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La Redazione

 

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IL MONDO GI ENTRATO NELLA SECONDA FASE DELLA CRISI

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A cura di supervice
Il 2 Gennaio 2012
57 Views

DI ARMANDO BOITO JR.
Jornal da Unicamp

L’economista francese Gérard Duménil è autore di vari testi e saggi sul capitalismo contemporaneo.
Quest’anno ha pubblicato, in collaborazione con Dominique Lévy, il libro “The crisis of neoliberalism” (Harvard University Press, 2011). Dumenil ha tenuto all’Unicamp una conferenza sulla crisi attuale nel Centro di Studi Marxisti (Cemarx) nell’ambito del programma post-laurea di scienze politiche dell’Istituto di Filosofia e Scienze Umane (IFCH) dell’Unicamp. In questa occasione, ha concesso un’intervista al politologo Armando Boito Júnior, professore titolare dell’IFCH.

Jornal da Unicamp – Lei sta analizzando il capitalismo neoliberista da molto tempo. Nella sua analisi, come si caratterizza la fase attuale del capitalismo?Gérard Duménil – Il neoliberismo è la nuova tappa in cui è entrato il capitalismo dopo la transizione degli anni ‘70 e ‘80. Con Dominique Lévy parliamo di un nuovo “ordine sociale“. Con questa espressione designiamo la nuova configurazione dei poteri tra le classi sociali, delle dominazioni e delle difficoltà incontrate. Il neoliberismo si caratterizza con il rafforzamento del potere delle classi capitaliste in alleanza con la classe dei dirigenti (quadri), in modo particolare quelli che sono in cima alla gerarchia sociale e nel settore finanziario.

Nei decenni successivi alla Seconda
Guerra Mondiale, le classi capitaliste videro diminuire il proprio potere e i propri redditi nella maggioranza dei paesi. Semplificando, potremmo parlare dell’esistenza di un ordine “socialdemocratico” durante questo periodo. Le circostanze create dalla crisi del 1929, la Seconda Guerra Mondiale e la forza internazionale del movimento operaio avevano portato all’introduzione di un ordine sociale relativamente favorevole allo sviluppo economico e al miglioramento delle condizioni di vita delle classi popolari, operaie e degli impiegati subalterni. Il termine “socialdemocratico” usato per caratterizzare questo ordine sociale si applica, evidentemente, più all’Europa che agli Stati Uniti.

Con l’introduzione del nuovo ordine
sociale neoliberista, il funzionamento del capitalismo venne radicalmente
trasformato: fu imposta una nuova disciplina in materia di condizioni di lavoro, potere di acquisto, protezione sociale, eccetera, oltre alla deregolamentazione – fondamentalmente finanziaria – all’apertura delle frontiere commerciali e alla libera mobilità di capitali nel piano internazionale (libertà di investire all’estero). Questi ultimi

due aspetti hanno posto i lavoratori di tutto il mondo in una situazione

concorrenziale, indipendentemente dai livelli salariali dei diversi

paesi.

Sul piano delle relazioni internazionali

i primi decenni del dopoguerra, ancora nel vecchio ordine “socialdemocratico”,

furono segnati dalle pratiche imperialistiche dei paesi centrali: sul

piano economico, con la pressione sui prezzi delle materie prime e l’esportazione

dei capitali; sul piano politico, con la corruzione, la sovversione

e i conflitti. Con l’arrivo del neoliberismo le forme imperialiste furono

rinnovate. È difficile giudicare nei termini di intensità per poter

fare paragoni. In termini economici, l’esplosione degli investimenti

diretti all’estero negli anni ‘90 moltiplicò certamente il flusso

dei profitti estratti dai paesi periferici dalle classi capitalistiche

del centro. Il fatto che i paesi della periferia desiderassero ricevere

questi investimenti non modifica la natura imperialista di queste iniziative,

in quanto sappiamo che tutti i lavoratori “preferiscono” essere

sfruttati al rimanere disoccupati.

Quando a metà degli anni ‘90

proponemmo quest’interpretazione del neoliberismo in termini di classe

suscitò ben poco interesse. In seguito, l’esplosione delle disuguaglianze

sociali ha dato a quest’ipotesi la forza dell’evidenza. La particolarità

dell’analisi marxista è il riferimento alle classi più che ai gruppi

sociali. Il carattere di classe è inscritto in tutte le pratiche neoliberiste

e perfino i keynesiani di sinistra ora si esprimono in questi termini.

