DI ANTONIO TURIEL
The Oil Crash
Effetto Cassandra
Cari lettori, c’è un argomento
ricorrente nelle ultime discussioni ed ha a che fare con la possibilità
di mantenere una società stabile e vivibile diminuendo volontariamente
i consumi. Una tale affermazione è innegabilmente certa: dico sempre
che è ridicolo parlare di scarsità di energia mentre nel mondo si
consumano 85 milioni di barili al giorno di petrolio da 159 litri ciascuno;
pensateci, sono più di 156.000 litri al secondo in tutto il pianeta
e ciascun litro di questo magico elisir contiene la stessa energia che
un uomo sano e forte (circa 100 watt di potenza media) potrebbe produrre
lavorando senza sosta per quasi 4 giorni e mezzo (per circa 106 ore).
Insomma, il mostruoso
flusso di energia che arriva solo dal petrolio nel pianeta equivale
al lavoro quotidiano di 60 miliardi di nerboruti schiavi energetici
di quelli da 100 watt per unità: 8 e mezzo per ogni abitante di questo
pianeta e questo solo di petrolio (dato che il consumo globale di energia
primaria è di 14 TW di media mondiale, contando tutte le fonti è di
20 schiavi energetici a persona; la media europea arriva a 45 schiavi
energetici a testa, mentre negli Stati Uniti la media fa 120). Giudicate
Voi, ora, se si può parlare di scarsità di energia con questi numeri,
soprattutto tenendo conto di come si spreca l’energia.
E comunque si sta verificando
una situazione di scarsità. Questa scarsità non è tecnica,
come tante volte si è discusso nel blog, né è materiale
(perché anche se in futuro ci sarà meno energia ne abbiamo così
tanta che potremmo gestire una lenta discesa fino ad arrivare ad una
stabile base rinnovabile; con un consumo di uno o due ordini di grandezza
inferiori di quello attuale, quello sì). Il problema della scarsità
viene dal fatto che energia
ed economia sono intimamente legate,
e pretendere di vedere le due variabili separatamente, fino al punto
di cercare di risolvere i due problemi uno indipendentemente dall’altro,
impedisce di vedere la profondità dell’abisso al quale, come società
globalizzata (e non solo occidentale) stiamo arrivando.
Nell’articolo che segue
spiegherò alcuni concetti che mostrano fino a che punto non possiamo
scindere energia ed economia nella nostra società e come pretendere
di risolvere il problema energetico, senza prima cambiare il sistema
economico, sia un’impresa destinata inevitabilmente al fallimento. Non
dimostrerò nulla in concreto né quantificherò in modo preciso il
bilancio economico-energetico delle transazioni umane descritte; provo
solo, per mezzo di alcuni casi ed esempi, a farvi comprendere quanto
sia necessaria una trattazione olistica di questo argomento e come le
tipiche soluzioni semplici di risparmio ed efficienza che si propongono,
dai bar di paese alle più alte cariche dello Stato, peccano di una
scarsa lungimiranza che le rende inutili, se non controproducenti, nella
pratica.
prima questione di cui tenere conto, commentata di frequente in ambienti
picchisti, è il Paradosso
di Jevons.
Per coloro che non conoscono la storia, William Stanley Jevons, lord
inglese che è vissuto a cavallo fra due secoli, ha osservato che, nel
19° secolo, nella misura in cui si introducevano miglioramenti nelle
macchine a vapore aumentandone l’efficienza, il consumo di carbone aumentava
al posto di diminuire come si sperava accadesse. La ragione è che si
produce ciò che in economia è chiamato effetto rimbalzo: se diminuisce
il costo di un prodotto (costo in denaro o energia) senza modificare
altri fattori, risulta che si stia dando un incentivo a consumare di
più questo prodotto, se il suo maggior consumo ci da un vantaggio,
cosicché con lo stesso reddito a disposizione possiamo consumare di
più; peggio ancora, chi prima non poteva accedere a questo consumo
perché aveva un reddito insufficiente, ora potrà farlo. Naturalmente
l’effetto rimbalzo non è solito influenzare aree dove non c’è un guadagno
reale per il maggior consumo del prodotto (per esempio, non è certo
che se sostituiamo le lampadine con altre a maggior efficienza si stia
creando di per sé la tendenza a mettere più lampadine; se si
compra di più è per altri motivi), però il rimbalzo è presente ed
è molto determinante per l’acquisizione di beni di investimento destinati
alla produzione di beni e servizi, vale a dire, alla attività economica.
