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La Redazione

 

I piu' letti degli ultimi 7 giorni

IL PERCH DI TANTO SPRECO

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A cura di supervice
Il 9 Ottobre 2011
46 Views
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DI ANTONIO TURIEL
The Oil Crash
Effetto Cassandra

Cari lettori, c’è un argomento

ricorrente nelle ultime discussioni ed ha a che fare con la possibilità

di mantenere una società stabile e vivibile diminuendo volontariamente

i consumi. Una tale affermazione è innegabilmente certa: dico sempre

che è ridicolo parlare di scarsità di energia mentre nel mondo si

consumano 85 milioni di barili al giorno di petrolio da 159 litri ciascuno;

pensateci, sono più di 156.000 litri al secondo in tutto il pianeta

e ciascun litro di questo magico elisir contiene la stessa energia che

un uomo sano e forte (circa 100 watt di potenza media) potrebbe produrre

lavorando senza sosta per quasi 4 giorni e mezzo (per circa 106 ore).
Insomma, il mostruoso

flusso di energia che arriva solo dal petrolio nel pianeta equivale

al lavoro quotidiano di 60 miliardi di nerboruti schiavi energetici

di quelli da 100 watt per unità: 8 e mezzo per ogni abitante di questo

pianeta e questo solo di petrolio (dato che il consumo globale di energia

primaria è di 14 TW di media mondiale, contando tutte le fonti è di

20 schiavi energetici a persona; la media europea arriva a 45 schiavi

energetici a testa, mentre negli Stati Uniti la media fa 120). Giudicate

Voi, ora, se si può parlare di scarsità di energia con questi numeri,

soprattutto tenendo conto di come si spreca l’energia.

E comunque si sta verificando

una situazione di scarsità. Questa scarsità non è tecnica,

come tante volte si è discusso nel blog, né è materiale

(perché anche se in futuro ci sarà meno energia ne abbiamo così

tanta che potremmo gestire una lenta discesa fino ad arrivare ad una

stabile base rinnovabile; con un consumo di uno o due ordini di grandezza

inferiori di quello attuale, quello sì). Il problema della scarsità

viene dal fatto che energia

ed economia sono intimamente legate,

e pretendere di vedere le due variabili separatamente, fino al punto

di cercare di risolvere i due problemi uno indipendentemente dall’altro,

impedisce di vedere la profondità dell’abisso al quale, come società

globalizzata (e non solo occidentale) stiamo arrivando.

Nell’articolo che segue

spiegherò alcuni concetti che mostrano fino a che punto non possiamo

scindere energia ed economia nella nostra società e come pretendere

di risolvere il problema energetico, senza prima cambiare il sistema

economico, sia un’impresa destinata inevitabilmente al fallimento. Non

dimostrerò nulla in concreto né quantificherò in modo preciso il

bilancio economico-energetico delle transazioni umane descritte; provo

solo, per mezzo di alcuni casi ed esempi, a farvi comprendere quanto

sia necessaria una trattazione olistica di questo argomento e come le

tipiche soluzioni semplici di risparmio ed efficienza che si propongono,

dai bar di paese alle più alte cariche dello Stato, peccano di una

scarsa lungimiranza che le rende inutili, se non controproducenti, nella

pratica.

Una

prima questione di cui tenere conto, commentata di frequente in ambienti

picchisti, è il Paradosso

di Jevons.

Per coloro che non conoscono la storia, William Stanley Jevons, lord

inglese che è vissuto a cavallo fra due secoli, ha osservato che, nel

19° secolo, nella misura in cui si introducevano miglioramenti nelle

macchine a vapore aumentandone l’efficienza, il consumo di carbone aumentava

al posto di diminuire come si sperava accadesse. La ragione è che si

produce ciò che in economia è chiamato effetto rimbalzo: se diminuisce

il costo di un prodotto (costo in denaro o energia) senza modificare

altri fattori, risulta che si stia dando un incentivo a consumare di

più questo prodotto, se il suo maggior consumo ci da un vantaggio,

cosicché con lo stesso reddito a disposizione possiamo consumare di

più; peggio ancora, chi prima non poteva accedere a questo consumo

perché aveva un reddito insufficiente, ora potrà farlo. Naturalmente

l’effetto rimbalzo non è solito influenzare aree dove non c’è un guadagno

reale per il maggior consumo del prodotto (per esempio, non è certo

che se sostituiamo le lampadine con altre a maggior efficienza si stia

creando di per sé la tendenza a mettere più lampadine; se si

compra di più è per altri motivi), però il rimbalzo è presente ed

è molto determinante per l’acquisizione di beni di investimento destinati

alla produzione di beni e servizi, vale a dire, alla attività economica.

