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La Redazione

 

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ILLUSIONI DI INCLUSIVIT NELLA CULTURA DEL WHATEVER

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A cura di Das schloss
Il 9 Settembre 2008
84 Views

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DI CAROLYN BAKER

CarolynBaker.net

La maggior parte delle persone che riconoscono che ci sia qualcosa di terribilmente sbagliato nel mondo, e che nonostante tutto il rammarico espresso lottano coscientemente per creare un’esistenza più umana sul pianeta terra, percepiscono in modo empatico anche che l’essenza dell’impero stia nella sua spietata, incessante abilità a dividere e alienare gli esseri umani uno dall’altro, e dalla comunità terrestre. Di conseguenza, certi terrestri svegli, compassionevoli, figli del ventunesimo secolo, comprendono che la coscienza umana non potrà essere trasformata finché non avremo imparato a tutti i livelli che non c’è separatezza – nessun “noi e loro”, nessuna divisione, nessun “altro”. Senz’altro, tutte le persone che percepisco come alleati nel nostro mondo in via di collasso lavorano sodo per superare la propria “confusione dell’alterità” inculcata dall’impero.

Tuttavia, si sa, di solito la realtà nella storia umana è complessa e ha molteplici sfaccettature. Se è vero che ad un livello spirituale elementare nessuno di noi è separato dagli altri, è anche vero che per funzionare armoniosamente e giustamente nella nostra esistenza quotidiana, gli esseri umani esigono che si stabiliscano e mantengano dei limiti. Una delle più ovvie tragedie che dobbiamo riconoscere quando affrontiamo il collasso della civiltà è che siamo arrivati a questo punto nella storia umana precisamente perché non abbiamo rispettato i limiti.

Riflettendo su questo, vi invito a sopportarmi al di là di quello che in principio potrebbe sembrare un blaterare psicologico, perché il ragionamento che sto esponendo è inteso a sostituire il gergo inevitabile che ritengo sia necessario che utile.Lo sviluppo umano inizia con uno stato di completa assenza di limiti, dato che un neonato è unito in simbiosi a sua madre ed è incapace di distinguere se stesso da chi si prende cura di lui. Questa gloriosa unione è indubbiamente cruciale per il benessere fisico ed emozionale definitivo del bambino. Se il legame illimitato non si produce oppure diventa disfunzionale, ne consegue un trauma emozionale doloroso che potrebbe preparare il terreno a un’angoscia che dura per tutta la vita.

Attorno al primo anno e mezzo di vita, l’infante inizia a percepire se stesso come distinto da chi si prende cura di lui. Gradualmente, e poi con grande trasporto, differenzia la propria identità spingendo contro i suoi genitori (sia letteralmente che simbolicamente), testando i limiti per scoprire che lui è sé stesso e non loro. In ogni caso, se non ci sono limiti da contrastare o sperimentare, il processo di differenziazione viene compromesso, il ché può anche risultare in un grave trauma psicologico e in angoscianti dilemmi identitari in un momento successivo della vita. Visto che sperimentare i limiti comprende sempre una certa parte di rabbia, la gestione successiva della rabbia o la non-gestione della stessa può essere determinata dalla libertà con la quale il bambino può forzare i limiti e dall’adeguatezza con cui chi si prende cura di lui risponde alla sua sperimentazione.

In un processo educativo ragionevolmente funzionale, il primo legame emozionale madre-figlio è seguito dallo stadio infante/”Terribili due anni”[“Terrible Two’s“]/sperimentazione dei limiti/differenziazione. Se tutto va bene, ne emerge un equilibrato bambino di tre o quattro anni, sicuro e fiducioso, che gioca e lavora per lo più in armonia con i suoi coetanei.

Se pensiamo agli imperi e alle culture degli imperi, tendiamo a dipingerli come rigidi e tirannici, e in effetti possono esserlo. In alcune culture imperiali l’infanzia è breve, e l’urgenza di lavorare sodo per diventare un cittadino modello dello Stato è inculcata precocemente con severità abietta. Ma anche l’opposto può caratterizzare la cultura dell’impero, specialmente in una società marinata nell’agiatezza, nel consumismo e nel lusso.

