“IL MITO DELL’11 SETTEMBRE” – HOLLYWOOD DOCET

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DI ROBERTO QUAGLIA

Governare è far credere.
Niccolò Machiavelli

Dopo “Il concetto di Complotto“, “Bias di Conferma” e “Armi di Banalizzazione di Massa” presentiamo un quarto brano tratto dal libro di Roberto Quaglia “Il Mito dell’11 Settembre e l’Opzione Dottor Stranamore“. Per i lettori di Genova ricordiamo che oggi l’autore sarà in città per un incontro di presentazione del libro. N.d.r.

È cosa nota e risaputa che Hollywood interagisca costantemente col Pentagono per la realizzazione dei propri film. Il Pentagono è generalmente ben lieto di mettere a disposizione le proprie risorse, purché, certo, il copione sia di suo gradimento. Molto spesso, esso interviene concretamente sulle sceneggiature, chiedendo modifiche ed adattamenti per rendere una pellicola adatta alle proprie esigenze. La manipolazione non è pesante, tuttavia è costante.

Sono in realtà abbastanza rari i film americani che parlino di faccende militari e siano stati realizzati senza alcun aiuto ed approvazione da parte del Pentagono, ma chissà perché sono ben distinguibili. Il dottor Stra­namore era uno di questi. Altri film che non ricorsero all’aiuto del Pen­tagono furono Apocalypse Now, Comma 22, Forrest Gump, Ufficiale e gentiluomo, Platoon e Il sergente Bilko.

Produzioni cinematografiche sulle quali, al contrario, il Pentagono è sensibilmente intervenuto sono, ad esempio, Airforce One ed Independence Day. Se ci pensate bene, entrambi i film trattano temi che si sono poi rivelati utili nella «corretta interpretazione» di America under Attack. In primo luogo, il presidente degli Stati Uniti affronta in prima persona e sconfigge il nemico, assumendosi la responsabilità di decidere, agire e combattere per tutti. Il Bush della Crociata contro l’Asse del Male, il Bush che ripete ad oltranza ad amici ed alleati lo slogan hollywoodiano O siete con noi o siete contro di noi, è perfettamente assimilabile all’immagine del presidente tratteggiata nei film appena citati.

Il grosso della gente ha bene presente Independence Day, spesso addirittura in Dolby Surround 5.1, e così se in Independence Day il presidente degli Stati Uniti unifica il mondo nella lotta contro l’Orribile Nemico Comune, e questo processo si attua attraverso un crescendo di volume di fuoco ed esplosioni, cosa c’è di strano se la stessa cosa succede anche nel mondo reale?

Tra l’altro, Independence Day ha fornito anche una ottima anticipazione dei temi principali dell’11 settembre, e cioè la traumatizzante distruzione di importanti simboli americani. I crudelissimi alieni polverizzano con il loro raggio della morte addirittura la Casa Bianca, il Congresso e l’Empire State Building. Viene però a questo riguardo da chiedersi come mai il regista optò in questo caso per la distruzione di un simbolo a modo suo secondario, l’Empire State Building, risparmiando – se non ricordo male – un simbolo analogo, ma infinitamente più presente nell’immaginario collettivo, ovvero le due Torri Gemelle. La domanda può sembrare gratuita, ma non è sciocca come sembra. In una produzione cinematografica importante come quel­la di Independence Day, il livello di perfezionismo è altissimo. Se il tema è demolire spettacolarmente ciò che di più simbolico esiste a New York, dopo la Statua della Libertà vengono le Torri Gemelle e non l’Empire State Building. Infatti, l’11 settembre i «terroristi» mica hanno scelto per il loro attentato l’Empire State Building; essi sapevano bene che le Torri Gemelle erano un simbolo infinitamente più significativo.