Si deve comprendere, pertanto, che il ripetuto richiamo al miglioramento

dell’efficienza è controproducente se non è accompagnato da altre

misure, perché al posto di stimolare a consumare meno, si stimola a

consumare di più. Un esempio: se un’automobile consuma 20 litri per

100 chilometri e la benzina è cara, meno gente comprerà un’automobile,

ma se la stessa automobile consumasse 5 litri ogni 100 chilometri, automaticamente

una maggior quantità di gente considererà una buona idea comprarsi

il veicolo.

La realtà è

piena di esempi simili in cui i miglioramenti nell’efficienza in generale

(non solo energetica) e non solo degli elettrodomestici, ma dei mezzi

di produzione, ha fatto esplodere il consumo di molti prodotti (chi

pensava di comprasi un computer 30 anni fa?). Il problema è che le

misure che dovrebbero accompagnare i miglioramenti nell’efficienza dovrebbero

essere misure di pianificazione, di razionamento. Il problema del razionamento lo abbiamo già commentato

su queste pagine:

se si tenta di renderlo compatibile con un’economia di mercato, o anche

in sua assenza, si dà origine ad un mercato nero che può destabilizzare

il sistema favorendo la crescita di mafie che finiscono per fagocitare

lo Stato, nei casi estremi. Eppure sapete già che il governo britannico,

che sta prestando più attenzione di altri al problema del Picco del

Petrolio, ha

considerato la possibilità di introdurre dei protocolli di razionamento

dell’energia.

Sia come sia, l’efficienza ha senso solo se si limita l’accesso alle

materie prime dall’alto e questo si sposa male con la nostra economia

di libero mercato. Inoltre, l’aumento di efficienza implica una diminuzione

del costo di produzione (costo energetico ed anche costo economico)

così il valore del prodotto effettivamente non aumenta. Vale a dire,

con una limitazione di accesso alle risorse al migliorare dell’efficienza,

si forniscono più beni e servizi ma semplicemente perché il costo

unitario (economico e di risorse) degli stessi diminuisce. Essenzialmente,

un’economia del genere non cresce. E non crescere, ora lo vedremo, è

un veleno per il nostro sistema economico.

Un’altra possibilità

che viene solitamente commentata, ed è quella a cui si è abbonato

il commentatore Dario Duarte su “The Oil Crash”, è quella

che con un’adeguata consapevolezza sociale si può risparmiare tantissimo

e così posticipare il

collasso mentre

la società si adatta ad una nuova realtà di risorse materiali più

scarse. Siamo tutti coscienti del fatto che nella nostra società occidentale

si spreca tantissimo. Buttiamo il cibo in buono stato che serve solo

ad ingrassare i parassiti delle discariche, usiamo l’acqua senza senso,

cambiamo continuamente i nostri vestiti, il cellulare, l’automobile…

in Spagna c’è stata un’epoca non tanto lontana in cui quasi ci eravamo

abituati a cambiare casa di continuo.

Non

abbiamo bisogno di tanto, senza dubbio. Probabilmente con la decima

parte, anche la centesima parte di quello che abbiamo ora, potremmo

avere una vita degna e funzionalmente molto simile a quella attuale.

Risparmieremmo le risorse essenziali e sarebbe persino conveniente per

noi costruire un sistema di energie rinnovabili su questa scala e, in

quanto al resto delle materie prime, aggiunto alla decrescita del consumo,

con il loro riciclaggio integrale potremmo posticipare i problemi di

esaurimento di vari millenni, mentre apprendiamo a sintetizzare materiali

efficaci dal carbonio e da altri atomi abbondanti.