Uno dei segni distintivi di una tale società è la sua incapacità a tollerare e affrontare il conflitto per superarlo. Il conflitto, dopotutto, implica che non tutto vada bene e che ci possano essere dei problemi in paradiso. Che sia nell’educazione dei figli, in ufficio o a scuola, è molto più semplice andare avanti andando d’accordo – e procedere. Il conflitto, in fondo, attira l’attenzione su se stessi, il che è un anatema in una cultura in cui il meccanismo che fa andare tutto liscio è oliato con anonimità e conformismo. Quelle menti recalcitranti che rifiutarono di soccombere all’indottrinamento imperiale, da Henry David Thoreau ad Allen Ginsberg fino a Cindy Sheehan, hanno sempre rischiato l’ostracismo e il bando dalla mangiatoia capitalista.

Ma in questo momento storico di grande importanza ci ritroviamo a turbinare nelle acque del collasso dell’impero, e ci dimeniamo e lottiamo tanto per restare a galla che per nuotare controcorrente, ma soprattutto, semplicemente vivere le nostre vite istante per istante navigando sul torrente di cambiamenti che ci inonda quotidianamente. In mezzo alla follia siamo felicissimi di scoprire occasionalmente altre persone che condividono la nostra prospettiva, che non ci definiscono pazzi se dichiariamo fermamente che il fiume ci sta spingendo verso una cascata senza fondo che non possiamo controllare. Ci aggrappiamo l’uno alle mani dell’altro e sospiriamo, “La mia gente, la mia tribù!” e spesso vediamo solo la nostra uguaglianza perché non ce la facciamo a considerare le nostre differenze. Temiamo che vedendole e chiamando la nostra diversità col suo nome, potremmo anche perire. È molto difficile essere soli con tutto quello che siamo venuti a sapere sul collasso; ci sentiamo talmente isolati e alienati, adorando talmente quelle poche persone con cui possiamo parlarne che non osiamo contemplare un conflitto con loro.

Eppure è cruciale ricordare che per la maggior parte tutte le relazioni umane tendono a seguire la strada del nostro proprio sviluppo individuale – ossia, legame genitore-figlio, seguito da differenziazione, seguito da interattività autonoma ovvero impegnarsi in un rapporto, disimpegnarsi, poi reimpegnarsi, ad infinitum. Il conflitto, lo scopriamo presto, è una base fondamentale dell’interazione autonoma. Ma occasionalmente imbocchiamo strade separate, e il ricongiungimento non avviene. A quel punto, possiamo scegliere cosa raccontare a noi stessi a proposito del perché non lo ha fatto.

Cosa c’è nella cultura dell’impero che ci porta ad essere così miserabilmente incapaci a destreggiarci nel conflitto? I nostri fratelli e sorelle indigeni sembrano esservi immersi quando le loro tribù e clan discutono e negoziano e celebrano ferocemente le loro differenze. Quale è il nostro problema? Credo che derivi, in parte, dall’educazione parentale all’insegna del “Whatever” [“qualunque cosa”].

L’educazione dei figli in una società consumistica è intrinsecamente priva di limiti. L’intenzione è di soddisfare ogni bisogno del bambino con “cose” ed esperienze che fanno sentire il bambino bene con se stesso/stessa. Si presuppone che il bambino “non dovrebbe” dover sopportare nemmeno brevi momenti di dolore emozionale. Dover fare questo significherebbe che i genitori abbiano “fallito”. Perciò, il criterio per una “buona” educazione dei figli è rappresentato dalla quantità di oggetti che si riesce a fornire loro, e da quanto positivamente si riesce a far sentire il bambino a proposito di se stesso, gli altri e il mondo.

Di conseguenza, il conflitto va evitato a tutti i costi perché potrebbe evocare delle emozioni sia nel bambino che nei genitori. Al contrario, il genitore semplicemente capitola di fronte ai desideri del figlio o lo/la compensa per non opporsi. Per esempio, il genitore può rifiutare la richiesta di un/a 16enne di una macchina comprandogli/le qualche altro oggetto o esperienza finché non compia 17 o 18 anni. Ci potrà essere una discussione minima sul perché la richiesta non può essere esaudita al momento corrente, ad esempio tasse assicurative, prezzi del gas, finanze familiari, lezioni di guida, maturità emozionale o altri argomenti che influenzano la decisione genitoriale ad accordare la richiesta o meno. Ci potranno essere numerose discussioni o qualcosa di simile a un conflitto attorno alla richiesta, ma un conflitto genuino in realtà non si produce.