Si deve comprendere, pertanto, che il ripetuto richiamo al miglioramento
dell’efficienza è controproducente se non è accompagnato da altre
misure, perché al posto di stimolare a consumare meno, si stimola a
consumare di più. Un esempio: se un’automobile consuma 20 litri per
100 chilometri e la benzina è cara, meno gente comprerà un’automobile,
ma se la stessa automobile consumasse 5 litri ogni 100 chilometri, automaticamente
una maggior quantità di gente considererà una buona idea comprarsi
il veicolo.
La realtà è
piena di esempi simili in cui i miglioramenti nell’efficienza in generale
(non solo energetica) e non solo degli elettrodomestici, ma dei mezzi
di produzione, ha fatto esplodere il consumo di molti prodotti (chi
pensava di comprasi un computer 30 anni fa?). Il problema è che le
misure che dovrebbero accompagnare i miglioramenti nell’efficienza dovrebbero
essere misure di pianificazione, di razionamento. Il problema del razionamento lo abbiamo già commentato
su queste pagine:
se si tenta di renderlo compatibile con un’economia di mercato, o anche
in sua assenza, si dà origine ad un mercato nero che può destabilizzare
il sistema favorendo la crescita di mafie che finiscono per fagocitare
lo Stato, nei casi estremi. Eppure sapete già che il governo britannico,
che sta prestando più attenzione di altri al problema del Picco del
Petrolio, ha
considerato la possibilità di introdurre dei protocolli di razionamento
dell’energia.
Sia come sia, l’efficienza ha senso solo se si limita l’accesso alle
materie prime dall’alto e questo si sposa male con la nostra economia
di libero mercato. Inoltre, l’aumento di efficienza implica una diminuzione
del costo di produzione (costo energetico ed anche costo economico)
così il valore del prodotto effettivamente non aumenta. Vale a dire,
con una limitazione di accesso alle risorse al migliorare dell’efficienza,
si forniscono più beni e servizi ma semplicemente perché il costo
unitario (economico e di risorse) degli stessi diminuisce. Essenzialmente,
un’economia del genere non cresce. E non crescere, ora lo vedremo, è
un veleno per il nostro sistema economico.
Un’altra possibilità
che viene solitamente commentata, ed è quella a cui si è abbonato
il commentatore Dario Duarte su “The Oil Crash”, è quella
che con un’adeguata consapevolezza sociale si può risparmiare tantissimo
e così posticipare il
collasso mentre
la società si adatta ad una nuova realtà di risorse materiali più
scarse. Siamo tutti coscienti del fatto che nella nostra società occidentale
si spreca tantissimo. Buttiamo il cibo in buono stato che serve solo
ad ingrassare i parassiti delle discariche, usiamo l’acqua senza senso,
cambiamo continuamente i nostri vestiti, il cellulare, l’automobile…
in Spagna c’è stata un’epoca non tanto lontana in cui quasi ci eravamo
abituati a cambiare casa di continuo.
abbiamo bisogno di tanto, senza dubbio. Probabilmente con la decima
parte, anche la centesima parte di quello che abbiamo ora, potremmo
avere una vita degna e funzionalmente molto simile a quella attuale.
Risparmieremmo le risorse essenziali e sarebbe persino conveniente per
noi costruire un sistema di energie rinnovabili su questa scala e, in
quanto al resto delle materie prime, aggiunto alla decrescita del consumo,
con il loro riciclaggio integrale potremmo posticipare i problemi di
esaurimento di vari millenni, mentre apprendiamo a sintetizzare materiali
efficaci dal carbonio e da altri atomi abbondanti.