Ma perché non ci si è giocati la distruzione di tale simbolo in Indepen­dence Day? Questo piccolo mistero si chiarisce se, con uno sforzo d’immaginazione, consideriamo in tutto e per tutto l’11 settembre come il sequel di Independence Day. Nel quadro di tale sconcertante ipotesi, è ovvio che le Torri sarebbero state risparmiate in Independence Day al fine di non «bruciarsele» per l’opera principale, America under Attack, che sarebbe di certo entrata nella storia del cinema se invece non si fosse preteso che si trattasse di un genuino fatto di cronaca. Se si fossero viste le Torri Gemelle crollare realisticamente già in Independence Day, l’esperienza di rivederle crollare pochi anni dopo in televisione avrebbe suggerito l’impressione di assistere alla ripresa di un vecchio film, e lo shock avrebbe potuto essere di molto inferiore. Se questa ipotesi trovasse corrispondenze nella realtà, vorrebbe dire che i fatti dell’11 settembre sarebbero stati messi in preventivo da qualcuno già parecchi anni prima, assai di più di quanto comunemente si ritenga.

Per la produzione di Airforce One, il Pentagono ha messo a disposizione una notevole quantità di elicotteri ed aerei da caccia. Lo spettatore crede, guardando il film, che Harrison Ford sia davvero il presidente degli Stati Uniti; ciò che invece viene installato nella sua mente è la credenza che il presidente degli Stati Uniti possa essere Harrison Ford. Sembra la stessa cosa, ma non lo è. E così, quando George W. Bush l’11 settembre vola in piena emergenza, sull’Air Force One, per i cieli dell’America senza una chiara destinazione, braccato da terroristi apparentemente onnipotenti – almeno ad ascoltare le cronache dei media – il telespettatore riconosce, pur senza prenderne coscienza, la situazione in atto, e George W. Bush si trasforma nella sua mente in una specie di Harrison Ford. E non a caso, pochi giorni dopo, i sondaggi in America segnano un aumento della popolarità di Bush sino a livelli mai goduti da alcun presidente in alcuna democrazia. Per riscontrare analoghi picchi di consenso, dobbiamo riportare alla memoria scene tratte da antichi documentari in bianco e nero, nei quali il consenso pubblico era quasi unanime… ma se non ricordo male non si trattava esattamente di regimi democratici.

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Nel settembre 2001 era pronto per la distribuzione Anthrax, un film sul tema di un’epidemia di antrace in America, il primo ad occuparsi di questo batterio che quasi nessuno conosceva. Ma d’un tratto le lettere all’antrace seminarono terrore in tutti gli Stati Uniti (in anticipo rispetto alle attese?) ed il film non venne messo in circolazione, anche se in seguito fu venduto in DVD.


[La copertina del DVD del film Anthrax (2001).]

Abbiamo già in precedenza accennato a Pearl Harbour, probabilmente il più evidente e sfacciato esempio di film propedeutico ai fatti dell’11 settembre. Ma, in misura maggiore o minore, gran parte della produzione hollywoodiana contiene elementi che nel loro piccolo contribuiscono all’intento. Anche la rappresentazione di crisi naturali, come in Armageddon (la storia di un asteroide incombente sulla Terra), serve allo stesso scopo, che è quello di inculcare nella gente l’idea che grossi problemi hanno di regola solo grandi soluzioni militari. In Armageddon ci si cura di riabilitare le bombe nucleari, poiché è un’esplosione nucleare a salvare la Terra distruggendo l’asteroide che la minaccia.

In Bad Company (2002), con Anthony Hopkins, invece, veniamo abituati all’idea che valigette contenenti bombe nucleari tascabili capitino con facilità nelle mani di terroristi folli, i quali ad altro non ambiscono che a farle detonare in qualche grande città americana, per il solo motivo del loro mal spiegato odio verso l’America. Ovviamente, l’unica nostra difesa, che forse riuscirà a salvarci, è la CIA.

Ed effettivamente i terroristi riescono a fare scoppiare una bomba atomica nel migliore The Sum of All Fears (2002), distruggendo Baltimora. Una città qualunque. La prossima potrebbe essere la tua. Molta più gente vi si può identificare rispetto a città come New York o Washington. Tuttavia (complice Tom Clancy, autore del soggetto) gli arabi per una volta non c’entrano.