Tuttavia, rimangono opinioni negative per questa interpretazione; molti

non accettano il ruolo importante che noi attribuiamo ai dirigenti e

ai quadri nell’ordine sociale neoliberista.

Tra i marxisti si continua a rifiutare

l’idea che il controllo dei mezzi di produzione nel capitalismo moderno

sia assicurato sia dalle classi capitaliste che da quella dei dirigenti,

e che ciò rende quest’ultima una seconda componente delle classi

superiori. Questo rifiuto è ancora più sconcertante, considerando

che nel neoliberismo gli introiti delle categorie superiori dei dirigenti

sono aumentati ancor di più di quelli dei capitalisti.

JU – Per alcuni autori il neoliberismo

fu un aggiustamento inevitabile provocato dalla crisi fiscale degli

Stati; per altri fu il risultato, anche in questo caso inevitabile,

della globalizzazione.

Gérard Duménil – La spiegazione del

neoliberismo – a causa della “crisi fiscale” e spesso anche

dell’inflazione – è la spiegazione della destra; è una difesa

degli interessi capitalisti. Specula sulle inconsistenze dei blocchi

politici che hanno diretto l’ordine sociale del dopoguerra. Questi blocchi

sarebbero stati incapaci di gestire la crisi degli anni ‘70 e per

questo siamo giunti al neoliberismo. Succede la stessa cosa con la spiegazione

che presenta il neoliberismo come conseguenza della globalizzazione.

Quest’argomento riguarda invece le causalità. Il neoliberismo si orienta

verso la globalizzazione, una tendenza antica, per aprirsi nuove strade

e per accelerare il suo corso, aprendo la via alla “globalizzazione

neoliberista”. Il movimento altromondista lottò per un’altra globalizzazione,

solidale, e non basata sullo sfruttamento al profitto di una minoranza.

JU – Lei ha appena pubblicato,

insieme al collega Dominique Lévy, un libro sulla crisi economica attuale.

Secondo la sua analisi, qual è la natura di questa crisi?

Gérard Duménil – La crisi attuale

è una delle quattro grandi crisi – crisi strutturali – che il

capitalismo ha attraversato dalla fine del XIX secolo: la crisi della

decade del 1890, la crisi del 1929, la crisi degli anni ’70 e quella

attuale iniziata nel 2007/2008. Queste crisi sono episodi di perturbazione

della durata di una decina di anni, almeno le prime tre. Si susseguono

con una cadenza di circa 40 anni e separano gli ordini sociali ai quali

mi sono riferito nella risposta alla prima domanda. La prima e la terza

di queste crisi, quelle dei decenni del 1890 e del 1970, sono successive

a periodi di caduta nel tasso di profitto e possono essere designate

come crisi di rendimento. Le altre due crisi, quella del ‘29 e l’attuale,

le designiamo come “crisi” di egemonia finanziaria. Sono grandi

esplosioni che hanno la sua origine nelle pratiche delle classi superiori

che cercano l’aumento delle proprie entrate e del proprio potere. Qui

si possono individuare i dispositivi basilari del neoliberismo: deregolamentazione

finanziaria e globalizzazione. Il primo aspetto è evidente, ma la globalizzazione

è stato, come indico, un fattore chiave della crisi attuale.

Caduta del tasso di profitto ed esplosione

senza controllo delle pratiche delle classi capitaliste sono due delle

principali spiegazioni delle grandi crisi nell’opera di Marx. La prima

è ben conosciuta. Nel Libro III del Capitale Marx difende la tesi della

necessità del cambiamento tecnologico nel capitalismo, la difficoltà

di aumentare la produttività del lavoro senza realizzare investimenti

molto costosi, quello che Marx descrive come “aumento della

composizione organica del capitale“.

Va notato che Marx confuta esplicitamente

che la caduta del tasso di profitto si debba all’aumento della concorrenza

(la seconda grande spiegazione per le crisi appare già abbozzata negli

scritti di Marx a partire dal 1840). Nel Manifesto del Partito Comunista

Marx descrive le classi capitaliste come apprendisti stregoni, che sviluppano

meccanismi capitalistici in forme e dimensioni rischiose e che perdono,

alla fine, il controllo sulle conseguenze delle loro iniziative. Gli

aspetti finanziari della crisi attuale rimettono direttamente alle analisi

del “capitale fittizio” che Marx sviluppa largamente

nel Libro II del Capitale e che erano già presenti in certo modo anche

nel Manifesto. Stranamente alcuni marxisti accettano la spiegazione

delle grandi crisi solo per la caduta del tasso di profitto, escludendo

qualunque altra spiegazione.

