LA FABBRICA DEL FALSO – Strategie della menzogna nella politica contemporanea

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DI VLADIMIRO GIACCHE’
Liberazione

L’insidia rappresentata dall’attacco contemporaneo alla verità consiste per l’appunto nel fatto di non presentarsi, se non in casi estremi, sotto la veste della pura e semplice menzogna. Le strategie di attacco alla verità sono molteplici, e in genere meno rozze.

La verità mutilata

Nella famosa sequenza dell’abbattimento della statua di Saddam Hussein a Bagdad, divenuta una delle icone della guerra in Iraq, le inquadrature mandate in onda sulle tv internazionali e pubblicate sui giornali erano così ravvicinate da non mostrare che la piazza era praticamente deserta e che la “folla festante” si riduceva a poche decine di iracheni. In questo caso la verità viene mutilata dal taglio delle foto, che impedisce di vedere lo spazio in cui ha luogo l’evento, e ne induce una falsa rappresentazione.

Ma il contesto non è soltanto lo spazio circostante di una determinata scena. Sono anche le circostanze entro le quali va collocato un evento, come pure il prima e il dopo di quell’evento stesso. Come ha osservato lo storico Enzo Collotti, anche l’istituzione di una “giornata del ricordo” sulle foibe e sull’esodo istriano del dopoguerra è stata resa possibile soltanto dal fatto che «per i protagonisti di simili operazioni la storia comincia nel 1945». Non è così.
Come scrissero anni fa i componenti di una Commissione mista di storici italiani e sloveni, «il fascismo cercò di realizzare nella Venezia Giulia un vero e proprio programma di distruzione integrale della nazionalità slovena e croata». Tale programma conobbe un’accelerazione nel 1941, quando l’Italia fascista incorporò nel proprio territorio la parte meridionale della Slovenia. Innumerevoli furono i rastrellamenti, gli incendi dei villaggi, le torture, le fucilazioni sommarie in Jugoslavia da parte dell’esercito fascista. Le stesse foibe furono utilizzate inizialmente proprio dai fascisti, già nei primi anni Venti.
La tragedia delle foibe – e poi dell’esodo – fu quindi una tragedia annunciata. Quanto si è visto non la giustifica in alcun modo, ma consente di comprenderne le radici, di inserirla nel contesto storico in cui nacque. E precisamente a questo scopo dovrebbe servire la “giornata del ricordo”. È avvenuto il contrario.

La verità dimenticata

Fu Napoleone il primo a formulare esplicitamente il progetto di «dirigere monarchicamente l’energia dei ricordi», proponendo la storia come instrumentum regni. Oggi la più alta realizzazione di quel progetto è rappresentata, in modo solo apparentemente paradossale, dalla negazione e distruzione del passato. È il trionfo della storia-Disneyland. La storia Disneyland ristruttura il tempo così come le onnipresenti filiali delle multinazionali organizzano lo spazio: intorno al consumo. Così il passato, ciò che è lontano nel tempo, diviene una copia sbiadita e banalizzata del nostro presente, al massimo condita da bizzarrie e superstizioni un po’ patetiche.
Per ciò che riguarda il passato recente, si ricorre ad una diversa strategia comunque sempre basata sulla indefinita riscrivibilità del passato. Una strategia che ha due volti complementari.
Per un verso, intellettuali pensosi caldeggiano la “strategia dell’oblìo” e della “riconciliazione”. Tale strategia viene proposta per l’Italia, ma anche per i delitti di Pinochet in Cile e di Videla in America Latina. Anni fa, per giustificare il progetto di erigere una chiesa sul luogo della strage di Portella della Ginestra, dove il bandito Salvatore Giuliano nel 1947 massacrò a colpi di mitra braccianti comunisti e socialisti, il sindaco di Piana degli Albanesi, Gaetano Caramanno (di Forza Italia), ha invocato la “riconciliazione”. Giustamente c’è chi si è interrogato perplesso: «Che significa riconciliazione? Le nostre vittime sono state uccise dalla mafia, dobbiamo riconciliarci con la mafia?». Ma precisamente questo è ciò che la parola d’ordine della “riconciliazione” richiede e vuole: far vincere l’ingiustizia anche nel ricordo, cancellando i simboli e la memoria delle lotte passate, dei morti e dei crimini subiti.
Che questo sia più in generale il vero obiettivo anche degli appelli alla “riconciliazione” tra fascisti e antifascisti, ce lo dice l’altra faccia della strategia per il dominio della memoria messa in campo negli ultimi anni: che è, con estrema chiarezza, l’apologia (diretta o indiretta) del fascismo, della sua memoria e dei suoi simboli. Abbiamo così un pullulare di strade dedicate a Giorgio Almirante, nonché ad altri fascisti e gerarchi vari; in qualche caso, fascisti sconosciuti prendono il posto di illustri vittime del fascismo: come a Guidonia, dove il nome di Antonio Gramsci è stato sostituito da quello di un fascista ignoto, tale Aldo Riccardo Chiorboli.