Insomma, è un
sentiero chiaro e veloce verso la soluzione, per evitare con sicurezza
qualsiasi rischio di degrado sociale e di caos. Ma, perché non lo seguiamo?
Semplicemente, perché non possiamo. Non è possibile smettere di consumare
a questo ritmo ed è necessario consumare a un ritmo crescente. E’ una
necessità del sistema finanziario. Senza questo consumo crescente una
massa, che finirebbe per essere maggioritaria, si troverebbe senza lavoro
e senza mezzi di sussistenza e, dato il modello del debito e della proprietà
privata che abbiamo, senza una totale sovversione dell’ordine imperante,
senza una rivoluzione con cui la gente prende con la forza le proprietà
ed il potere, il destino di tutta questa gente è quello di agonizzare
e morire. Può sembrare stupido, però di fatto è qualcosa che si è
ripetuto nella storia dell’Umanità: Jared Diamond lo commenta nel suo
libro “Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere”.
Sappiamo che 26 antiche civiltà sono collassate perché non sono riuscite
a trovare un modello alternativo per gestire le proprie risorse, in
alcuni casi per mancanza di immaginazione per essersi chiuse nel proprio
Business As Usual, il proprio BAU; morirono per la diminuzione delle
risorse disponibili ma non per mancanza di risorse propriamente dette.
Un caso paradigmatico è quello dei Maya dello Yucatan, che si imbarcarono
in una serie di guerre di dominio senza avere risorse sufficienti per
sostenerle (fondamentalmente mais, nel loro caso) ed infine collassarono
fino a scomparire da quelle terre anche se il territorio era ancora
in grado di sostenere una popolazione simile a quella che ha collassato.
E’ che con la guerra si era consumato tutto il mais e si erano distrutte
opere di irrigazione fondamentali per mantenere una buona produttività,
di conseguenza i combattenti non sono riusciti ad arrivare al successivo,
e più esiguo, raccolto. La nostra situazione è simile a quella dei
Maya? Vediamo alcuni esempi illustrativi.
In una recente conferenza
a Barbastro, un difensore delle soluzioni di stampo solo tecnologico
al nostro problema di sostenibilità sosteneva che in Spagna ogni persona
consuma in media 20 chili di vestiti ogni anno. Una quantità che considerava
smisurata e se, invece di dedicare tante risorse materiali ed energetiche
a questa produzione, una spesa ben frivola, si destinassero a preparare
la transizione tutto sarebbe molto più facile. Tuttavia, colui che
proponeva questa idea (simile, detto en passant, ad altre che centrano
le loro critiche su altre attività più o meno crematistiche, che sono
la regola nella nostra società) non teneva in conto che se di colpo
in Spagna (ma neanche in Italia e nel Mondo NdT) si passasse dal consumare
20 chili di vestiti a persona e l’anno dopo, poniamo, 1 solo e frugale
chilo, ci ritroveremmo col fatto che il 95% della produzione attuale
delle ditte tessili che operano nel nostro paese tenderebbe a scomparire.
Che liberazione di risorse, penserete, però sicuramente implicherebbe
il fallimento e la scomparsa del 95% di queste imprese (bene, dei loro
affari in Spagna – o Italia -) ed il 95% dei loro impiegati sarebbero
messi per strada. Inoltre, sarebbero messi per strada il 95% degli impiegati
nel settore logistico e dei negozi di vestiti ed i reparti di confezioni
dei grandi magazzini si ridurrebbero del 95%. Questo sarebbe solo l’impatto
diretto di questa caduta del consumo, ma poi si deve mettere in conto
l’indotto: questo 95% o più di diminuzione delle tasse che incasserebbe
lo Stato dai settori colpiti; la perdita del 95% dei clienti dei bar
che si trovano nelle strade commerciali, la diminuzione della vendita
di altri beni e servizi dovuti all’ingresso nella lista di disoccupazione
di tutti questi contingenti; i quali, inoltre, si suppone saranno un
costo ulteriore per lo Stato che, oltre a diminuire gli introiti, aumenta
le spese e, pertanto, deve tagliare da altre attività, generando più
disoccupazione e più contrazione economica nei settori ausiliari colpiti.