Ma la crisi attuale non è una

semplice crisi finanziaria. È la crisi di un ordine sociale insostenibile,

il neoliberismo. Questa crisi al centro del sistema sarebbe comunque

arrivata un giorno o l’altro, ma è giunta in modo molto particolare

nel 2007/2008 negli Stati Uniti. Si sono congiunte due circostanze.

Da una parte, la fragilità indotta in tutti i paesi neoliberisti a

causa delle pratiche di finanziarizzazione e di globalizzazione fondamentalmente

finanziaria, motivata dalla ricerca sfrenata di rendimenti crescenti

da parte delle classi superiori e rafforzata dall’assenza di regolamentazione.

La banca centrale degli Stati Uniti, in questo caso, perse il controllo

dei tassi di interesse e la capacità di condurre politiche macroeconomiche

a causa della globalizzazione finanziaria. In secondo luogo, la crisi

fu l’effetto della traiettoria economica statunitense, una traiettoria

di squilibri cumulativi, che gli USA possono mantenere grazie alla loro

egemonia internazionale, contrariamente all’Europa che, presa nel suo

insieme, non ha squilibri di questo tipo.

Dal 1980 il ritmo di accumulazione

di capitale negli Stati Uniti è calato all’interno, mentre crescevano

gli investimenti diretti all’estero. A questo va sommato un deficit

crescente del commercio estero, un forte aumento dei consumi da parte

dei settori più agiati e un indebitamento sempre maggiore delle famiglie.

Il deficit del commercio estero e l’eccesso di importazioni in rapporto

alle esportazioni hanno alimentato un flusso di dollari in tutto il

pianeta che aveva come unico utilizzo possibile l’acquisto di titoli

statunitensi, portando al finanziamento dell’economia nordamericana

da parte degli attori stranieri.

Per ragioni economiche che non spiegherò

qui, la crescita del debito estero doveva essere compensata da quella

del debito interno, quello delle famiglie e quello dello Stato, al fine

di sostenere l’attività nel territorio nazionale. Ciò fu fatto incoraggiando

l’indebitamento delle famiglie grazie alla politica creditizia e alla

deregolamentazione. L’indebitamento del governo avrebbe potuto sostituire

l’indebitamento delle famiglie, ma ciò andava contro le pratiche neoliberiste

anteriori alla crisi. I creditori delle famiglie – le banche e altri

– non trattennero i crediti da loro creati, ma li rivendettero sotto

forma di titoli, di cui circa la metà fu comprata dal resto del mondo.

A furia di prestare alle famiglie oltre

le loro capacità di saldare i debiti, gli inadempimenti si sono

moltiplicati dall’inizio del 2006. La svalutazione di questi

crediti destabilizzò il fragile edificio finanziario, negli Stati Uniti

nel mondo intero, senza che la banca centrale degli Stati Uniti fosse

in grado di ristabilire gli equilibri in un contesto di deregolamentazione

e di globalizzazione che lei stessa aveva favorito. Questo fu il fattore

scatenante, ma non quello fondamentale della crisi: una combinazione

di fattori finanziari (la follia neoliberista in questo settore) e reali,

la globalizzazione (il sovra-consumo statunitense e il suo deficit nel

commercio estero).

JU – Lei ha suggerito nelle

sue conferenze in Brasile che la crisi economica sarebbe entrata in

una seconda fase. Come si sta sviluppando la crisi?

Gérard Duménil – Il mondo è

gia entrato nella seconda fase della crisi. È facile comprenderne le

ragioni. La prima fase ha raggiunto il suo apice nell’autunno del

2008 quando fallirono le grandi istituzioni finanziarie statunitensi,

si avviò la recessione e la crisi si diffuse al resto del mondo. Le

lezioni della crisi del 1929 sono state ben apprese. Le banche centrali

sono intervenute in modo massiccio per sostenere le istituzioni finanziarie

(per timore di una replica della crisi bancaria del 1932) e il passivo

di bilancio degli Stati ha raggiunto livelli eccezionali. Ma queste

misure keynesiane, stimolando la domanda, potevano dar forma a una sostenibilità

economica temporanea. Ma ancora oggi i governi dei paesi centrali non

hanno preso coscienza del carattere strutturale della crisi. Agiscono

come se la crisi fosse unicamente finanziaria e fosse gia superata;

nel frattempo, le misure keynesiane hanno permesso solo di guadagnare

tempo. Nessuna iniziativa anti-neoliberista è stata introdotta nei

paesi centrali. Sono solo politiche che cercano rafforzare lo sfruttamento

delle classi popolari.

