A cura di Altreconomia
Nelle trame dei jeans che indossiamo, o nelle scarpe che portiamo ai piedi, si cela un mondo di sfruttamento che sfugge ai nostri occhi.
Da tempo pensavamo di dedicarci ad una Guida al vestire critico. Ci sembrava un atto dovuto verso tutte quelle persone che ci confidavano di non volersi più rendere complici dello sfruttamento che si cela dietro alle scarpe o ai jeans che indossiamo, ma non conoscevano le alternative possibili.
Sapevamo che era urgente dedicarci a questo lavoro, ma per lungo tempo lo abbiamo rimandato perché ci metteva paura. Ci spaventava la vastità del settore, la complessità produttiva, la difficoltà di raccogliere informazioni da un capo all’altro del mondo. In una parola ci spaventava l’idea di ammazzarci di fatica senza poter dare, alla fine, le risposte tanto attese. Poi abbiamo deciso di provarci, dicendoci che poco è meglio di niente. Così ci siamo imbarcati nell’avventura.Nel corso dell’indagine, molti timori si sono confermati. Abbiamo sperimentato quanto sia difficile ricostruire la filiera produttiva delle singole imprese, perché manca una legge sulla trasparenza e le imprese si guardano bene dal fornire informazioni. Basti dire che su 61 questionari inviati alle aziende, ne sono tornati indietro solo 5.
A volte abbiamo individuato dove stanno gli stabilimenti esteri o in quali Paesi è appaltata la produzione, ma non siamo stati capaci di raccogliere notizie sulle condizioni di lavoro. Alla fine, le imprese su cui abbiamo potuto raccogliere il maggior numero di informazioni, sono le grandi multinazionali perché su di loro vigilano molti gruppi.
Abbiamo anche constatato quanto sia difficile applicare il consumo critico nell’ambito del vestiario, perché le imprese seguono tutte la stessa strategia produttiva. Da quando siamo entrati nell’epoca della globalizzazione, il loro imperativo è diventato il contenimento dei costi ed è cominciato un fuggi fuggi verso il Nord Africa, l’Europa dell’Est, l’Estremo Oriente, in cerca di aziende terziste disposte a produrre per prezzi stracciati. In conclusione il mercato è inondato da una montagna di indumenti tutti diversi per colore, stile, marca, qualità. Ma pressoché tutti uguali per le condizioni di lavoro ingiuste, umilianti, oppressive.
Neanche il fronte dell’alternativa è molto attrezzato. Le esperienze del commercio equo sono ancora parziali o in via di perfezionamento, mentre quelle sorte per dimostrare che è possibile produrre nel rispetto dei diritti dei lavoratori sono ai primi vagiti.
Di fronte a tante difficoltà, ci siamo posti obiettivi più modesti: fare conoscere la complessità del settore, divulgare le informazioni disponibili sulle imprese più in vista e fornire ogni possibile traccia per poter orientare i nostri acquisti verso prodotti ottenuti nel rispetto dei diritti, dell’equità, della sostenibilità.
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Quasi 400 pagine suddivise in due parti principali: la prima conduce alla scoperta delle filiere del tessile e delle calzature, sempre più delocalizzate, sempre più frammentate; la seconda parte invece fotografa i nomi e le strutture produttive di centinaia di aziende. È la Guida al vestire critico curata dal Centro nuovo modello di sviluppo, che esce questo mese in libreria, e dalla quale sono stati tratti i brani pubblicati in queste pagine.
Una prima parte quindi tutta da leggere, e una seconda da usare, come dice il titolo, per “vestire critico”. La guida contiene anche una serie di indirizzi e di siti web dove trovare informazioni sui vestiti ecocompatibili, sui progetti più innovativi del commercio equo in campo tessile, sulle Campagne di pressione per sostenere le lotte dei lavoratori nei nuovi Paesi dove il lavoro è schiavo.
Marchi senza operai
Canottiere, mutande, calzini, sono fra le nostre cose più intime. Eppure sappiamo così poco di loro.
A malapena ci chiediamo di che materiale sono fatti, mentre non sappiamo niente della loro storia produttiva. Una storia lunga e intrigata che vale la pena conoscere.