Alla fine è ovvio che un cambiamento simile non si può fare dalla
sera alla mattina, poiché rischierebbe di fare un danno anche maggiore.
Essenzialmente, il nostro sistema economico è un obeso patologico con
la pressione altissima, la cui vita è in pericolo ma che non si può
far dimagrire troppo rapidamente per non correre il rischio di indurre
degli scompensi che lo ucciderebbero ugualmente.
Quindi lo dobbiamo
far dimagrire a poco a poco e nel frattempo andiamo a sgonfiare i costi
superflui ed a investire in quelli essenziali. E quali sono quelli essenziali,
direte voi? Beh, investire in rinnovabili, orti… Il problema è
che non potete sperare che questo cambiamento avvenga spontaneamente;
abbiamo già spiegato che ad
un certo punto investire in rinnovabili non sarà redditizio secondo
i criteri economici standard,
e che di fatto le
rinnovabili non possono risolvere la crisi energetica come si sta pianificando con
la loro installazione. Siccome non si possono obbligare gli investitori
a spendere il loro denaro in qualcosa che ora come ora non percepiscono
come redditizia, lo Stato non ha denaro nemmeno per sovvenzionarne l’implementazione
(non diciamo a finanziarla). Il fatto è che non si finanziano le attività
fondamentali per il cambiamento del modello produttivo, economico e
sociale. E per quando sarà evidente che è necessario farlo, il livello
di degrado del mercato sarà tanto alto che mancheranno i capitali ed
alcuni materiali di consumo di base, e per questo sarà un’impresa difficile
e dolorosa, se non addirittura impossibile.
Siamo franchi: non
c’è una scommessa vera sul cambiamento del sistema. Sì, si comincia
ad investire qualcosa in energia rinnovabile, ma con criteri di redditività
classici. Cosa ripetono i gestori degli investimenti in rinnovabili?
Che devono migliorare tecnologicamente perché i costi si abbassino
e siano redditizie. E quando dicono redditizie non intendono dire che
coprano i costi, no; quello che intendono dire è che devono avere dei
tempi di rientro dell’investimento di pochi anni e che il rendimento
sia almeno del 5% all’anno. Insomma, non si vuole giocare ad altro gioco
che non sia il “BAU” di sempre, non si accetta il fatto che le regole
siano cambiate e si cerca di forzare la Termodinamica per far sì che
le rinnovabili rendano in funzione di queste cifre che ho appena citato.
Ma la Termodinamica è cocciuta…
Qual è, quindi, la
realtà dello schema che si segue? Quella di provare ad aumentare
i consumi, non di ridurli. Vi ricordate? All’inizio di questa crisi
si diceva che consumare
è patriottico;
lo ha detto Gordon Brown, allora primo ministro del Regno Unito. E’
che senza aumento dei consumi non c’è crescita economica e senza crescita
economica non si possono pagare i debiti. E cosa credete che succederà
adesso che stiamo
entrando in una nuova onda recessiva?
Poiché con più problemi di debiti che non possiamo pagare e, soprattutto,
il debito sulle spalle, difficilmente andiamo a pensare di smantellare
le attività più o meno redditizie a favore di altre che lo sono molto
meno. Sapete quante volte ho sentito che con la crisi che abbiamo non
è il momento di investire in energia verde, che lo si farà poi, superata
la crisi?
Non si può farne
una colpa, è logico, non sono redditizie. Quando si supererà
la crisi, dicono, quando finirà questa
crisi che non finirà mai.
Così è facile capire perché io creda che da questa spirale di degrado
economico se ne possa uscire solo con un’esplosione sociale, solo con
una rivoluzione. Oppure con il
collasso.
Saluti.
Traduzione a cura
di Massimiliano Rupalti
Articolo originale: Por qué se despilfarra tanto, 20.09.2011
Fonte: Il perché di tanto spreco, 08.10.2011