La verità messa in scena

Che oggi la verità sia messa in scena, è vero in più di un senso.
È vero innanzitutto nel senso che gli eventi vengono organizzati in funzione della loro rappresentazione e proiezione mediatica. Così, il raid statunitense del 1986 sulla Libia fu programmato in modo da coincidere con i telegiornali di maggiore ascolto. Anche l’attentato alle Torri Gemelle, del resto, fu concepito in maniera tale da avere la massima copertura mediatica possibile: tanto che si è potuto sostenere che l’attentato sia stato realizzato avendo in vista prima di ogni altra cosa «il suo effetto spettacolare».
Ma è vero anche che ormai importanti eventi politici sono inscenati come uno spettacolo. L’esempio più impressionante degli ultimi anni è senz’altro rappresentato dalla vera e propria recita di Colin Powell sul palcoscenico delle Nazioni Unite – con l’esibizione della famosa “fialetta di armi chimiche di Saddam”. In questo caso si potrebbe obiettare che si tratta di uno spettacolo riuscito a metà, in quanto la recitazione di Powell non convinse pressoché nessuno dei suoi colleghi delle Nazioni Unite. Ma bisogna tenere conto che esso ebbe un ben diverso impatto sull’opinione pubblica degli Stati Uniti – che era in fondo la vera destinataria del discorso di Powell.
Abbiamo infine gli accadimenti inscenati in senso stretto, ossia vere e proprie messinscena nel senso deteriore del termine. Tutta la storia della cosiddetta “guerra al terrorismo” è disseminata di casi del genere.

La verità rimossa

L’altra faccia della messa in scena è ciò che viene spinto fuori scena. Come osservava Susan Sontag, «fotografare significa inquadrare, e inquadrare vuol dire escludere». Spesso l’importanza del posizionamento di un riflettore non dipende da ciò che illumina, ma da quello che decide di lasciare al buio. Ad una verità gridata e messa in scena corrisponde sempre una verità taciuta e rimossa.
Spesso la rimozione della verità non ha proprio nulla di metaforico. La messa in scena dei Giochi Olimpici 2004 in Grecia ha richiesto la deportazione di gran parte degli 11mila senzatetto che vivevano ad Atene.
Si tratta di una modalità di “soluzione” dei problemi che oggi conosce numerosissime varianti, in tutto il mondo. Pensiamo al divieto, formulato dal comune di Las Vegas, di fornire cibi e bevande ai senzatetto nei parchi cittadini (in quanto i barboni scoraggiano il turismo e vanificano “gli sforzi di abbellimento” del comune). O al gas maleodorante – ma anche tossico e irritante – che il sindaco della città francese di Argenteuil ha fatto spruzzare sui luoghi di ritrovo dei senzatetto nel centro della città. O alle fantasiose ordinanze comunali che in molte città italiane vietano – volta a volta – di chiedere l’elemosina, di lavare i vetri delle macchine agli incroci, di vendere merci per strada, e così via. Su un altro piano – ma ispirata alla stessa estetica dell’occultamento e della rimozione – è degna di essere ricordata anche la prima iniziativa assunta da Rumsfeld a tutela del buon nome degli Stati Uniti dopo lo scoppio dello scandalo delle torture in Iraq: vietare ai soldati l’uso dei videofonini.

La verità capovolta

Anziché censurare una notizia, si può ottenere lo stesso effetto limitandosi a distorcerla. Per questa via si può giungere sino a capovolgere completamente la verità dei fatti. Come nel caso della sineddoche indebita. La sineddoche è una figura retorica ben nota già ai maestri di eloquenza dell’antichità. Nella sua variante più usata, essa consiste nell’adoperare la parte di una cosa per designare la cosa nella sua interezza ( pars pro toto ). Così, nell’espressione “accolse sotto il suo tetto”, il termine “tetto” indica la casa nel suo insieme. Si tratta di un modo di esprimersi che può essere letterariamente efficace, e che comunque nel caso specifico non è improprio: infatti il tetto è una parte essenziale della casa. Spostiamoci adesso dal mondo delle belle lettere e passiamo a quello della cattiva informazione. È qui che ci imbattiamo nella sineddoche indebita. Che consiste nel trascegliere, all’interno di un fenomeno complesso, un elemento irrilevante (e comunque non caratterizzante) ed utilizzarlo quale elemento qualificante per descrivere e definire tutto quel fenomeno. Sembra un procedimento astruso, invece è concretissimo. È il metodo che la stampa italiana, nella sua quasi totalità, ha adoperato a proposito di diverse manifestazioni di protesta degli ultimi anni.
Un esempio per tutti. Sabato 18 novembre 2006. Decine di migliaia di persone manifestano pacificamente a Roma per la creazione di uno Stato palestinese. Nove idioti gridano slogan idioti su Nassirija e bruciano 3 pupazzi raffiguranti dei soldati. L’indignazione riempie le prime pagine di tutti i giornali per diversi giorni. «Insulti, roghi: bufera sul corteo»: così la Repubblica, 19 novembre 2006 (titolo in prima, corredato di una foto tipo guerriglia urbana anni Settanta). Nell’articolo di Miriam Mafai pubblicato in prima pagina, dal titolo “Chi marcia con i teppisti “, i nove idioti sono già diventati «poche centinaia». Nessun quotidiano informa i propri lettori su quello che era veramente successo in piazza. Nove persone ne oscurano sessantamila.

