IN FUGA DALL'IRAQ (L'AUTOBIOGRAFIA DI UN DISERTORE AMERICANO)

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La Repubblica

Secondo alcune stime riportate da The New York Times, tra il 2002 e il 2006 i casi di diserzione sono triplicati rispetto al ‘ 97-2001, sia tra i soldati giovani che tra i veterani con esperienza in Iraq e in Afghanistan. La fuga dalla divisa coinvolge un preoccupante sei per cento di soldati. Dal 2002 a oggi il numero di militari sottoposti a corte marziale per diserzione è raddoppiato rispetto ai cinque anni precedenti. L’ avvocato di uno dei disertori ha citato l’ esempio di un militare che non ha esitato a tagliarsi il dito indice, quello del grilletto, con un’ accetta. – Anticipiamo alcune pagine tratte da “Il racconto del disertore” di Joshua Key in uscita da Neri Pozza (pagg. 240, euro 15).

“Non avrei mai pensato che un giorno avrei abbandonato il mio paese. E neppure avrei mai immaginato che il mio paese mi avrebbe abbandonato. I miei genitori mi hanno cresciuto insegnandomi a rispettare la patria e il governo del mio paese e ad avere fiducia nel mio presidente. Solo una decina di anni fa, vivevo in una roulotte con mia madre e il mio patrigno, giocavo a football nella squadra del liceo, lavoravo da Kentucky Fried Chicken e sognavo di mettere su famiglia nell’ unica città che conoscevo: Guthrie, Oklahoma, diecimila abitanti. A quei tempi sarei scoppiato a ridere se qualcuno mi avesse detto che un giorno sarei diventato un criminale ricercato dalla legge, un fuggitivo nel mio stesso paese, costretto ad attraversare il confine insieme a mia moglie e ai miei figli, come un branco di rifugiati. Sono un disertore di guerra, un sopravvissuto della guerra in Iraq. Ma prima, molto tempo prima che avvenisse tutto questo, sono dovuto sopravvivere alla mia stessa infanzia. Il giorno in cui ho compiuto nove anni ho sparato per la prima volta con una Magnum calibro 357. Solo tre anni dopo, ero già in grado di pulire, caricare e usare una qualsiasi tra le decine di armi da fuoco che il mio patrigno teneva nella nostra roulotte. A dodici anni ho abbattuto il mio primo cervo. E prima ancora di avere l’ età per radermi, sparavo già come un tiratore scelto. Bevevo ogni tipo di alcolico, avevo distrutto due macchine sulle stradine di campagna vicino a casa e facevo a botte con chiunque ne avesse voglia. Ma, già allora, sapevo distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Per esempio, sapevo che era sbagliato uccidere i cuccioli appena nati con un martello. Per questo motivo, sparai a un’ intera cucciolata e seppellii cagnolini prima che mio nonno li facesse fuori con il suo metodo antiquato. L’ Iraq mi ha tolto tutto il divertimento che provavo nel maneggiare le armi da fuoco, ma anche ai tempi in cui adoravo sparare, smisi di andare a caccia dopo aver abbattuto un cervo con una pallottola da dieci centimetri nel collo. (…)

A casa nostra non c’ erano libri né giornali. Avevo sentito parlare della guerra del Vietnam, ma non avevo la minima idea di quando fosse avvenuta né del perché gli americani l’ avessero combattuta. Di una cosa però ero sicuro. Se qualcuno mi avesse detto che aveva disertato, abbandonando il nostro esercito nel bel mezzo di una guerra, io l’ avrei accusato di essere un vigliacco e glielo avrei detto chiaro e tondo in faccia. C’ erano delle cose che proprio non bisognava fare. Quando andavo al liceo credevo fermamente che sarebbe stato un onore combattere e addirittura morire per il mio paese. In nessun caso ritenevo ammissibile che un soldato americano disertasse il suo esercito e tradisse la propria nazione. A ripensarci oggi, credo che gran parte della mia vita in Oklahoma sia servita a prepararmi per la guerra in Iraq. Nella nostra roulotte con due stanze da letto ci arrostivamo sotto il sole dell’ Oklahoma e morivamo di freddo durante l’ inverno. Perciò, quando sono arrivato in Iraq, ero già abituato a sopportare delle condizioni climatiche estreme, come qualsiasi altro americano. Crescendo nella fattoria di diciotto ettari di mio nonno ho imparato a usare le mani, ad aggiustare praticamente tutto quello che si rompeva e a far funzionare abbastanza bene qualsiasi cosa. (…)

