LA CITT DEL CEMENTO

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DI LUCA PAOLO VIRGILIO

Sciami di parole sono stati riversati

nel post-terremoto di L’Aquila, città di provincia fin troppo discreta

che il fragore del cataclisma ha catapultato, suo malgrado, sul palcoscenico

della cronaca spicciola e spettacolarizzata. Sono stati lanciati allarmi

sulla depressione sociale che riempie luoghi disumanizzati, si è parlato

del declino economico (che in realtà inizia molto prima dell’anno

zero) e del lavoro che non c’è, si è protestato contro le istituzioni

a ogni livello per lo stallo decisionale rispetto a lavori che vanno

a rilento o non partono mai, e tuttora si lamenta la totale incapacità

di decidere del destino del centro storico.
Nella centrifuga mediatica delle questioni

urlate e mai approfondite, spicca però l’assenza di un elemento centrale

del contesto urbano aquilano, che proprio in seguito al terremoto è

passato dall’essere presenza facilmente ignorata a indiscusso protagonista

del panorama cittadino, ora anche rurale: la bruttezza. La Bruttezza,

anzi, esplosa rumorosamente in un orgasmo di laterizi e pilastri e gru

e portoni di alluminio e aumenti di cubature e sfregi ambientali e colori

accesi e accecanti e chi più ne ha più ne metta.

Già prima dei crolli, il territorio

aquilano era stato vittima di un’ondata di urbanizzazione selvaggia

che aveva contribuito a devastare le periferie, soffocandole sotto una

colata di cemento gettato qua e là senza alcun criterio, se non la

solita illuminata e benedetta logica del profitto, sottraendo alla vista

porzioni sempre più ampie della splendida cornice di parchi nazionali.

Il centro storico si era perlopiù salvato dall’avidità dei palazzinari

– e dei loro ganci istituzionali di turno – un po’ per mancanza

di aree edificabili, un po’ perché brandelli di vincoli architettonici

e sprazzi di pudore sopravvivono, seppur a stento, in questo Paese malandato.

Evitando le guasconate degli Anemone

e dei Balducci, l’esercito di costruttori locali ha potuto ugualmente

godere delle opportunità di una nuova, e definitiva, cementificazione

selvaggia, svincolata da ogni controllo, in nome di un’emergenza edilizia

più inventata che reale. Sono così iniziati a spuntare come funghi

capannoni industriali, spaventosi condomini degni del peggior brutalismo

architettonico, ecomostri a tre teste, e una variegata rassegna di orrori

urbani di ogni genere tirati su da un giorno all’altro tra i silenzi

istituzionali e l’indifferenza delle persone.

Aborti cementizi di ogni forma, dimensione,

stile e colore, hanno preso vita come mostri dalle mani di uno scultore

del maligno: dalle riproduzioni di palazzi arabeggianti all’esplosione

di villette modello Uni Posca, da immaginifici tributi a Gotham City

a esperimenti architettonici che meriterebbero il carcere, la città

indifesa è stata trasformata in una penosa carnevalata del kitsch terrone,

dove osceni accostamenti di colore prosperano al fianco di giganteschi

palazzoni che riducono una poetica scenografia (ormai defunta) da cartolina

a una poltiglia informe di cementi.

L’altra faccia di questo Rinascimento

al contrario è la fiorente “cultura delle rotonde”, dottrina urbanistica

ormai egemone che ha imposto una riproduzione seriale e infinita di

anonime rotatorie stradali a ogni incrocio, al posto di semafori e STOP

che nel loro indecente anacronismo mal si adattano alle illuminate visioni

avant-garde dei Sapienti Ingegneri e Protettori Civili. Una manciata

di sicurezza stradale si può pagare a caro prezzo, ma mi domando se

non ci sia davvero un modo di coniugarla, se non con la bellezza, quanto

meno con una dose minima di decenza estetica.

