DI MIGUEL MARTINEZ
Kelebek
Babbo Natale, il golem buono e trasversale del consumo natalizio, è una figura demoniaca dei nostri tempi, che contribuisce alla deformazione e al pervertimento di solito irrimediabile delle più giovani generazioni.
Se si osa dire questa banale verità, si viene accusati di voler privare tali giovani generazioni della magia dell’infanzia.
Vorrei proprio sapere cosa avrebbe di magico questa sorta di facchino per conto della GD (Grande Distribuzione), la cui magia consiste nel far comparire merci; cosa avrebbe di magico la sua fabbrica di giocattoli dove non si sciopera mai; o il suo costume indossato per le vie commerciali da decine o centinaia di replicanti immigrati e precari.
Babbo Natale porta addosso poi il segno più chiaro dell’artificialità: il moralismo. Creatura imposta dai genitori ai figli, che aiutano a stilare le famigerate Lettere a Babbo Natale, la sua funzione più evidente è quella ricattatoria – Babbo Natale arriverà solo se ti comporti bene.[1]Se mi è lecita una nota personale – la mia grande fortuna è di essere cresciuto con una visione opposta, che rivendico fieramente.
Sapevo da sempre che il Babbo Natale di cui si parlava (a quei tempi relativamente poco) era una truffa. Invece, la mia magia veniva dai libri di Lewis Carroll, Alice’s Adventures in Wonderland e Through the Looking Glass and what Alice Found There.
Dico “libri”, e ne cito i titoli in inglese, perché si tratta per me sempre e solo di libri in lingua inglese. So che ne traggono film e fumetti e gadget e quant’altro da oltre un secolo, so che l’Industria del Bambino Felice ne ha estratto miliardi da far spendere in cocaina ai propri dirigenti; ma grazie a Dio, non ho mai avuto contatti diretti con nulla di tutto ciò.
Babbo Natale è un’imposizione dei genitori ai figli, e dell’intero sistema sociale ai genitori. Babbo Natale è disciplina ricattatoria. E la sua unica mission (per usare l’aziendalese, che non è l’inglese) consiste nella mediazione di merci.
Lewis Carroll fu l’esatto contrario.
“Il perché di questo libro non può e non deve essere spiegato a parole. Le persone per cui la mente di un bambino è un libro sigillato e che non vedono nulla di divino nel sorriso di un bambino leggerebbero invano tali parole; mentre chiunque abbia amato un bambino, non ha bisogno di parole. Perché lui avrà conosciuto la awe che cade su qualcuno che si trovi in presenza di uno spirito uscito fresco dalle mani di Dio, su cui non è ancora caduta alcuna ombra di peccato, e solo il tocco più esterno dell’ombra del lutto; avrà sentito l’amaro contrasto tra l’egoismo che guasta le sue migliori azioni e la vita che è solo amore che trabocca. Perché penso che il primo atteggiamento di un bambino verso il mondo consista in un semplice amore verso tutte gli esseri viventi. E avrà appreso che la migliore opera che un uomo possa compiere sia quando agisce solo per amore, senza pensare alla fama o al guadagno o a un premio terrestre”.[2]
Non si tratta affatto di un esercizio di retorica.
Prima di tutto, Alice non nasce per fama o guadagno, ma effettivamente per amore, grazie anche – ovviamente – alla violenza di un sistema sociale che con la fatica dei contadini e degli operai poteva permettere a un timidissimo epilettico di vivere come matematico. Come la stessa violenza ha permesso che esistesse, per la prima volta, una vera e propria infanzia con cui quel matematico potesse comunicare.
L’amore è quindi la condizione fondamentale dell‘autenticità – e nel racconto di Babbo Natale non si trova traccia, né dell’uno né dell’altra.
Lewis Carroll non fu certamente un sovversivo politico; eppure la sua opera sottintende un’idea davvero rivoluzionaria, possibile solo grazie alla natura indefinita della religione anglicana: la verità si trova dentro lo “spirito uscito fresco dalle mani di Dio”. L’anima non proviene dal peccato, da cui la deve guarire la correzione sociale; piuttosto, per Carroll, l’anima si guasta, tra lutto, peccato ed egoismo, nel corso della vita.
“Still she haunts me, phantomwise.
Alice moving under skiesNever seen by waking eyes.”
Chi invece è in grado di ascoltare ciò che vive dentro il bambino, è sopraffatto da ciò che Lewis Carroll chiama con quella meravigliosa e intraducibile parola inglese che è ‘awe’ – una parola che lascia, letteralmente, a bocca spalancata.
La morale implica distinzione: questo si può fare, questo no… invece, l’atteggiamento primario di un bambino consiste nel “semplice amore verso tutte gli esseri viventi“. Questo rifiuto di operare una distinzione è quindi amorale (non immorale); e tutta l’opera di Lewis Carroll è infatti assolutamente amorale. Non pretende di insegnare nulla, non indica esempi né positivi né scellerati.
Ma scorre con l’amore radicale che c’è nel bambino, nei suoi punti di vista imprevisti, arricchito solo dall’ironia e dal dominio del linguaggio dell’adulto.
Nella storia di Babbo Natale, sono i grandi magazzini che parlano, con la complicità dei genitori.
Nella storia di Alice, è Alice che parla, racconta, si perde, si addormenta, si risveglia e ride, si tira su le maniche e con bright eager eyes, raccoglie eccitata le piante profumate che crescono nel fiume.
“What mattered it to her just then that the rushes had begun to fade, and to lose all their scent and beauty, from the very moment she picked them? Even real scented rushes, you know, last only a very little while – and these, being dream-rushes, melted away almost like snow, as they lay in heaps at her feet – but Alice hardly noticed this, there were so many other curious things to think about”.
Note:
[1] Ci deve essere un motivo, poi, per cui i genitori preferiscono scaricare sul Grande Distributore Automatico Rennamunito le complessità psicologiche implicite nello scambio di regali, invece di vivere speranza, gratitudine, felicità e disappunto insieme.
Lewis Carroll (Charles L. Dodgson), The Complete Illustrated Lewis Carroll, with an introduction by Alexander Woollcott, Wordsworth Editions, 1996, Ware, UK, p. 7.
Fonte: http://kelebek.splinder.com/
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24.12.2008