007 Casino Royale (2006) ci propone una versione geneticamente modificata di James Bond. Il mitico 007 è diventato biondo, muscoloso e soprattutto antipatico. Dopo quarant’anni di colpo ogni traccia di ironia è scomparsa dal suo volto, dal quale non traspare più alcuna intelligenza, così come stile, eleganza e savoir-faire latitano dal suo repertorio. Il personaggio non è più amabile affatto, risulta anzi detestabile, in perfetta sintonia con la mutata percezione che la gente ha dei governi d’Inghilterra ed America. La «rambizzazione» di 007 è perfezionata dalla sua ossessione per i terroristi e la violazione delle più importanti regole del diritto internazionale (fa saltare in aria un’ambasciata dopo avervi appena commesso un assassinio). Per la prima volta 007 viene anche denudato integralmente dal cattivo di turno il quale poi a lungo lo tortura nei genitali in perfetto stile Abu Ghraib. Dobbiamo abituarci all’idea che le torture ai genitali sono tutto sommato una cosa normale, una sorta di prova di coraggio, guardate come ne è uscito bene James Bond! Un paio di giorni dopo le torture già ce l’ha di nuovo duro con la bella Eva Green, sintomo che le torture ai genitali sono in realtà afrodisiache e ci fanno risparmiare sul Viagra.

Team America (2004) è un eccellente film a pupazzi animati creato dagli stessi irriverenti autori del cartone animato South Park. Si presenta come un’opera trasgressiva, rigorosamente politically incorrect, intrisa di oscenità e turpiloquio gratuiti, che dileggia l’americana lotta al terrore. Tuttavia, pur irridendola, la legittima, alimentando il mito dell’esistenza di un net­work del terrore. Di fatto, il film si configura come un’astuta operazione di marketing del mito del terrore internazionale indirizzata alla frazione della popolazione di indole protestataria. Impressione ribadita nel 2006 in un episodio del cartone animato South Park: The Mystery of the Urinal Turd. Alle fine del quale scopriamo che la «teoria del complotto» è stata messa in piedi nientemeno che dalla Casa Bianca stessa allo scopo di appagare quella porzione di popolazione mentalmente ritardata che ha bisogno di credere in sciocchezze simili. Di fronte alla marea montante di un’opinione pubblica che non crede più alla versione governativa dei fatti, gli autori di South Park mettono tutta la loro intelligenza al servizio del pubblico lavaggio del cervello, creando narrazioni d’apparenza scandalosa, ma che nella sostanza tirano l’acqua al mulino degli interessi governativi. Una manipolazione tra le più raffinate e brillanti. Vivamente consigliata.

Una delle opere più inquietanti e misteriose è il noto The Day After Tomorrow (2004), colossal ecocatastrofista diretto da Roland Em­me­rich, lo stesso regista di Independence Day, che segue di pochi mesi la diffusione, da parte del Pentagono, di uno studio contenente la previsione di catastrofi ambientali di elevata portata negli anni e decenni a venire, dall’arresto della Corrente del Golfo e dalla conseguente riduzione a condizioni siberiane dell’Europa Occidentale in poi. Perché il Pentagono ci tiene così tanto a far sapere che «l’effetto serra è peggio di Al Qaeda»?
Le risposte possibili sono molteplici. Ottimisti e fiduciosi penseranno alla sincera preoccupazione del Pentagono per le sorti dell’umanità. Forse, dopotutto, i militari americani pensano davvero di avere la responsabilità ed eventualmente i mezzi per salvare il mondo da qualsiasi minaccia ne metta in discussione la sopravvivenza. Per esempio, l’effetto serra. Oppure no. Persone più diffidenti ipotizzeranno finalità ultime assai diverse in questo improvviso neoambientalismo da parte delle forze armate più potenti del mondo. Solo il tempo ci dirà quale sia l’interpretazione più corretta.