La verità imbellettata

Come abbiamo visto, i metodi per distorcere la verità sono molto più semplici a praticarsi della sua semplice rimozione. Ad esempio si può imbellettarla, metterle un po’ di cerone per farla sembrare meno brutta di quello che è. A questo riguardo l’arma principale è rappresentata dall’eufemismo.
Molti eufemismi fioriscono nel campo dell’economia. Anni fa l’amministratore delegato di Mediaset, Fedele Confalonieri, ad un giornalista che gli chiedeva come valutasse l’elusione fiscale, rispose testualmente: «Dipende. Se la consideriamo una forma di ottimizzazione fiscale non c’è nessun problema». E lo stesso termine di “capitalismo” è praticamente sparito dal lessico contemporaneo, per essere sostituito da termini anodini (e sostanzialmente privi di significato) quali “società di mercato”, “sistema di mercato”, o addirittura “mondo delle imprese”.
Ma ovviamente è la guerra, per sua natura (ossia per il suo intrinseco orrore), l’àmbito privilegiato per l’impiego degli eufemismi. Molti eufemismi adoperati a questo riguardo sono stati inventati (o sono entrati nel lessico corrente) a partire dagli anni Novanta. I più usati: “operazione di polizia internazionale”, “azione militare” (possibilmente “delle Nazioni Unite”), e poi un classico come “forza”. Gli eufemismi per la guerra non finiscono qui: abbiamo “regime change” (che sta per “invasione militare”), “difesa preventiva” e “attacco preventivo” (che stanno per “attaccare un paese che non ci ha attaccato”).

Ma nel caso della guerra, in fondo, lo stesso tabù rappresentato dall’uso di questa parola – che reca il marchio d’infamia indelebile della realtà a cui si riferisce – è ormai caduto. E l’eufemismo si può esprimere quindi sotto forma di qualificazione ed aggettivazione della parola “guerra”: abbiamo così la “guerra al terrorismo”, come prima avevamo avuto “guerra umanitaria” (uno degli ossimori più macabri escogitati nei nostri anni). In occasione della guerra all’Iraq è stato risuscitato addirittura il concetto di “guerra etica”; e non va dimenticato che questa guerra si è infine magicamente trasformata in “guerra per la democrazia”, allorché è stato chiaro che delle famose “armi di distruzione di massa” di Saddam non c’era neanche l’ombra. Infine, Bush jr. ha avuto il coraggio di dire alle famiglie dei soldati feriti in Iraq che «la guerra in Iraq è davvero una guerra per la pace». Questo è Orwell: nel suo 1984 , “la guerra è pace” è addirittura il primo degli slogan dipinti sulla facciata del Ministero della Verità. Se guardiamo alle date, dobbiamo constatare che Orwell si era sbagliato di neanche vent’anni. Ma non avrebbe mai immaginato che la sua satira, scritta in funzione anticomunista, si sarebbe applicata così bene al capitalismo reale.

Vladimiro Giacché è nato a La Spezia nel 1963. Si è laureato e perfezionato in Filosofia alla Scuola Normale di Pisa. Lavora nel settore finanziario. È autore di volumi e saggi di argomento filosofico ed economico, fra i quali Finalità e soggettività. Forme del finalismo nella Scienza della logica di Hegel (Pantograf 1990), La filosofia. Storia e testi (con G. Tognini, La Nuova Italia 1996) e Storia del Mediocredito Centrale (con P. Peluffo, Laterza 1997). Per le nostre edizioni ha pubblicato Escalation. Anatomia della guerra infinita (con A. Burgio e M. Dinucci, 2005). Suoi articoli sono stati pubblicati in volumi collettanei e ospitati su numerose riviste italiane e straniere.

Fonte: www.liberazione.it
3.06.08

Tratto da “La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea”, DeriveApprodi, pp.276, euro 18

uscita prevista per metà giugno 2008

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