Un conflitto puro, autentico è fatto di dialogo e ragionamento. Gli individui discutono i loro punti di vista discordanti e negoziano o giungono a un compromesso in base a un’approfondita conversazione sui temi implicati. Per esempio, quando il bambino fa una richiesta, il genitore dispone di tre opzioni. Può rifiutare la richiesta immediatamente e irrigidirsi, adottando la posizione autoritaria del “Non discutere con me. Io sono il genitore, e ho detto no”. Può essere persuaso con le lusinghe o manipolato fino ad accordare la richiesta, oppure può impegnarsi in un processo di dialogo con il bambino che invita figlio e genitore a pensare in modo critico e a compiere un ragionamento maturo. Quest’ultimo richiede tempo e sforzo, e rappresenta solitamente un lavoro molto duro sia per il genitore che per il figlio. Fare questo sforzo può comunque essere di valore inestimabile per entrambe le parti. Oltre a impegnarsi a ragionare, il bambino avrà l’opportunità di pensare per se stesso, fare delle scelte, diventare responsabile per le sue scelte, sperimentare la frustrazione di vedere la sua richiesta negata oppure la gioia del vederla accolta oppure l’effetto “aha!” di una terza opzione che né il genitore né il bambino hanno considerato in precedenza ma che potrebbe aprire ad entrambi nuove possibilità. Infine, il compenso più profondo sta nel rafforzamento della fiducia e dell’intimità tra genitore e bambino, per non menzionare la coltivazione di un senso di responsabilità per le scelte personali.

Nel ventunesimo secolo, educare i figli nella cultura dell’impero sforzandosi di evitare l’intimità emozionale, deviare il conflitto, far star bene il bambino con se stesso/a ed eludere il dialogo comprando oggetti o esperienze per il bambino crea una generazione di esseri umani la cui parola d’ordine è “whatever” (qualunque cosa). Se passate cinque minuti con qualsiasi adolescente o individuo in età liceale di questi tempi, probabilmente sentirete “whatever” nel loro vocabolario quanto prima, specialmente se la conversazione va in direzione di una controversia o differenze di opinione.

Whatever” significa che non devo pensare; non devo rendere conto; non è un problema mio; un’opinione vale quanto un’altra perché nessuno mi ha fatto notare che esistono tante opzioni e che alcune sono molto più utili/sicure/attuabili/solide di altre. “Whatever” dissimula abbandono nel contesto dell’educazione parentale priva di conflitti autentici che impegnino i cuori e le menti di bambini e adulti. “Whatever” significa assenza di limiti o forse addirittura il non sapere cosa sono i limiti, figurarsi il perché potrebbero essere utili. Per il fatto di crescere in un paese del “whatever” un bambino può giungere a pensare che le persone che impongono limiti e li mantengono siano cattive, crudeli, rudi, spietate, e prive di compassione. Dopo tutto, “whatever” significa che includiamo tutti e tutto perché – beh, “whatever“.

L’assenza di limiti non crea nulla se non pretese. Se non sono responsabile e non ho mai sperimentato la gratificazione di navigare con un parente o un anziano saggio e premuroso sulle acque turbolente di una conversazione significativa, risolutiva di conflitti, allora posso solo concludere che la vita “dovrebbe” essere semplice e che se non lo è, la colpa è di qualcun altro.

Mentre sto conversando con individui da ogni parte di questa nazione che in un qualche momento hanno tentato di vivere in comunità con altri, sento litanie infinite di separazioni dolorose e di profonda disperazione riguardo alla possibilità che i conflitti possano essere effettivamente superati. Un argomento che sento costantemente è che le comunità spesso hanno fallito perché sono ostinatamente votate all’inclusività – la nozione che la similitudine debba essere enfatizzata, le differenze sminuite, e il conflitto minimizzato. Ancora di più, in situazioni di vita di breve termine come nel caso di workshop o periodi di ritiro, la nozione di inclusività può essere pervasiva e potrebbe prevenirci dall’escludere qualcuno, almeno che non ci riveliamo delle creature indifferenti con acqua ghiacciata nelle vene.