Insomma, è un

sentiero chiaro e veloce verso la soluzione, per evitare con sicurezza

qualsiasi rischio di degrado sociale e di caos. Ma, perché non lo seguiamo?

Semplicemente, perché non possiamo. Non è possibile smettere di consumare

a questo ritmo ed è necessario consumare a un ritmo crescente. E’ una

necessità del sistema finanziario. Senza questo consumo crescente una

massa, che finirebbe per essere maggioritaria, si troverebbe senza lavoro

e senza mezzi di sussistenza e, dato il modello del debito e della proprietà

privata che abbiamo, senza una totale sovversione dell’ordine imperante,

senza una rivoluzione con cui la gente prende con la forza le proprietà

ed il potere, il destino di tutta questa gente è quello di agonizzare

e morire. Può sembrare stupido, però di fatto è qualcosa che si è

ripetuto nella storia dell’Umanità: Jared Diamond lo commenta nel suo

libro “Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere”.

Sappiamo che 26 antiche civiltà sono collassate perché non sono riuscite

a trovare un modello alternativo per gestire le proprie risorse, in

alcuni casi per mancanza di immaginazione per essersi chiuse nel proprio

Business As Usual, il proprio BAU; morirono per la diminuzione delle

risorse disponibili ma non per mancanza di risorse propriamente dette.

Un caso paradigmatico è quello dei Maya dello Yucatan, che si imbarcarono

in una serie di guerre di dominio senza avere risorse sufficienti per

sostenerle (fondamentalmente mais, nel loro caso) ed infine collassarono

fino a scomparire da quelle terre anche se il territorio era ancora

in grado di sostenere una popolazione simile a quella che ha collassato.

E’ che con la guerra si era consumato tutto il mais e si erano distrutte

opere di irrigazione fondamentali per mantenere una buona produttività,

di conseguenza i combattenti non sono riusciti ad arrivare al successivo,

e più esiguo, raccolto. La nostra situazione è simile a quella dei

Maya? Vediamo alcuni esempi illustrativi.

In una recente conferenza

a Barbastro, un difensore delle soluzioni di stampo solo tecnologico

al nostro problema di sostenibilità sosteneva che in Spagna ogni persona

consuma in media 20 chili di vestiti ogni anno. Una quantità che considerava

smisurata e se, invece di dedicare tante risorse materiali ed energetiche

a questa produzione, una spesa ben frivola, si destinassero a preparare

la transizione tutto sarebbe molto più facile. Tuttavia, colui che

proponeva questa idea (simile, detto en passant, ad altre che centrano

le loro critiche su altre attività più o meno crematistiche, che sono

la regola nella nostra società) non teneva in conto che se di colpo

in Spagna (ma neanche in Italia e nel Mondo NdT) si passasse dal consumare

20 chili di vestiti a persona e l’anno dopo, poniamo, 1 solo e frugale

chilo, ci ritroveremmo col fatto che il 95% della produzione attuale

delle ditte tessili che operano nel nostro paese tenderebbe a scomparire.

Che liberazione di risorse, penserete, però sicuramente implicherebbe

il fallimento e la scomparsa del 95% di queste imprese (bene, dei loro

affari in Spagna – o Italia -) ed il 95% dei loro impiegati sarebbero

messi per strada. Inoltre, sarebbero messi per strada il 95% degli impiegati

nel settore logistico e dei negozi di vestiti ed i reparti di confezioni

dei grandi magazzini si ridurrebbero del 95%. Questo sarebbe solo l’impatto

diretto di questa caduta del consumo, ma poi si deve mettere in conto

l’indotto: questo 95% o più di diminuzione delle tasse che incasserebbe

lo Stato dai settori colpiti; la perdita del 95% dei clienti dei bar

che si trovano nelle strade commerciali, la diminuzione della vendita

di altri beni e servizi dovuti all’ingresso nella lista di disoccupazione

di tutti questi contingenti; i quali, inoltre, si suppone saranno un

costo ulteriore per lo Stato che, oltre a diminuire gli introiti, aumenta

le spese e, pertanto, deve tagliare da altre attività, generando più

disoccupazione e più contrazione economica nei settori ausiliari colpiti.

