DI FRANCO CARDINI
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E’ trascorsa da poco la “Giornata della Memoria”, il 27 gennaio, e siamo alla “Giornata del Ricordo”, il 10 febbraio. C’è un rapporto, tra le due date e le due celebrazioni? Ed esauriscono, prese insieme, il nostro bisogno e il nostro dovere di ricordare? E chi poi, con precisione, dovrebbe ricordare che cosa? E a quale scopo?
Mi pongo queste domande proprio oggi, domenica 7 febbraio, perché all’uscita dalla mia chiesa c’era un gruppo di suorine che stava facendo la questua per una loro casa di riposo, dov’esse ospitano anziani del tutto poveri o provvisti di mezzi talmente modesti da non potersi permettere residenze comode o magari anche solo decorose per passarvi la vecchiaia. Queste religiose vivono esclusivamente della carità pubblica: e la loro è un’esperienza molto dura, al limite della sopravvivenza. C’è tanta gente, oggi, anche nel nostro felice e ricco Occidente, che tira avanti male: e molti sembrano non tenerne conto, anzi fingono d’ignorarlo e si mostrano seccati se qualcuno lo ricorda loro. Qualcuno ha detto che due giorni “del ricordo” o “della memoria”, per giunta a ruota, sono troppi. Al contrario: credo siano troppo pochi. Questo non è un mondo che ricorda troppo. E’ un mondo di smemorati, e spesso della peggiore specie: quella di chi non ricorda perché non vuol ricordare. E che ricorda solo quel che gli conviene, e quando non costa né rischio né fatica. E magari ricorda qualcosa per nasconderne qualche altra.
Il 10 febbraio si ricordano le foibe istriane, i 350.000 italiani esuli, le migliaia di persone spesso del tutto innocenti scaraventate nelle voragini carsiche e lasciate a morire spesso senza nemmeno la “carità” di una pietosa sventagliata di mitra ad accorciarne l’agonìa. Sono storie nostre: del nostro tempo, della nostra gente. Ma io sono del ’40: abbastanza vecchio per ricordarmi bene di un tempo nel quale non si parlava nemmeno della shoah. Delle foibe, poi, manco a pronunziarle: o erano una menzogna, o c’era sì qualcosa di vero, ma si era trattato di regolamenti di conti contro i “fascisti”. E fascista era chi insisteva su quel tema, chi pretendeva di parlarne. Ho sott’occhio mentre scrivo il vol. IV della prestigiosa Enciclopedia Europea, uscito nel ’77. Era il fiore all’occhiello, laico e lungimirante, di quello straordinario, raffinatissimo uomo di cultura ch’era Livio Garzanti. Vi collaboravo anch’io. Ebbene, al volume che raccoglie la voci da Delacroix a Fozio, sulle foibe non c’e nemmeno una riga. E non era certo una pubblicazione “comunista”.
Oggi che finalmente delle foibe si può, anzi si deve parlare (il “dovere della memoria”!) dovrei essere finalmente contento. Ebbene: non lo sono granché. Ho vissuto anche in prima persona – ho qualche amico politico, che a suo tempo mi ha chiesto consigli – l’instaurazione delle due giornate, “memoria” e “ricordo”. Ne parlai a suo tempo anche a lungo con l’amico Furio Colombo, promotore del disegno di legge relativo alla prima. Ho l’impressione che le intenzioni iniziali di chi ha voluto queste due celebrazioni siano state malintese e tradite: e non involontariamente. Non a caso, qualcuno ha creduto che in fondo si trattasse della solita tecnica: un colpo al cerchio, un colpo alla botte. Ricordo la shoah e cosi faccio piacere alla sinistra, ricordo le foibe cosi e contenta anche la destra. E’ un parere bécero, ripugnante: ma più diffuso di quanto non si pensi.
Invece il discorso è un altro. Rileggetevi la nobilissima requisitoria conclusiva del procuratore generale dei processi di Norimberga: essi non dovevano servire solo a punire i responsabili delle atrocità naziste, ma a impedire che esse potessero in qualche modo ripetersi in futuro.
Ebbene: questa seconda parte di quel nobile programma è fallita. Da allora, la terra ha continuato a rigurgitare di vittime innocenti e d’insaziabili carnefici: e non alludo soltanto a Pol Pot. Alludo anche alle vittime delle “guerre democratiche”, quelle “del fuoco amico” e dei “danni collaterali”; alludo a chi ancora oggi, da Tijuana in Messico a Belfast in Irlanda a Melilla in Marocco a Gaza in Palestina, vive ghettizzato dietro un muro e magari viene ammazzato se cerca di evadere. Alludo ai bambini che dall’Africa centrale ad Haiti muoiono di povertà, di mancanza di cure mediche, di carenza di cibo e d’acqua, di AIDS.
I morti di Auschwitz e quelli delle foibe, purtroppo non possiamo più averli con noi. Credo sia necessario far in modo di non dimenticarli. Ma il modo migliore per onorare il loro ricordo sarebbe fermare una buona volta i massacri presenti e futuri. Anche quelli che in apparenza non hanno responsabili: perché l’egoismo, la disinformazione, la pigrizia, possono essere assassini ancora peggiori di un carnefice armato. La memoria è necessaria: non è sufficiente. Quel che resta ancora da fare, è uscire dal cerchio stregato della complicità passiva e incosciente, disinformata e incurante, ai massacri di oggi.
Franco Cardini
Fonte: http://www.francocardini.net/
7.02.2010