Negli Stati Uniti l’amministrazione

di Obama ha elaborato una legge, la Dodd-Frank, per regolamentare le

pratiche finanziarie, ma i Repubblicani hanno bloccato completamente

la sua applicazione. In altri campi –gestione delle imprese, esportazioni,

deficit del commercio estero – non è stato fatto niente. In Europa

la crisi non viene identificata con la crisi del neoliberismo. La Germania

viene presentata come la prova della solvibilità della via neoliberista.

La crisi viene imputata all’incapacità di gestione di alcuni Stati,

principalmente quello greco e quello portoghese.

La destra ha ripreso l’offensiva in

tutti i campi. Si sta aggrappando alla questione dei deficit

di bilancio e alla dimensione del debito pubblico. Finge di non vedere

che l’austerità, oltre a rappresentare un trasferimento del peso del

debito alle classi popolari, non può far altro che provocare una ricaduta

verso una nuova contrazione dell’attività. Questa è la seconda fase

della crisi ma non l’ultima. La nuova ricaduta recessiva renderà necessarie

nuove politiche. Diversamente dall’Europa, gli Stati Uniti si sono diretti

speditamente verso il finanziamento diretto del debito pubblico tramite

la banca centrale. Nonostante le posizioni della destra, sarebbero necessarie

altre misure. Noi riusciamo a vedere come l’Europa possa evitarlo.

JU –

È noto che la crisi economica ha colpito in maggior misura, per

lo meno finora, gli Stati Uniti e l’Europa. Negli anni

’90, al contrario, la crisi economica fu più

forte nella periferia. Perché questa differenza? Come si manifesta

la crisi attuale nelle differenti regioni del globo?

Gérard Duménil – Fino alla seconda

metà degli anni ’90 il neoliberismo ha prodotto stragi in tutto

il mondo, principalmente in America Latina e in Asia. Lo stesso avviene

oggi, i tassi di crescita in America Latina rimangono inferiori a quelli

dei primi decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale e ciò malgrado

la forte riduzione dei salari reali che, in alcuni paesi della regione,

furono ridotti della metà dalla crisi degli anni ’70. Nel decennio

degli anni ’90, e nel 2001 in Argentina, lo sviluppo del neoliberismo

ha provocato una forte crisi, della quale quella argentina rappresenta

un esempio emblematico.

Il mondo è entrato in una nuova fase.

La transizione al neoliberismo ha provocato una specie di “divorzio”

nei paesi del centro tra gli interessi delle classi superiori e quelli

del paese come ambito economico. Il caso degli USA è spettacolare.

Come ho già detto, le grandi imprese di questa nazione investono sempre

meno nel proprio territorio e sempre di più nel resto del mondo. La

globalizzazione ha portato a una delocalizzazione della produzione industriale

verso le periferie: Asia, America Latina e perfino verso alcuni paesi

dell’Africa sub-sahariana.

JU – Le politiche proposte dai

due grandi dell’Unione Europea per superare la crisi ripetono le formule

neoliberiste. I mercati intimoriscono i governi; Sarkozy e Merkel richiedono

sempre più tagli al bilancio. Perché insistono su una politica

che, per molti osservatori, è proprio all’origine della crisi? Che

risultato si può ottenere con l’applicazione di queste politiche?

Gérard Duménil – In nessun modo penso

che la mancanza di rigore sui bilanci sia stata una delle cause della

crisi. È invece l’espressione di un’ingenua valutazione keynesiana,

tanto ingenua quanto quella che i keynesiani hanno nei riguardi della

capacità di queste politiche di permettere di uscire dalla crisi senza

prendere in considerazione le necessari trasformazioni anti-neoliberiste.

Anche in questo caso, le politiche che cercano eliminare i deficit

non hanno ostacolato una nuova flessione della produzione.

