DI AMBROSE EVANS-PRITCHARD
Telegraph.co.uk
La fenice americana sta lentamente rialzando la testa. Entro più o meno cinque anni, gli Stati Uniti saranno autosufficienti per carburanti ed energia. La produzione eliminerà la forbice con la Cina in un gruppo di settori chiave. Il confronto potrebbe persino essere in attivo.
Le considerazioni secondo cui la Grande Repubblica debba inevitabilmente precipitare in un declino economico e strategico – come nelle chiacchiere degli anni ’80, quando il
Giappone era in voga – sembrano essere davvero fuori gioco.
I lettori del Telegraph già
sanno della “rivoluzione dello shale gas” che ha trasformato
l’America nel primo produttore mondiale di gas naturale, davanti alla
Russia.
Meno noto è il fatto che la tecnologia
della fratturazione idraulica – il rompere le rocce con getti di acqua
– farà fare un salto in avanti anche alla fornitura di petrolio di
scisto, principalmente dai giacimenti di Bakken in Nord Dakota, Eagle
Ford in Texas e dalle altre riserve nel Mid-West.
“Lo scorso anno gli Stati Uniti
sono stati i maggiori contributori alla crescita della fornitura di
petrolio, con 395.000 barili al giorno“, ha detto Francisco
Blanch di Bank of America, paragonando i giacimenti del Dakota
a un nuovo Mare del Nord.
La produzione totale statunitense “è
sul punto di espandersi in modo notevole” quando nuove fonti
arrivano in produzione, raggiungendo possibilmente i 5,5 milioni di
barili al giorno alla metà del decennio. È un aumento di dieci volte
dal 2009.
Gli Stati Uniti già soddisfano
il 72 per cento della propria domanda di petrolio, e sono saliti da
circa il 50 per cento di un decennio fa.
“Le implicazioni di questo
passaggio sono grandissime per la geopolitica, la sicurezza energetica,
le alleanze militari storiche e l’attività
economica. Mentre le richieste dal Medio Oriente continuano a calare,
l’Europa sta diventando sempre più
dipendente e diventerà probabilmente più
esposta a comportamenti speculativi degli attori oligopolistici“,
ha detto il signor Blanch.
Nel frattempo, l’altalena Cina-Stati
Uniti sta per oscillare in senso opposto. La delocalizzazione è il
passato, la “rilocalizzazione” è la nuova tendenza.
“Made in America, di nuovo“,
un articolo di questo mese del Boston Consulting Group – informa
che l’inflazione degli stipendi cinesi, che è salita del 16 per cento
all’anno per un decennio, ha ridotto gran parte del divario dei costi.
La Cina non è più l’”ubicazione obbligata” per gli stabilimenti
economici che riforniscono gli Stati Uniti.
Il punto di svolta sarà nei computer,
apparecchi elettrici, macchinari, parti di auto e moto, plastica e gomma,
metalli lavorati e persino arredamento.
“Un notevole ammontare del
lavoro che è fuggito in Cina nell’ultimo decennio potrebbe tornare
presto”, ha detto Harold Sirkin di BCG.
La differenza negli “stipendi
aggiustati alla produttività” si ridurrà dal 22 per cento
dei livelli USA nel 2005 al 43 per cento (il 61 per cento nel sud degli
USA) nel 2015. Aggiungendo i costi di spedizione, i problemi di affidabilità,
la pirateria tecnologica, e i vantaggi ritorneranno negli Stati Uniti.
La lista della “rimpatriate”
sta crescendo. Farouk Systems sta riportando l’assemblaggio degli
asciugacapelli in Texas per i problemi di contraffazione; ET Water Systems
ha riallocato i prodotti per l’irrigazione in California; Master Lock
sta tornando a Milwaukee e NCR sta riportando le realizzazioni di ATM
in Georgia. NatLabs sta tornando a casa in Florida.
Boston Consulting si aspetta che 800.000
lavori produttivi possano tornare negli USA per la metà del decennio,
con un effetto moltiplicatore che ne creerà 3,2 milioni in totale.
Ciò potrebbe addolcire un po’ la lunga frenata dell’economia.
