IL DECLINO DELL'IMPERO AMERICANO

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DI KIRKPATRICK SALE
Counterpunch

Almeno qualcuno alla fine si
è accorto che l’America ha fallito

Why America Failed,

libro che non tratta di questo, è non di meno una devastante e sviscerante

critica che dimostra in modo convincente che l’America ha fallito,

in modo abominevole e persino tragico. Questo lo rende un libro molto

importante che spero troverà un pubblico attento, in particolare fra

media ed intellettuali che hanno bisogno di capire le sue verità

e liberarsi della sempre più comune idea che ci sia una sorta di palliativo

che riformerà e riporterà il governo Americano verso un qualche passato

che si immagina sia efficiente e democratico. (Si prega di copiare,

membri di Occupy, del Tea Party, del movimento Tenther,

tutti i Democratici, eccetera).
Non posso non insistere su quanto essenziale sia questa saggezza per comprendere l’America di oggi, o di domani, o con quale forza Morris Berman (uno storico accademico emigrato in Messico) pone la sua tesi. Non è un libro troppo lungo (196 pagine, più le note conclusive), ma è pieno di prove schiaccianti a sostegno delle sue idee, come lui stesso scrive nella prima pagina:

L’obiettivo principale

della civiltà del Nord America e dei suoi abitanti

è ed è sempre stata un’economia in continua espansione

– abbondanza – e un’innovazione tecnologica senza fine –

“progresso”. Una nazione di persone energiche, scrive [Walter] McDougall,

di gente perennemente attiva.

Fin dall’inizio, dalla brillante

città sulla collina” di tradizione puritana, dalla conquista

dell’insediamento di Jamestown, dallo sfruttamento delle terre indiane,

questo paese ha sempre fatto e preso, in una cultura dell’impresa

con un orientamento commerciale, devota alla crescita e al potere, alla

ricchezza e alla proprietà, al progresso privato e al profitto, al

militarismo e al materialismo, all’espansione e all’impero. John

Adams lo vide agli inizi: gli USA erano “più

avidi di qualsiasi altra nazione mai esistita”. E come de Tocqueville

ebbe a dire successivamente: “Se uno scavasse sempre più

a fondo nel carattere nazionale degli Americani, vedrebbe che hanno

cercato il valore di ogni cosa in questo mondo solamente nella risposta

a questa singola domanda: quanto denaro se ne potrà

ricavare?

Almeno sia riconosciuto che, dato questo obiettivo ed ideale, questa nazione ha fatto un buon lavoro. È su ogni fronte ricca e potente (non badate al fatto che abbiamo 16 trilioni i dollari di debito e che abbiamo spazzato via 14 trilioni di dollari della ricchezza delle famiglie nell’ultimo crollo), piena di agi e di comodità, cibo e riparo, riscaldamento e calore per quasi tutti, strumenti hi-tech e sistemi, infrastrutture sviluppate da una costa all’altra (anche se fatiscenti), ha l’esercito più grande del mondo, la valuta di ripiego del mondo, un settore di servizi senza
eguali e tutto il resto di ciò che costituisce una moderna nazione industriale capitalista.

Ma quello che mostra Berman, con dettagli affascinanti, è che con una tale concentrazione di attività – che ha fatto delle nostre intere vite quello che sono -, abbiamo perso il senso del bene pubblico a fronte di interessi privati, il senso della comunità a fronte dell’individualismo sfrenato, il senso del benessere spirituale a fronte dello stress e della pressione materiale, il senso della vita semplice a fronte della complessità tecnologica, persino il senso vero del repubblicanesimo e della comunione politica a fronte dell’oligarchia manipolativa ed intrusiva e della ricchezza politica individuale. Molto di ciò che ancora riteniamo in qualche misura prezioso
– la stabilità piuttosto che il progresso, i rapporti faccia a faccia invece che on line, la famiglia e gli amici al posto del network e degli “amici”, ciò che è artigianale invece della produzione di massa, la virtù e la tradizione, l’onore e la semplicità piuttosto che l’egotismo e la modernità, l’interesse personale e il multi-tasking, la comunità invece dell’impresa – è stato perso in questa cultura
dominante dell’efficienza.

Non solo, abbiamo acquisito una serie di mali e dolori insieme alla prosperità materiale. Berman raccoglie tutta una serie di fatti piuttosto deprimenti che mostrano l’altra
faccia della medaglia della società tecno-commerciale: disoccupazione di massa, pignoramenti, povertà crescente per molti (con salvataggi delle aziende e bonus per i pochi egregi); una cultura criminale con
il più alto tasso di omicidi nel mondo e un sistema di correzione che annovera da solo il 25 per cento di tutti i prigionieri nel pianeta; un alto e onnipresente tasso di violenza, con la criminalità, la violenza
domestica e la guerra, anche nei film, in TV e nei videogames; un torpore sociale e diagnosi di “disturbi da deficit di empatia”; il consumo di due terzi del mercato globale di antidepressivi con almeno 164 milioni di utilizzatori; il 150° posto nella classifica Pianeta Felice del 2009; il tasso di solitudine probabilmente maggiore al mondo (il 25 per cento delle famiglie è composta da una sola persona). Oppure, come Berman espone a un certo punto:

L’esito finale della cultura capitalista, frenetica, del laissez-faire è che ogni cosa viene livellata verso il basso, ogni questione importante è ignorata, ogni attività umana si trasforma in merce e tutto va bene
se vende. Quello che abbiamo è il dominio dei media aziendali, delle politiche con le frasi ad effetto guidate dai sondaggi ed una politica estera basata sull’unilateralismo e gli attacchi preventivi, un’industria giornalistica debole, una cittadinanza poco informata, i disoccupati che diventano bisognosi, un sistema di trasporti di massa scarso (o inesistente) e un sistema sanitario al trentasettesimo posto nella classifica mondiale.