Alla fine è ovvio che un cambiamento simile non si può fare dalla

sera alla mattina, poiché rischierebbe di fare un danno anche maggiore.

Essenzialmente, il nostro sistema economico è un obeso patologico con

la pressione altissima, la cui vita è in pericolo ma che non si può

far dimagrire troppo rapidamente per non correre il rischio di indurre

degli scompensi che lo ucciderebbero ugualmente.

Quindi lo dobbiamo

far dimagrire a poco a poco e nel frattempo andiamo a sgonfiare i costi

superflui ed a investire in quelli essenziali. E quali sono quelli essenziali,

direte voi? Beh, investire in rinnovabili, orti… Il problema è

che non potete sperare che questo cambiamento avvenga spontaneamente;

abbiamo già spiegato che ad

un certo punto investire in rinnovabili non sarà redditizio secondo

i criteri economici standard,

e che di fatto le

rinnovabili non possono risolvere la crisi energetica come si sta pianificando con

la loro installazione. Siccome non si possono obbligare gli investitori

a spendere il loro denaro in qualcosa che ora come ora non percepiscono

come redditizia, lo Stato non ha denaro nemmeno per sovvenzionarne l’implementazione

(non diciamo a finanziarla). Il fatto è che non si finanziano le attività

fondamentali per il cambiamento del modello produttivo, economico e

sociale. E per quando sarà evidente che è necessario farlo, il livello

di degrado del mercato sarà tanto alto che mancheranno i capitali ed

alcuni materiali di consumo di base, e per questo sarà un’impresa difficile

e dolorosa, se non addirittura impossibile.

Siamo franchi: non

c’è una scommessa vera sul cambiamento del sistema. Sì, si comincia

ad investire qualcosa in energia rinnovabile, ma con criteri di redditività

classici. Cosa ripetono i gestori degli investimenti in rinnovabili?

Che devono migliorare tecnologicamente perché i costi si abbassino

e siano redditizie. E quando dicono redditizie non intendono dire che

coprano i costi, no; quello che intendono dire è che devono avere dei

tempi di rientro dell’investimento di pochi anni e che il rendimento

sia almeno del 5% all’anno. Insomma, non si vuole giocare ad altro gioco

che non sia il “BAU” di sempre, non si accetta il fatto che le regole

siano cambiate e si cerca di forzare la Termodinamica per far sì che

le rinnovabili rendano in funzione di queste cifre che ho appena citato.

Ma la Termodinamica è cocciuta…

Qual è, quindi, la

realtà dello schema che si segue? Quella di provare ad aumentare

i consumi, non di ridurli. Vi ricordate? All’inizio di questa crisi

si diceva che consumare

è patriottico;

lo ha detto Gordon Brown, allora primo ministro del Regno Unito. E’

che senza aumento dei consumi non c’è crescita economica e senza crescita

economica non si possono pagare i debiti. E cosa credete che succederà

adesso che stiamo

entrando in una nuova onda recessiva?

Poiché con più problemi di debiti che non possiamo pagare e, soprattutto,

il debito sulle spalle, difficilmente andiamo a pensare di smantellare

le attività più o meno redditizie a favore di altre che lo sono molto

meno. Sapete quante volte ho sentito che con la crisi che abbiamo non

è il momento di investire in energia verde, che lo si farà poi, superata

la crisi?

Non si può farne

una colpa, è logico, non sono redditizie. Quando si supererà

la crisi, dicono, quando finirà questa

crisi che non finirà mai.

Così è facile capire perché io creda che da questa spirale di degrado

economico se ne possa uscire solo con un’esplosione sociale, solo con

una rivoluzione. Oppure con il

collasso.

Saluti.

Traduzione a cura

di Massimiliano Rupalti

**********************************************

Articolo originale: Por qué se despilfarra tanto, 20.09.2011

Fonte: Il perché di tanto spreco, 08.10.2011

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