Tuttavia, è assai inquietante scoprire che The Day After Tomorrow si è poi drammaticamente rivelato come un ennesimo e sconcertante trailer di avvenimenti in agguato. Le più spettacolari catastrofi rappresentate sono lo tsunami che colpisce New York e l’uragano che devasta Los Angeles. Ad un anno circa dall’uscita del film uno tsunami distugge Sumatra e l’anno successivo un uragano devasta New Orleans. Sarà anche una coincidenza, però…

In 28 Days Later (2002), veniamo abituati al concetto che terribili pestilenze ci colpiranno per una fuga accidentale, dai laboratori che compiono ricerche sulle armi batteriologiche, di scimmie infettate da mostruosi virus e che in tale giorno del giudizio gli uomini superstiti non si comporteranno necessariamente bene tra loro. All’indomani dell’uragano Katrina, c’è stata paura per un centro studi nell’area di New Orleans dove si trovavano cinquemila scimmie cui erano state inoculate malattie infettive e che avrebbero potuto fuggire. Stavolta è andata bene.

Un discorso a parte merita l’ultimo episodio della saga Star Wars: Episode III, La vendetta dei Sith (2005). Il film si rivela come un’allegoria perfetta di quanto sta accadendo in America. Negli Stati Uniti ha destato polemiche il fatto che ad un certo punto Darth Vader pronunci la frase «Se non sei con me sei mio nemico», che riecheggia quella di Bush all’indomani dell11 settembre.
George Lucas ha spiegato di essere stato interessato a raccontare come una democrazia possa evolversi in una dittatura. Quindi, in un certo senso, il film può essere visto come un monito agli americani su ciò che potrebbe loro accadere; in un altro senso, esso «prepara» gli americani (e – ahinoi – non solo gli americani) a ciò che li aspetta.

Una delle caratteristiche più affascinanti delle armi di banalizzazione di massa è che esse assolvono anche alla funzione di «preparare» le menti a mutate condizioni di vita. Quando una condizione muta di colpo, noi ce ne accorgiamo, tanto che spesso si parla anche di «trauma del cambiamento». Mutamenti traumatici del nostro stile di vita suscitano la nostra opposizione. L’essere umano di norma rifiuta novità che ne scombussolino le abitudini, gli automatismi ed in senso più ampio il modo di percepire la normalità. Se il fenomeno riguarda grandi masse, si possono verificare resistenze e addirittura ribellioni. Le armi di banalizzazione di massa permettono di adattare progressivamente un popolo al cambiamento che dovrà assorbire, in un modo utile ad evitare – o a contenere – l’eventuale opposizione.

Un giorno stavo guidando l’auto su un autostrada in Germania, dove non ci sono limiti di velocità. Accelerai improvvisamente, suscitando la protesta del passeggero accanto a me, che si era spaventato. Dovetti quindi tornare ad un andatura contenuta. Poco dopo, accelerai di nuovo, ma questa volta lo feci progressivamente, senza scatti improvvisi. Dopo un po’, mi ritrovai a guidare alla stessa velocità che in precedenza aveva suscitato la protesta, ma adesso il passeggero era tranquillo e non si lamentava. Lo avevo abituato per gradi.

Succede anche alle rane. Se gettate una rana in una pentola di acqua bollente essa ne balzerà fuori all’istante. Se invece calate una rana in una pentola di acqua fredda e riscaldate l’acqua lentamente, la rana rimarrà oziosamente al suo posto e si ritroverà lessa.
Le armi di banalizzazione di massa fanno lo stesso con noi. Ci cuociono a fuoco lento e noi non saltiamo fuori dalla pentola. Non riusciamo a spegnere la televisione. Ci abituano per gradi agli scenari che ci attendono, così che la protesta, la ribellione ed il disordine sociale siano minimi quando tali scenari diventeranno realtà.