Non avevo ancora idea di cosa mi avrebbe riservato il futuro, ma qualcun altro, là fuori, si stava già dando da fare per me. Non avevo ancora il diploma di liceo in tasca che un gruppo di reclutatori dell’ esercito aveva già iniziato a farsi vedere davanti alla nostra roulotte. Bussarono alla sottile porta, che nelle notti di vento si spalancava, e si presentarono con la promessa dell’ assicurazione medica e di un’ istruzione universitaria in cambio della mia firma per il servizio militare. Erano persone intelligenti, quei reclutatori. Non perdevano il loro tempo davanti alla porta di dottori e avvocati, ma venivano dritti dritti a cercare i poveracci come me. Poi dissero che mi sarei potuto arruolare anche a diciassette anni, bastava solo che mia madre firmasse. E allora lei li cacciò dalla sua proprietà, ma ormai il danno era fatto. I reclutatori avevano piantato il loro seme. Ci volle ancora qualche anno prima che cedessi alle loro promesse, però adesso sapevo che se mai mi fossi stancato del salario minimo, ad aspettarmi c’ era sempre l’ avventura della vita nell’ esercito. Ai tempi del liceo, non pensavo proprio che mi sarei arruolato e sarei andato a finire in guerra. Conoscevo solo Guthrie e la mia immaginazione non andava molto più in là. All’ epoca desideravo le stesse cose che desidero adesso: qualche ettaro di terra per far giocare i bimbi, un paio di cavalli, qualche maiale e un bel po’ di galline in un pollaio. Fin da bambino ho sempre pensato che mi sarebbe piaciuto guadagnarmi da vivere facendo il saldatore. L’ idea di lavorare con il fuoco mi ha sempre affascinato, sin dalla prima volta che J.W. mi ha fatto vedere come accendere un cannello. Sotto la fiamma, il metallo si trasforma in lava. E per lavorarlo non devi fare altro che seguire i suoi movimenti, assecondare la sua natura. Qualche volta ti incasini, ma va bene lo stesso. Se sbagli, non devi fare altro che sciogliere il metallo e ricominciare da capo. Non importa. Nessuno si è fatto male. Correggi i tuoi errori e la prossima volta farai meglio, scioglierai il metallo e tutto funzionerà. È questo che mi piace del saldare, la libertà di dire no, non ci siamo, voglio provare di nuovo. (…)