JU – Molti analisti hanno

evidenziato che i partiti, siano di destra o di sinistra, non si differenziano

molto nelle proposte per affrontare la crisi. Inoltre, in vari paesi

europei – come Inghilterra, Spagna e Portogallo – la destra

è stata favorita elettoralmente dalla crisi economica. I movimenti

sociali potrebbero costruire un’alternativa di potere? Quale potrebbe

essere un programma popolare per affrontare la crisi attuale?

Gérard Duménil – Non abbiamo

ancora parlato degli aspetti politici del neoliberismo. L’alleanza della

vetta della gerarchia sociale tra la classe capitalista e quella dei

dirigenti è riuscita, con diversi meccanismi, ad allontanare le classi

popolari dalla politica. Le ha allontanate dal campo dei partiti e dai

gruppi di attivismo. Per le classi popolari è rimasta solo rimase solo

la lotta nelle piazze.

È necessario rimettere in primo piano

i gruppi sociali che si trovano nella “periferia” delle classi

dei dirigenti (quadri): gli intellettuali e i politici professionisti.

Nel compromesso sociale dopo la Seconda Guerra Mondiale, frazioni relativamente

importanti di questi gruppi erano a favore dell’alleanza con le classi

popolari a cui non appartenevano. Nel contesto del collasso del movimento

operaio mondiale, le classi capitaliste sono riuscite, col neoliberismo,

a sancire un’alleanza con le classi dei dirigenti, utilizzando principalmente

la risorsa della remunerazione, portando gradualmente questi gruppi

periferici (l’università ci porta esempi calzanti di questo fenomeno)

verso l’attività di conquista sociale tipica del neoliberismo. La

quantità dei gruppi sociali stretti in un’alleanza con le classi popolari

è diminuita sempre più, riducendosi ad alcuni gruppi di “illuminati”,

gruppi ai quali io stesso appartengo.

Le sofferenze delle classi popolari

non arriva al gruppo dei dirigenti e, sul piano politico, non esistono

più grandi partiti di sinistra. In Francia abbiamo già visto quello

che è diventato il Partito Socialista, completamente arruolato nella

“globalizzazione”, un termine usato per occultare il neoliberismo.

Qualcosa simile di potremmo dire dei Democratici negli Stati Uniti e

lascio a voi giudicare la situazione in Brasile.

La vita politica si riduce all’alternanza

tra partiti non equivalenti; ma il partito che si dice di sinistra è

incapace di proporre un’alternativa, per non parlare della sua capacità

di implementarla. Il voto costituisce ormai quello che noi in Francia

chiamiamo “voto punitivo“. La destra si alterna alla

sinistra in Spagna, per fare un esempio, perché la sinistra era al

potere durante la crisi; la destra non ha, evidentemente, nessuna capacità

superiore di gestire la crisi.

JU – Molti osservatori

hanno suggerito la possibilità

che l’euro si estingua. Lei ritiene che ciò

possa avvenire? In base alla sua analisi, quali sarebbero i risultati

più probabili della crisi attuale?

Gérard Duménil – È possibile che

alcuni paesi escano dall’eurozona. Ma ciò non risolverà il problema

del debito, che torneranno ad essere impagabili dopo la svalutazione

della nuova moneta in sostituzione dell’euro. Il problema è quello

della cancellazione del debito o dell’accorpamento da parte della

banca centrale. La crisi del debito ora ha colpito anche i paesi centrali

dell’Europa, e sarà necessario che questi prendano coscienza dell’ampiezza

e della vera natura del problema.

Ciò ci fa tornare alle caratteristiche

di quella che chiamiamo la “terza fase della crisi”. Quali

politiche saranno adottate per far fronte alla nuova recessione? Come

sarà digerita la crisi in Italia e poi in Francia? Come risponderà

la Germania alla pressione dei “mercati”, le istituzioni finanziarie

internazionali? Una cosa la sappiamo: questi debiti non devono essere

pagati, bisogna che questi debiti vadano portati fuori dalle banche

o che ci sia un forte intervento nella loro gestione.

Ora, il punto fondamentale è

dato dalla volontà dei governi dei paesi più potenti in ‘Europa

– principalmente la Germania – di rafforzare l’integrazione europea

invece di porre fine all’eurozona che si oppone alla volontà di “deglobalizzazione”

di alcuni? Questo dibattito nasconde la questione fondamentale: quale

Europa? Un’Europa delle classi superiori o quella di un nuovo compromesso

di sinistra?

**********************************************

Fonte: ‘O mundo já ingressou na segunda fase da crise’

15.12.2011

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE

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