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La Redazione

 

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IL VECCHIO RAGAZZO DI GAZA E IL MARE

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A cura di Das schloss
Il 19 Giugno 2010
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DI RAMZY BAROUND
Asia Times

Sono cresciuto nei pressi del mare di Gaza. Durante la mia infanzia non ho mai potuto comprendere abbastanza come un così gigantesco corpo d’acqua, che prometteva una tale infinita libertà, potesse anche confinare con un così minuscolo e ristretto tratto di terra – una terra che è stata sempre tenuta in ostaggio, seppur rimanendo perennemente ribelle.

Fin da giovane età mi imbarcavo con la mia famiglia per brevi viaggi dal nostro campo profughi alla spiaggia. Andavamo su un carretto sfatto, trainato da un altrettanto smunto asino. Nel momento in cui i nostri piedi toccavano la spiaggia bollente, le assordanti grida iniziavano.
Piccoli piedi correvano più veloce di campioni olimpici e per poche ore tutte le nostre preoccupazioni venivano dissipate. Tutto odorava e sapeva di sale e anguria. Mia madre sedeva in cima a una stracciata coperta a quadretti, per proteggerla dal vento sfrenato. Ridacchiava alla frenetiche chiamate di mio padre ai suoi figli, cercando di fermarli dall’andare nell’acqua troppo profonda.

Io immergevo la testa sott’acqua e sentivo l’ossessionante canto senza parole del mare. Poi mi ritiravo, mi facevo da parte e fissavo l’orizzonte.Quando avevo cinque o sei anni, credevo che subito dopo l’orizzonte ci fosse un paese chiamato Australia. Le persone di quel paese erano libere di andare e venire come volevano. Non c’erano soldati, pistole o cecchini. Noi, per alcune ragioni sconosciute, piacevamo molto agli Australiani e un giorno sarebbero venuti a farci visita. Quando rivelai le mie convinzioni ai miei fratelli loro non furono d’accordo. Ma la mia fantasia cresceva, così come la lista di tutti gli altri paesi immediatamente dietro l’orizzonte. Uno di questi era l’America, dove le persone parlavano in maniera divertente. Un altro era la Francia, dove la gente non mangiava nulla tranne il formaggio.

Frugavo tra i rifiuti della spiaggia cercando la testimonianza del mondo esistente oltre l’orizzonte. Cercavo bottiglie con strani caratteri, lattine e plastica sporca portate a terra da navi lontane. La mia gioia era accresciuta quando le lettere erano in arabo. Mi sforzavo di leggerle da solo. Sono anche venuto a conoscenza di paesi come l’Arabia Saudita, l’Algeria e il Marocco. Le persone che vivono lì sono Arabi come noi e Musulmani che pregano cinque volte al giorno. Ero sbigottito. Il mare era apparentemente più misterioso di quel che avrei mai immaginato.

Prima della rivolta Palestinese del 1987, la spiaggia di Gaza era già stata dichiarata off-limits e convertita in una zona militare chiusa. Ai pescatori era ancora permesso pescare, sebbene solo per poche miglia nautiche. A noi era permesso nuotare e fare picnic, benché non oltre le 18 . Poi un giorno le jeep dell’esercito israeliano scesero con un fruscio la strada asfaltata che separava la spiaggia dal campo profughi. Richiesero sotto minaccia l’immediata evacuazione. I miei genitori urlarono nel panico, riportandoci al campo con soltanto il nostro costume addosso.

L’ultima ora sulla televisione israeliana dichiarò che il proprio esercito aveva intercettato terroristi palestinesi su dei gommoni, mentre percorrevano la loro strada verso Israele. Vennero tutti uccisi o catturati, eccetto per uno che avrebbe potuto dirigersi verso il mare di Gaza. La confusione fu nefasta, soprattutto quando vidi alla televisione israeliana le immagini degli uomini palestinesi catturati. Stavano trasportando i corpi morti dei loro compagni palestinesi mentre erano circondati dalle armate e trionfanti truppe israeliane.

Cercai di convincere mio padre ad andare ed aspettare in spiaggia altri palestinesi. Lui sorrise pietosamente e non disse nulla. Le notizie seguenti dichiararono che la barca era forse dispersa in mare, o era affondata. Io ancora non volevo perdere la speranza. Chiedevo a mia madre di preparare il suo speciale the con la salvia, lasciando fuori un po’ di pane tostato col formaggio. Aspettavo fino all’alba che i “terroristi” dispersi arrivassero al nostro campo profughi. Se lo facevano volevo che avessero qualcosa da mangiare. Ma non arrivarono mai.

Dopo quest’incidente iniziarono a comparire delle barche all’orizzonte. Appartenevano all’esercito israeliano. L’apparentemente sfortunato mare di Gaza era ora pericoloso e pieno di possibilità. Così i miei viaggi verso la spiaggia aumentarono. Anche se diventavo più grande, e anche durante il coprifuoco militare israeliano, salivo sul tetto della nostra casa e fissavo l’orizzonte. Alcune barche, da qualche parte, in un modo o nell’altro si stavano dirigendo verso Gaza. La vita divenne più difficile, la mia fede più grande.

Oggi, decenni dopo, sto a guardare un mare straniero, lontano da casa, da Gaza. Per anni mi è stato negato il diritto di visitare la Palestina. Sono qui e penso a tutti quelli che tornano a casa, aspettando le barche per arrivare. Questa volta la possibilità è reale. Seguo le notizie, con la soffocante consapevolezza di un adulto, e anche con le vertigini e la trepidazione dei miei sei anni. Immagino la Freedom Flotilla (convoglio umanitario delle ONG diretto a Gaza) carica di cibo, medicine e giocattoli, immediatamente dietro l’orizzonte, che si avvicina per trasformare il vecchio sogno in realtà. Il sogno che esistano per davvero tutti quei i paesi che i miei fratelli pensavano fossero inventati, incarnato in cinque navi e 700 attivisti di pace. Loro rappresentavano l’umanità, si prendevano cura di noi. Pensavo a dei bambini che facevano un banchetto di pane tostato, formaggio e the alla salvia, aspettando i loro salvatori.

Quando l’ultima ora dichiarò che le barche erano state attaccate appena prima di attraversare l’orizzonte di Gaza, uccidendo e attaccando molti attivisti, il bambino di sei anni dentro di me venne frantumato. Piansi. Persi la facoltà di esprimermi. Nessuna analisi politica poteva bastare. Nessuna notizia poteva spiegare a qualsiasi bambino di sei a anni a Gaza perché i loro eroi erano stati uccisi e sequestrati, semplicemente per aver cercato di varcare l’orizzonte.

Ma malgrado il dolore che ora è troppo profondo, le vite che furono prese così ingiustamente, le lacrime che furono versate nel mondo per la Freedom Flotilla, adesso so che la mia fantasia non era un sogno d’infanzia. Che c’erano persone dall’Australia, dalla Francia, dalla Turchia, dal Marocco, dall’Algeria, dagli Stati Uniti e da molti altri paesi, che stavano arrivando da noi su barche cariche di regali, da coloro ai quali, per alcune ragioni, piacevamo davvero.

Non posso aspettare di arrivare a Gaza sopra una barca, perciò posso dire ai miei fratelli “Te l’avevo detto”.

Ramzy Baround (www.ramzybaround.net) è un giornalista di stampa internazionale ed editore del PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è “My Father Was a Freedom Fighter: Gaza’s Untold Story” (Pluto Press, London), ora disponibile su Amazon.com.

Titolo originale: “The old Gaza boy and the sea”

Fonte: http://www.atimes.com/
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08.06.2010

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ELISA

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