Il re (e il regno) è nudo.

Berman spende un bel po’ di tempo parlando della “cultura alternativa” a tutto questo, compreso “un impegno per i mestieri artigianali, per la comunità, per il bene pubblico, per l’ambiente naturale, per la pratica spirituale e la ‘vita semplice’” e ci mostra che i suoi sostenitori e i suoi campioni sono esistiti da sempre, anche se naturalmente sopraffatti dalla cultura dominante. Cita, ad esempio, Thoreau, Melville, Henry Adams, Veblen, Sinclair Lewis, Henry Demarest Lloyd, Ruskin, Morris e il movimento per l’artigianato, Eric Fromm, Lewis Mumford (per il quale giustamente spende molte pagine), gli Agrari del Sud, Robert Redfield, Vance Packard, William A. Williams, Marcuse, Ellul, Roszak, Schumacher, Lasch, Wendell Berry, e più recentemente Jerry Mander, Langdon Winner, Neil Postman, e un po’ sorprendentemente Ted Kaczynski. Questo è un gruppo distinto e oggi sono conosciuti perché il lavoro che hanno fatto era attento e tagliente e mostrava con forza i mali della società materialistica; ma, come osserva Berman quando parla di Mumford, alla fine “non riesci a essere preso sul serio se sottolinei tutto questo”. Lo so bene.

E così la cultura alternativa, anche se ai margini è sempre esistita e vi è tuttora, non ha mai seriamente fatto deragliare la locomotiva della civiltà del fare e nemmeno l’ha rallentata in modo percepibile. Infatti questa civiltà prenderà sempre provvedimenti per emarginarla, distruggerla se necessario, un fatto che Berman illustra nel capitolo sul Sud anteguerra. Berman mostra come il Sud era “l’unico esempio che abbiamo di un’opposizione all’ideologia dominante che aveva una vera forza politica” e aveva palesemente optato per una vita pre-moderna (anzi “neofeudale”), agreste, lenta, conservatrice, che onorava le tradizioni, l’onore, la cavalleria e l’ospitalità piuttosto che il fare soldi o inventare strumenti. In definitiva, il Nord sempre più industriale e in espansione non poteva sopportarlo, così iniziò una guerra per distruggerlo. “Il trattamento riservato al Sud da parte del Nord”, scrive Berman, “fu il modello a cui gli Stati Uniti si rifecero per trattare qualsiasi nazione considerassero nemica: non solo una politica di terra bruciata, ma anche una politica di ‘anima bruciata’” che avrebbero utilizzato nelle Hawaii, in Filippine, Cuba, Giappone, Vietnam, Iraq, Afghanistan e in qualsiasi altro posto potessero raggiungere.

È per questo che alla fine Berman conclude che niente potrà modificare questa nostra società del fare e che tutti i tentativi per cercare di sostituirla sono destinati al
fallimento: “Considero la fantasia di un futuro risanato una pura sciocchezza.” Ritiene, invece, che è il futuro sia destinato a un collasso inevitabile, e non ci vorranno molti decenni. Cita un rapporto dell’intelligence americana dal Washington Post che prevede “un declino costante” del dominio americano nei prossimi decenni, con un paese che si sgretola
a un ritmo accelerato” nelle “arene politiche, economiche e forse culturali” e aggiunge che “niente sembra essere più ovvio”.

In un raro momento di ottimismo, prosegue col dire che “il collasso potrebbe essere una buona cosa” se potesse in ultima analisi “aprire le porte ad una tradizione alternativa”, a un processo che, ammette, sarà “di lungo termine”. E suggerisce, e qui mi conquista il cuore, che uno dei mezzi per realizzarlo è la secessione, che mantiene le promesse proprio perché ha rinunciato a cercare di cambiare la società industriale nel suo complesso, in tutta la nazione, e invece sceglie ne piccole porzioni (come il Vermont) dove una qualche versione della tradizione alternativa può essere realizzata.

Al momento, dice, “questo progetto non ha un briciolo di speranza”, ma “in trenta o quarant’anni potrebbe non essere così inverosimile.”

Beh, può richiedere una generazione, ma io non la penso così. Il collasso arriverà più presto di quanto possiamo realizzare – ho previsto entro un decennio – e porterà la secessione (o qualcosa di equivalente, tipo città-stato o città fortificate medievali) come la sola opportunità possibile per una nuova società con nuove alternative su scala umana. Non lo sto predicendo, badate bene, sto soltanto dicendo che è la sola strada da prendere.

**********************

Kirkpatrick Sale è autore

di decine di libri, tra cui “Human Scale” e

“Rebels Against the Future: The Luddities and Their War on the industrial

Revolution” ed è Direttore del Middelbury Institute

per lo studio della separazione, della secessione e dell’auto-determinazione.

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Fonte: The Decline of the American Empire

23.01.2012

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ALESSANDRA BALDELLI

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