Inoltre, esse contaminano la nostra percezione dei problemi del mondo con la stessa patina di irrealtà che i nostri sensi assegnano all’intrattenimento audiovisivo. In quest’abbraccio diabolico tra realtà e rappresentazione si attenua l’abilità delle nostre menti di distinguere nettamente il vero dal falso. Smarriti e confusi in questa nebbia semantica ci ritroviamo incapaci a raccontare a noi stessi e agli altri il mondo senza attingere esempi e metafore dal minestrone audiovisivo che macera nel profondo delle nostre zucche. A tal modo, per quanto noi ci si sforzi di mettere a fuoco la realtà delle cose, alla fin della fiera ci ritroviamo sempre a discutere del film che più assomiglia a ciò che avremmo tanto voluto dire con parole nostre. Tutti i potenziali dissidenti e rivoluzionari si ritrovano così volenti o nolenti impelagati in sterili diatribe tra cinefili anziché in effettive discussioni nel merito. Se non ci credete, provate voi stessi coi vostri amici ad affrontare discorsi di questo tipo e fate attenzione a quanti minuti passano prima che vi ritroviate ineluttabilmente a discutere di cinema (o di televisione). Il risvolto più tipico è che il vostro amico ad un certo punto esclami: «È proprio come in Matrix!» Ed a voi altro non rimarrà che sussurrare sconsolati: «No. È proprio come spiegato nel libro di Roberto.»

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Come difendersi da queste armi? A livello di massa, non c’è alcuna difesa. Gustave Le Bon ha già detto in merito alla psicologia delle masse tutto quello che c’era da dire più di cento anni fa.
Anche a livello individuale non c’è poi troppa difesa, ma possiamo cercare di contenere i danni. Tentare di mantenere un livello di approccio analitico ogni volta che si assiste ad un fenomeno o ad uno spettacolo può eventualmente giovare. Ma la miglior ricetta per non farsi fregare troppo è probabilmente la seguente:

Non fidatevi mai delle risposte immediate a domande complesse.

Le risposte sono il trucco con cui si neutralizza la domanda (questo vale anche per i migliori scienziati).

Tutto ha una sua risposta – ma, per migliorare il grado della propria comprensione delle cose, la risposta va costantemente cercata, in un certo senso mai effettivamente trovata. Un po’ di zen nella vita non guasta. E so­prattutto, guai ad accettare come nostre le risposte che qualcuno che non ci conosce, ci porge dal teleschermo con ipocrita benevolenza su un piatto d’argento, cercando di sedurci, magari con un sorrisino mellifluo oppure, peggio, con l’aria rispettabile, seria e compunta di chi certamente sta dicendo la verità.

Né dovrebbe il lettore accorto destinare maggiore fiducia a quanto io stesso ho scritto in questo libro.
In un mondo allucinatorio come quello in cui viviamo, tutto dovrebbe essere costantemente messo in dubbio da chi desidera avvicinarsi alla verità più probabile, e quindi, non fosse che per una questione di principio, anche questo stesso libro.

Abbiate pazienza se anche io, in questo capitolo e soprattutto nel precedente, ho banalizzato argomenti importanti che meriterebbero maggior respiro. Tuttavia, se non altro, concedetemi l’attenuante che in questo caso di banalizzazione di massa non si è di certo trattato, dato che è assai improbabile che qualcosa che assomigli alle masse finisca per leggermi. Pren­diamo ed archiviamo quindi questo paio di capitoli per ciò che sono, ovvero niente più che umili brandelli di banalizzazione per pochi intimi. Perché i miei venticinque lettori sono, per certo, in numero assai minore dei venticinque lettori del buon vecchio autore de I Promessi Sposi. Eppure entrambi parliamo della peste per far effetto sul nostro pubblico.

Roberto Quaglia

http://www.mito11settembre.it
http://www.robertoquaglia.com

Per organizzare presentazioni pubbliche del libro con l’autore, scrivere a [email protected]

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