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Con sollievo e gratitudine posso dire di non aver mai ucciso nessuno, che fosse iracheno o americano. Ho già abbastanza problemi a convivere quotidianamente con i miei demoni e non sono sicuro che ce l’ avrei fatta ad andare avanti con le mani sporche del sangue di persone innocenti. Se fossi stato costretto a uccidere qualcuno, ci sono delle buone probabilità che dopo mi sarei ucciso anch’ io. Se fossi ritornato in Iraq, dopo il congedo di due settimane che avevo preso per stare con la mia famiglia, sarei sicuramente dovuto andare a fare dei raid, ad arrestare e terrorizzare della gente, simile a me in tutto e per tutto: gente povera, senza alcuna via di scampo dalla propria miseria. Gente affamata ma piena di risorse, in modo talvolta stupefacente. Non potrò mai dimenticare l’ immagine di un uomo iracheno che si stava avvicinando con la macchina a un posto di blocco, dove c’ ero io in piedi con la mia mitragliatrice spianata. La sua auto aveva il serbatoio della benzina rotto. Mentre guidava, teneva appesa con la mano una tanica di benzina fuori dal finestrino e la benzina scendeva lungo un tubo di gomma fino al motore. Era un uomo qualsiasi, che usava tutto il suo ingegno per sopravvivere in circostanze estreme. Ero di stanza a Fort Carson, in Colorado, quando il presidente George W. Bush dichiarò guerra all’ Iraq, e tempo due settimane stavo volando in zona di guerra. Non ero contento, ma ci andai pieno di buona volontà. Ho creduto a quanto mi hanno detto il mio presidente e i miei superiori. Qualcuno doveva liberare il mondo dalle armi di distruzione di massa. Qualcuno doveva deporre il malvagio tiranno Saddam Hussein. Qualcuno doveva salvare il mondo dai terroristi che si erano impadroniti dell’ Iraq e stavano minacciando la nostra vita. Sentivo che era un dovere fare la mia parte e farla il prima possibile, per non lasciare il problema in eredità ai miei figli. Anche Brandi, che era rimasta da sola a casa con Zackary, Adam e Philip, mi aveva detto:«Prendili, Josh, prendili tutti prima che siano loro a prendere te. Anche se si tratta di ragazzini. Anche loro sono dei terroristi». Le avevo creduto. La pensavo allo stesso modo. Durante tutto il periodo di addestramento militare in Missouri e Colorado, nessuno aveva mai definito gli iracheni come persone o cittadini, o uomini, donne e bambini. Li chiamavano negri del deserto, teste di stracci, habibs, hajjis e, soprattutto, terroristi. Nell’ esercito degli Stati Uniti d’ America non c’ erano altre parole per loro. I miei superiori non facevano alcuna distinzione tra civili e combattenti. Per quanto li riguardava – e io gli credevo ciecamente – c’ erano solo nemici in Iraq, e tutti gli iracheni erano dei nemici. So che molti americani hanno dei pregiudizi sulle persone come me. Pensano che siamo dei vigliacchi che non ce la fanno a sopportare la guerra. Non ce l’ ho con loro. Anch’ io avevo una mia opinione precisa sui disertori di guerra, molto prima di mettere piede in Iraq. Ma io ho sempre saputo distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, fin da quando avevo sei anni. Per un po’ , in Iraq, ho dovuto smettere di ascoltare la mia coscienza. Ai soldati si insegna che prima cosa viene l’ esercito, poi Dio e poi la famiglia.

Io non sono un vigliacco, e non sono mai scappato davanti al pericolo. Sarebbe stato molto più facile continuare a fare quello che mi ordinavano i miei superiori. Eppure, anche se molto lentamente, durante le lunghe notti irachene, mentre i caccia passavano sfrecciando e i bengala bruciavano e le case cadevano giù, è finalmente ritornata la mia coscienza. Non era possibile che venisse prima l’ esercito, poi Dio e quindi la famiglia. Dovevo ascoltare quella vocina dentro di me che non mi faceva più dormire. Io non sono così, ripetevo tra me. Io non posso più fare queste cose. Questa è la storia di come la mia voce interna è diventata sempre più forte fino a coprire il rombo dei carri armati, le vampate delle armi da fuoco e gli ordini dei miei superiori. Questa è la storia di come sono andato a finire in Iraq come soldato scelto dell’ esercito degli Stati Uniti. Questa è la storia di quello che ho fatto al popolo iracheno e di quello che ho visto fare agli altri soldati americani, del perché ho disertato la guerra e di come sono diventato un fuorilegge nel mio stesso paese. In Iraq mi hanno costretto a comportarmi da criminale, ma oggi non sono più un criminale e non tornerò mai indietro.

Joshua Key
Fonte: http://www.repubblica.it
11.04.2007

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