate a stretto giro dalla Stasi.

Ora dell’inverno del 1989, il numero di questi movimenti era cresciuto e c’era un senso generale di eccitazione, accompagnato tuttavia da uno di timore: Erich Honecker, leader della Germania dell’Est, sosteneva una linea dura senza alcun interesse per la perestroika. Alcuni leader del movimento furono arrestati e, dopo la carneficina a Piazza Tiananmen avvenuta qualche mese prima, si era insinuata la preoccupazione che il governo avrebbe potuto scegliere la “soluzione cinese” per far fronte alle crescenti proteste nella RDT.

Mi ricordo di un pomeriggio di ottobre freddo e umido, quando i miei colleghi e io cercavamo di fare amicizia con una persona che si era offerta di darci delle indicazioni su una riunione degli attivisti pro-democratici.
Entrando in una piccola piazza, abbiamo gettato uno sguardo veloce attorno e abbiamo notato che a ogni angolo c’era una Trabant, la piccola macchina della Germania dell’Est a forma di scatola, ciascuna con due uomini appostati nei sedili anteriori. Pareva che tutte le macchine fossero rosse: questa era la Stasi, ed essi non avevano alcun bisogno di mascherare la loro presenza.

Abbiamo girato per una stradina laterale e siamo andati avanti per un po’ fino a un indirizzo che ci era stato dato, la sede di un negozio di libri sull’ambiente. Ma le serrande erano abbassate e la porta chiusa con un lucchetto. Mentre tornavamo indietro, abbiamo sorpassato una giovane coppia, tutta avvinghiata per proteggersi dal freddo pungente. Hanno fatto un cenno con la testa e ci hanno superati. I loro abiti erano semplici, sgualciti e, come tutte le cose a Berlino Est, senza colore. Ma sul colletto della giacca che indossava la ragazza, messa un po’ in disparte, c’era una spilletta. “Eccoli”, ha sussurrato Bettina, “sono loro”.

Mantenendo un occhio alle auto della Stasi, abbiamo osservato la coppia attraversare la piazza e sparire oltre la porta di un normale edificio. Li abbiamo seguiti, e ci siamo ritrovati in un piccolo caffè con una dozzina di persone, più o meno. Nessuna di loro parlava molto. Sembravano in attesa. Qua e là si vedeva spuntare quella piccola spilletta. Poco dopo, non facendo caso a noi, hanno iniziato a uscire da soli o a gruppi di due.

Bettina aveva parlato brevemente con un giovane uomo che le aveva dato un altro indirizzo. Quindi ci siamo spostati a due a due verso l’uscita, siamo saliti su una metro semi vuota, percorso un paio di fermate, superato un’altra piazza verso una grande chiesa fatta di mattoni rossi, a fianco della quale stava la parrocchia. Stava iniziando a diventare buio e le luci brillavano dalle finestre. Fuori, tutto attorno all’edificio, c’erano delle piccole Trabant rosse.

Avevamo trovato la strada per Erloeserkirche, o Chiesa del Redentore, dove quella sera centinaia di persone si erano riunite alla luce delle candele. Alcune rappresentavano diversi gruppi democratici, che stavano lavorando a una dichiarazione congiunta che mettesse in chiaro i termini per una nuova società nella Germania dell’Est, che comprendesse libertà di espressione e libere elezioni (il capitalismo, almeno allora, non era all’ordine del giorno). Molti altri erano arrivati a Berlino dal profondo est per catturare uno sguardo di Gorbachev, che stava per arrivare in città per celebrare l’anniversario della RDT. Essi indossavano – dapprima timidamente, poi con orgoglio – le loro spillette della perestroika, emblemi orgogliosi di quella che sembrava essere una rivoluzione pacifica.

Non riuscivo a capire quello che veniva detto, quindi mi limitavo a guardare la folla; la gente ascoltava in silenzio e in modo serio, ma l’aria frizzava di una energia inespressa. Quando la riunione giunse a termine, seguimmo la folla all’esterno. All’improvviso, le porte delle piccole macchine rosse si chiusero. I motori si accesero. Gli uomini dentro le auto osservavano fuori mentre seguivano i loro bersagli nella notte.

Se tutto ciò suona come una storia di John Le Carre, è perché le cose a Berlino est le cose erano davvero così, e lo sono state fino alla fine. Se si può dire che ci fosse un certo sentore di cambiamento, né miei colleghi né io sapevamo di essere testimoni del realizzarsi di una trasformazione cataclismatica nella politica globale. E, penso, nemmeno le persone dentro la chiesa ne erano consapevoli. Ma quella settimana le chiese di Berlino, di Lipsia e di altre parti sarebbero diventate luoghi di dimostrazioni e arresti di massa. Ancora una settimana e Honecker avrebbe dato le dimissioni. Nel giro di un mese, mezzo milione di persone avrebbero dimostrato in Alexanderplatz, a Berlino Est; pochi giorni dopo il Muro sarebbe caduto.

I membri del movimento pro democratico che si erano riuniti in quelle chiese invocavano il nome di Dietrich Bonhoeffer, il pastore luterano che si era opposto a Hitler e che era stato ucciso dal Terzo Reich; rendevano omaggio a Martin Luther King, Jr., che aveva dato vita a un movimento di liberazione dal suo pulpito in Atlanta.

Hanno applaudito Gorbachev, che vedevano come un sostenitore delle loro rivolte, ed erano affamati di notizie riguardanti i dissidenti in altre parti dell’Europa dell’Est. Ma non ho mai sentito neanche una volta uno di loro nominare Ronald Reagan. Nonostante possa essersi perso nella pretenziosa retorica dell’auto-glorificazione dell’occidente, soprattutto dell’America, il fatto è che la caduta del Muro di Berlino –e di fatto la nostra cosiddetta vittoria della Guerra Fredda – non ha praticamente nulla a che fare con noi. Non è dovuta ai miliardi che gli Stati Uniti hanno speso per le armi nucleari o alle centinaia di agenti segreti di cui ci siamo serviti (nessuno dei quali, comunque, ha avvertito l’avvicinarsi di tutto questo). Deve sicuramente qualcosa all’anticonformista premier sovietico che ha creato una finestra di opportunità.

Ma, alla fine, è tutto merito di persone come questi giovani senza pretese di Berlino Est, che hanno sfidato la consuetudine di 40 anni di repressione e un’armata di piccole macchine rosse per riunirsi in una chiesa durante una pungente sera di ottobre.

James Ridgeway può essere contattato a The Unsilent Generation.

Titolo originale: “The End of the Little Red Cars”

Fonte: http://www.counterpunch.org/
Link
11.11.2009

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di RACHELE MATERASSI

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