Come ha riferito la scorsa settimana
la direttrice della Fed di Philadelphia Sandra Pianalto, la produzione
statunitense è “molto competitiva” all’attuale tasso
di cambio del dollaro. Che sia voluto o meno, i tassi a zero della Fed
e il blitz della stampa di 2,3 trilioni di dollari hanno portato un
duro colpo alla Cina.
Le iniziative della Fed costringono
Pechino a una scelta tra due possibilità spiacevoli: rivalutare lo
yuan, o affidarsi a un aggancio mercantilista al dollaro e importare
una politica monetaria statunitense fin troppo morbida per un’economia
arroventata ai suoi massimi. Entrambe le scelte erodono il vantaggio
salariale della Cina. Il Partito Comunista ha scelto l’inflazione.
Gli effetti dei tassi di cambio sono
sottili. Ci mettono molto tempo a manifestarsi quando le vecchie fabbriche
chiudono una dopo l’altra e gli investimenti freschi se ne vanno altrove.
Ancora si possono vedere i danni in Europa di un Euro troppo forte nei
dati degli investimenti diretti all’estero (FDI).
I flussi verso l’Unione Europea sono
collassati del 63 per cento dal 2007 al 2010 (dati UNCTAD) e sono calati
del 77 per cento in Italia. I flussi verso gli USA sono aumentati del
5 per cento.
Volkswagen sta investendo 4 miliardi
di dollari in America, pilotati dal suo stabilimento della Passat di
Chattanooga. La Samsung coreana ha avviato un investimento da 20 miliardi
di dollari. Nel frattempo, Intel, GM, Caterpillar e altre aziende statunitensi
stanno optando per rimanere a casa piuttosto che investire all’estero.
L’Europa deve solo dare la colpa
a sé stessa per la “voragine” odierna della sua base industriale.
Ha agognato la sua moneta di riserva, senza comprendere quanto potesse
essere “esorbitante” il fardello da sostenere.
La Cina e la potenze in ascesa hanno
spostato una larga fetta della propria massa di 10 trilioni di dollari
verso le obbligazioni dell’UEM per ridurre la loro esposizione sul
dollaro. Il risultato è un euro troppo forte per metà dell’UEM.
La Banca Centrale Europea ha da allora
reso le cose peggiori (per Italia, Spagna, Portogallo e Francia) tenendo
i tassi al di sopra di quelli degli Stati Uniti, del Regno Unito e del
Giappone. È stata una scelta politica deliberata. Quest’estate ha
provocato una contrazione dei depositi M1 in Italia del 7 per cento
su base annuale. Se ne vedranno le conseguenze.
Il peso dello scambio dei dollari sta
franando da un decennio ed è calato del 37 per cento dal 2001. Una
replica alla lontana del calo post-Plaza alla fine degli anni ’80,
che fu seguito – con ritardo – da una riduzione del 3 per cento
del PIL con un deficit di conto corrente. Nel 1991 gli Stati Uniti avevano
un attivo.
Charles Dumas e Diana Choyleva di
Lombard Street Research hanno ipotizzato nel loro nuovo libro “The
American Phoenix” che ciò potrebbe accadere di nuovo.
Il vantaggio per gli Stati Uniti sarà
relativo. Ciò non implica una forte ripresa degli USA. La recessione
globale morderà ancora di più mentre gran parte del mondo occidentale
irrigidisce le politiche fiscali e lentamente ripiana il debito, e quanto
la Cina fa sgonfiare la sua bolla creditizia.
L’America ha ancora un certo numero
di briscole in mano, e non solo nelle sedici tra le venti migliori università
del pianeta.
È quasi l’unica potenza economica
con un tasso di fertilità superiore a 2,0 – da qui la possibilità
di sforare il debito – in netto contrasto con il decadimento demografico
che si aspettano Giappone, Cina, Corea, Germania, Italia e Russia.
La soap opera dell’UEM ha
evidenziato quanto sia importante che l’America sia una nazione vera,
forgiata da una lingua comune e dai riflessi ancestrali della memoria
lungo due secoli, con le istituzioni che fondamentalmente funzionano
e una vera banca centrale capace di stoppare il sistema.
Il XXI secolo potrebbe essere ancora
americano, come l’ultimo.
Fonte: World power swings back to America
23.10.2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE
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