Chi va in Cina, chi in Europa dell’Est, chi si serve totalmente di terzisti, chi mantiene degli stabilimenti propri, chi si dedica solo al marketing, chi continua a progettare i propri modelli. Districarsi nella babele produttiva è un vero rompicapo. Le imprese dell’abbigliamento si dividono in due categorie: quelle che appaiono, ma non producono e quelle che producono, ma non appaiono.
“Volete produrre 10.000 magliette al prezzo più basso possibile senza occuparvi di niente? Affidatevi alla Li & Fung Limited”.
Così potrebbe suonare un annuncio pubblicitario della maggiore impresa di intermediazione del mondo.
Fondata nel 1906 a Canton (Cina) come impresa di import-export, oggi la specialità di Li & Fung è l’intermediazione produttiva. I clienti debbono solo dire ciò che vogliono e Li & Fung glielo fa avere senza che debbano occuparsi di niente.
Il quartier generale di Li & Fung è ad Hong Kong, ma il suo database contiene informazioni su migliaia di imprese sparse in 40 Paesi. Così attraverso 6.000 dipendenti e centinaia di uffici dislocati in tutto il mondo, gestisce una rete di subfornitura di dimensione globale. All’inizio si avvaleva solo di imprese asiatiche, ma oggi ha subfornitori anche nell’area del Mediterraneo, dell’Europa Orientale e del Centro America, luoghi che hanno il vantaggio di essere più vicini ai clienti europei e statunitensi.
Li&Fung ha un giro d’affari di 5 miliardi di dollari, proveniente per due terzi dalla produzione di abbigliamento e per il resto da accessori sportivi, mobili, oggetti regalo, giocattoli, pentole, e altro ancora. Tra i suoi clienti principali figurano Levi Strauss, Abercrombie & Fitch, Coca Cola, Walt Disney, Robe di Kappa, Toys ‘R’ Us, Warner Bros.
Ma il vero re dell’appalto globale è Benetton. Benetton ha mantenuto il controllo diretto delle fasi a monte e delle fasi a valle, mentre ha affidato a terzi la parte centrale. A monte gestisce la produzione di filati, tessuti, tintoria, stamperia, tramite un gruppo appositamente creato che possiede al 100%. Il suo nome è Olimpias e dispone di vari stabilimenti dislocati nel Pratese, nel Salernitano ed anche in Croazia. Olimpias fornisce a Benetton il 60% del suo fabbisogno di tessuto a navetta, il 90% del tessuto maglia in cotone e il 90% del filato di lana cardato e pettinato. Si vocifera che Benetton possieda anche delle piantagioni di cotone in Turchia, ma è certo che in Patagonia (Argentina) possiede una tenuta di 900 mila ettari, un’estensione grande come l’Umbria, su cui alleva 300.000 pecore da lana.
A valle, Benetton gestisce la distribuzione in 120 Paesi tramite 5 mila punti vendita, spesso concessi in licenza a terzi (franchising). Nel mezzo, fra il tessuto e la distribuzione, c’è la manifattura dei vestiti che si apre con la progettazione dei modelli e si chiude con la stiratura, passando per il taglio, il cucito, la rifinitura. Ma Benetton non svolge direttamente nessuna di queste funzioni, salvo, forse, la progettazione. Per il resto si avvale di imprese terziste, che impiegano da pochi dipendenti a qualche centinaio.
La nuova strategia di Benetton è di spostare la produzione dove i costi sono più bassi, principalmente Europa dell’Est e Tunisia, ma anche Spagna e Portogallo. I numeri confermano questa tendenza: mentre in Italia gli occupati alle dipendenze delle imprese terziste di Benetton sono 7.400, in Europa dell’Est sono 14.500 e in Tunisia 5.000. L’orientamento è di mantenere in Italia la confezione di alta classe, e gli ordini flash che devono essere consegnati in tempi brevi. Invece la produzione di stagione, quella di massa che viene progettata due volte l’anno, è inviata in Europa dell’Est e Tunisia.