Ogni rientro a casa aquilano assume

i contorni irreali di una malinconica traversata tra pezzi di Val Padana

e immagini sbiadite di Atlantic City, scene ugualmente decadenti, e

spesso, data la situazione, anche cadenti. Strade provinciali immerse

in nebbie di recente apparizione (miracoli dei terremoti), accecanti

neon arancioni emessi da pali della luce orwelliani che sembrano spiare

ogni movimento, massicci capannoni industriali semivuoti – del resto

da queste parti non esistono industrie. Un sogno autostradale si è

impossessato di luoghi che solo poco tempo fa erano casa di prati sconfinati

e balle di fieno e cieli stellati.

Una città medievale tra le più

belle del centro Italia è stata trasformata in un paesino brianzolo

(senza voler offendere nessuno) disteso lungo una strada statale. E

in questa santificazione del Brutto non c’è spazio per giustificazioni

istituzionali: è stata una proliferazione sì selvaggia e caotica,

ma scientemente pianificata dalla “Grande Edilizia che fa crescere

il PIL” e imperdonabilmente trascurata (per negligenza?) da chi doveva

vigilare, decidere dei permessi, stabilire i criteri di costruzione.

Da “L’Aquila bella me” a Regno

dei Palazzinari e Città delle Rotonde, il passo è stato breve ma non

indolore. La sistematica trasgressione di qualsiasi vincolo estetico,

architettonico e paesaggistico trasforma il Brutto in un compromesso

necessario, lasciandolo prosperare nell’incuria delle autorità pubbliche

e la disillusione, ormai evoluta in sconforto e rassegnazione, degli

Aquilani, ai quali un po’ per volta viene sottratto un pezzo di verde,

di ossigeno, di cielo, di terra, rimpiazzato dall’occupazione fisica

e militaresca di un cemento che qui è davvero armato e si prepara ad

ammazzarci tutti.

Come zombie gli Aquilani vagano senza

meta per i centri commerciali, apatici e indifferenti rispetto a qualsiasi

abuso ambientale e al Grande Orrido che gli fiorisce attorno. È

una negligenza comprensibile per gente stanca e martoriata, ma comunque

non giustificabile. Se abbiamo perso la magia del Centro storico, che

era la città, capace di cancellare dalla mente le nevrosi cementizie

della periferia, non possiamo lasciare che ci venga distrutto sotto

il naso l’estremo legame con la nostra storia, l’essenza stessa

dei luoghi che abitiamo, l’ultima opportunità di rinascita di una

città abbandonata.

Dobbiamo difendere ciò che resta

di bello in un territorio urbano già fortemente compromesso: si

deve costruire secondo forme meno invasive, non distruttive del territorio

ma anzi capaci di valorizzarlo. L’edilizia urbana sia integrata nel

contesto, adeguata alla storia dei luoghi, rispettosa dell’ambiente,

sostenibile, discreta; in una parola, bella. Dobbiamo pretendere piani

regolatori, severi vincoli ambientali, rigidi controlli e una ferma

volontà di tutelare il patrimonio paesaggistico e naturale, oltre a

una certa sensibilità estetica, che peraltro non è appannaggio di

tutti.

Appena più in là s’intravede

l’ombra di un nemico perfino più pericoloso del cemento: è l’Assuefazione,

che poco alla volta ti convince che in fondo L’Aquila sta bene così,

cosa sarà mai un palazzone in più su quel prato incolto, una variante

sopraelevata che cancella per sempre la vista del Velino, un capannone

che sovrasta una campagna altrimenti inutile! Storditi dall’aria irreale

del Regno della bruttezza, ci dimenticheremo in fretta com’eravamo,

com’era L’Aquila; faremo nostro il gusto dei palazzinari; ammireremo

piante voraci impossessarsi di rovine medievali appartenute a tempi

lontani; voteremo come sempre il Partito del Nulla di turno, sperando

che assicuri un posticino in Comune a nostro figlio. E forse, in cuor

nostro, ammetteremo quanto siamo stati meschini a non muovere un dito

mentre questo schifo cresceva davanti ai nostri occhi.

Luca Paolo Virgilio

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