Riflettendo su, e preparando le nostre famiglie e comunità ai rigori del disfacimento della società umana, si usa spesso l’immagine della scialuppa di salvataggio, e molti individui parlano apertamente di chi vorrebbero avere nella propria imbarcazione. Credo che la scialuppa di salvataggio sia un’immagine utile per molte ragioni, una delle quali, e non di minore importanza, è il fatto che una barca di salvataggio abbia dei limiti. Non tutti possono saltarci su e occuparla. Come durante una calamità in mare, ogni persona tanto fortunata da vivere in una scialuppa di salvataggio deve prendere decisioni strazianti rispetto a chi invitare nella barca e chi no. Altrimenti, la scialuppa di salvataggio diventa una camera di morte piuttosto che uno strumento di sopravvivenza.

Così la questione a questo punto diventa: come prendiamo tali decisioni? Escludiamo allo stesso tempo in cui includiamo, e quali sono i nostri criteri? Le comunità delle scialuppe di salvataggio possono essere costrette a prendere decisioni di vita e di morte su chi condividerà il loro spazio e i loro attrezzi di sopravvivenza. Quali orripilanti scenari vengono a mente se valutiamo la possibilità di costruire delle barche di salvataggio e invitare altri ad unirsi a noi – oppure no? In una società completamente disfatta in cui violenza, agitazione, carestia, sete, guerra, la mancanza di un tetto, le epidemie diffuse, e il caos climatico hanno creato uno scompiglio culturale, quali limiti dobbiamo porre, e come, e con chi?

È impossibile creare “norme per scialuppe di salvataggio” rigide nei tempi attuali e niente meno che assurdo immaginare che ogni evento del collasso possa essere pianificato in anticipo. Quello che possiamo prendere in considerazione, comunque, sono i principi che non hanno origine nella cultura del “whatever” ma che hanno guidato i popoli indigeni per millenni. Molte di queste culture sono state fondate sul motivo del guerriero/anziano che provvede una guida compassionevole con dei limiti. Mi affretto ad aggiungere che l’energia del guerriero non ha a che fare con il combattimento, ma con il prendere posizione rispetto alla tribù, il ché spesso implica “condurre una lotta” contro i programmi che favoriscono gli ego individuali piuttosto che il benessere della comunità. Spesso nelle culture indigene esiste un consiglio di anziani con questo scopo, e mentre è sottointeso che ogni membro è umano e perciò incline all’errore, ognuno si è guadagnato il suo posto nel consiglio grazie alla profondità della saggezza dimostrata e sulla base dell’abilità con cui ha preservato e protetto l’integrità della comunità.

Un anziano esperto capisce, mentre si fa carico dei giovani della sua tribù, che devono essere guidati, istruiti, che bisogna ragionare con loro e invitarli a un dialogo consapevole così che infine la giovane persona possa maturare per giungere all’anzianità e portare avanti la tradizione saggia della tribù. Lui o lei viene istruito nell’arte di porre dei limiti a se stesso/a e alla comunità e viene addestrato nelle realtà fondamentali dell’esistenza umana, non evitando, ma facendosi carico della confusione del conflitto. Più di ogni cosa, l’anziano enfatizza che il cammino della vita del/la giovane non ha come meta la felicità, ma la consapevolezza.

Mentre il collasso della civiltà si esacerba e si intensifica, gli esseri umani più benintenzionati e sinceri faranno molti errori. E allo stesso tempo, è possibile diventare adepti e essere resi saggi da principi di guerriero/anziano che pongono abilmente dei limiti e di aderirvi quando sarebbe molto più facile accumulare gloria da sé stessi e dagli altri per indiscriminata inclusività. È una danza delicata e che intimorisce – a volte estatica, a volte tormentosa. Ma a prescindere dal suo risultato, da nessuna parte il suo corso varca il paese del “Whatever“.

Titolo originale: “ILLUSIONS OF INCLUSIVITY IN THE CULTURE OF “WHATEVER””

Fonte: http://carolynbaker.net/
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26.08.2008

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di KARIN LEITER

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