Il centro logistico di Castrette (Treviso) gestisce ogni anno qualcosa come 110 milioni di capi di vestiario. Oggi è affiancato da altri due centri logistici periferici, uno in Ungheria e uno in Croazia, che fanno da intermediari fra Castrette e le aree produttive dell’Europa dell’Est. Da Castrette ricevono tessuti e modelli, forse stoffa già tagliata, nonché bottoni e tutti gli altri componenti. Poi assegnano il lavoro di assemblaggio alle centinaia di aziende terziste dislocate in Polonia, Romania, Bulgaria, Croazia, Slovenia. A lavoro finito provvedono al ritiro e alla spedizione dei capi a Castrette per gli ultimi controlli di qualità e l’avvio verso i punti vendita.
Calzolai senza frontiere
Ma anche le scarpe hanno conosciuto una storia simile.
Prendiamo uno dei marchi italiani di successo nato negli ultimi anni, Geox. Anche Geox realizza tutta la produzione all’estero, ma si avvale di un sistema misto che comprende stabilimenti propri e stabilimenti terzi. Per la verità gli stabilimenti propri sono solo due, ma producono il 20% dell’intero venduto che ammonta a 10 milioni di paia di scarpe all’anno. Il restante 80% è prodotto da una trentina di terzisti, disseminati in Cina, Vietnam, Indonesia e Brasile.
Ai terzisti, Geox appalta le produzioni lunghe, ossia i grandi quantitativi programmati con notevole anticipo, mentre produce in proprio le piccole collezioni di breve durata. La Notech, un’altra società del gruppo, dall’Ungheria coordina il lavoro dei due stabilimenti che Geox possiede in Europa dell’Est: uno in Romania, l’altro in Slovacchia. Quello slovacco ha solo 500 dipendenti e può svolgere solo alcune fasi di lavoro, ma quello rumeno ha 1.300 dipendenti e gestisce l’intero ciclo di produzione. Inoltre ha una sezione specializzata nella fabbricazione di suole che lavora a ritmo continuo per rifornire anche i terzisti che producono in Asia e in America Latina.
Ovviamente la scelta di Geox è ricaduta sulla Romania perché qui un’ora di lavoro costa 78 centesimi di dollaro.
Ma per risparmiare ulteriormente, Geox appalta alcune fasi di lavoro, come il taglio e la cucitura, a laboratori circostanti in parte posseduti da investitori italiani, in parte da imprenditori romeni.
I più grandi fabbricanti di scarpe sportive sono invece nomi a noi sconosciuti come Yue Yuen, Kingmaker Footwear o Feng Tay, gruppi industriali nati a Taiwan, Hong Kong, Corea del Sud, ma ormai multinazionali a tutti gli effetti perché posseggono società e stabilimenti in molti Paesi dell’Estremo Oriente. Il più grande in assoluto è Yue Yuen, che fa capo alla famiglia Tsai di Taiwan tramite la società Pou Chen. Yue Yuen, che lavora per Nike, Adidas, Reebok, New Balance e varie altre marche mondiali produce il 17% di tutte le scarpe sportive vendute nel mondo tramite 250.000 dipendenti sparsi in sei stabilimenti, di cui quattro in Cina, uno in Indonesia e uno in Vietnam.
Lo stabilimento più grande si trova a Dongguan, una cittadina cinese, a ridosso di Hong Kong.
Nike vende ogni anno 100 milioni di scarpe per un fatturato di 13,7 miliardi di dollari, e controlla il 33% del mercato mondiale. Ma su un totale di 625.000 persone che nel 2004 lavorano per Nike, solo 24 mila sono suoi dipendenti diretti. Tutti gli altri sono alle dipendenze delle imprese appaltate che ammontano a 731, di cui 490 in Asia e 241 negli altri continenti.
Fino al 1990, il Paese preferito per trasferire la produzione in appalto era la Corea del Sud. Nel 1988, ad esempio, ben il 68% di tutte le scarpe Nike proveniva da questo Paese. Ma nel 2003 troviamo che la quota della Corea del Sud è scesa sotto l’1%. Viceversa quella della Cina, dell’Indonesia, e della Thailandia è passata, complessivamente, dal 10 all’81%.
La ragione di questa variazione sta nei salari. Nonostante venti anni di industrializzazione vissuta nella repressione, gli operai sudcoreani e di Taiwan sono riusciti a organizzarsi e a portare i loro salari a livelli che oggi sono 25 volte più alti di altri paesi asiatici.
L’esempio di Nike è stato seguito da tutte le imprese del settore, Reebok, Adidas, Fila.
Sul prezzo finale di un paio di scarpe Nike, il lavoro di assemblaggio incide per lo 0,4%, il materiale e le altre spese di produzione per il 9,6%, il trasporto per il 5%. Il resto sono balzelli privati e pubblici: tasse governative 20%, profitti del produttore 2%, pubblicità e marketing 8,5%, progettazione 11%, profitti di Nike 13,5%, quota del rivenditore 30%.
Nati per vendere
Il sistema della produzione appaltata in conto terzi è utilizzato anche dalle catene della grande distribuzione (Rinascente, Upim, Coin, Oviesse…) e dagli ipermercati (tra gli altri Coop, Carrefour, Auchan).
In effetti i principali committenti dei terzisti sparsi per il mondo sono gli operatori della grande distribuzione. Tanto più che negli Stati Uniti e in Nord Europa operano colossi come Wal-Mart, Gap, Tesco che si collocano ai primi posti nella graduatoria delle multinazionali.
La loro capacità di vendita è così ampia che dispongono in tutto il mondo di migliaia di imprese al loro servizio.
Dal cotone al sintetico
Il cotone si produce in 90 Paesi e rappresenta la fonte di guadagno per 100 milioni di famiglie.
Il maggior produttore è la Cina seguita da Stati Uniti, India e Pakistan (nel grafico: i maggiori produttori in termini percentuali).
L’insieme dei Paesi africani contribuiscono solo per il 5% alla produzione mondiale di cotone, ma per alcuni di loro, il cotone rappresenta la base dell’economia.
Basti dire che rappresenta il 76% delle esportazioni del Ciad, il 67% del Benin e il 57% del Burkina Faso.
Solo un terzo del cotone prodotto annualmente è collocato sul mercato mondiale, mentre gli altri due terzi sono trasformati localmente . Ad esempio Cina, India e Pakistan esportano pochissimo perché hanno una buona industria tessile. I Paesi africani, invece, esportano quasi tutto ciò che producono, perciò si collocano al terzo posto, come esportatori, dopo Stati Uniti e Uzbekistan.
Nel mondo, le fibre più utilizzate sono quelle artificiali e sintetiche, che coprono quasi il 60% del consumo totale. Il cotone segue con poco meno del 40%, mentre lana, lino e seta hanno un ruolo del tutto marginale.
I consigli della campagna
La “Guida al vestire critico” si conclude con una serie di considerazioni su che cosa fare. Ecco una serie di consigli:
1) Pratica la sobrietà, e cioè “riduci, ripara, riusa”.
2) Compra dignitoso, quindi tieni d’occhio l’etichetta (il Made in…) e non fidarti solo delle certificazioni.
3) Compra equo (ormai sono molte le filiere di commercio equo dedicate all’abbigliamento per bambini e per adulti, spesso con tessuti biologici).
4) Compra sostenibile (cioè biologico) e democratico (evitando le industrie che producono anche per gli eserciti o hanno sedi in paradisi fiscali per non pagare le tasse).
5) Infine: partecipa alle Campagne.
In particolare: Il segretariato internazionale della Clean Clothes Campaign è un punto di riferimento anche per i sindacati del Sud del mondo che lo interpellano ogni volta che si verificano degli abusi gravi che devono essere risolti con urgenza. Si tratta di un gruppo di intervento via internet formato da persone ed associazioni disponibili ad attivarsi ogni volta che giunge una richiesta di sostegno.
Per maggiori informazioni:
www.abitipuliti.org
www.cleanclothes.org
www.china-labour.org.hk
Altreconomia
Fonte: http://www.altreconomia.it
Link: http://www.altreconomia.it/index.php?module=subjects&func=viewpage&pageid=325
03.04.2006