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La Redazione

 

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Il crollo dell’impero americano, parte II: l’economia

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A cura di Markus
Il 9 Marzo 2024
15110 Views

Joseph Jordan
littoria.substack.com

Se dovessimo individuare la chiave del successo dell’America durante le due guerre mondiali e lo stallo con l’Unione Sovietica, la troveremmo nella sua vibrante economia e nelle sue impressionanti capacità produttive.

Questa evidente prodezza economica si è ormai ridotta ad un enigma. Una parte sostanziale del valore dell’impero americano è oggi immaginaria.

Se, per interpretarla, ci affidassimo esclusivamente alla disciplina accademica dell’economia, sarebbe difficile capire come una nazione fortemente finanziarizzata possa convincere altri Paesi a continuare a produrre prodotti reali, fisici, che i cittadini di una nazione fortemente indebitata possano vendere gli uni agli altri e consumare a tassi non bilanciati dalle esportazioni nette.

È difficile razionalizzare – anche se gli economisti ci provano tramite la ripetizione e l’asserzione – come la Borsa di New York possa valere 32,7 trilioni di dollari quando in circolazione ce ne sono solo 2,3 trilioni, l’unica spiegazione è che tutto questo sia un sopravvalutato schema Ponzi, saturo di valori mobiliari e frodi contabili.

Forse ci sono spiegazioni plausibili, anche se inverosimili, per spiegare come il valore delle azioni di WeWork sia passato da 4,4 miliardi di dollari a 47 miliardi di dollari in un periodo di tre mesi, ma non abbiamo parole quando cerchiamo di capire come mai il 50% della ricchezza dichiarata di questa società sia sparita dall’economia nazionale in un solo giorno.

Tutte le strade portano di nuovo al dollaro USA, la valuta di riserva del mondo, e a un altro enigma da svelare. Si è scoperto che, dal 2008 al 2011, la Federal Reserve ha immesso 16.000 miliardi di dollari di credito a basso costo, creati da loro, per sostenere diverse banche e società in tutto il mondo – una storia che questa entità privata che stampa contanti a raffica ha fatto di tutto per tenere segreta al pubblico.

Per anni, il dollaro ha prosperato in un regime di tassi d’interesse allo 0%, massicci deficit commerciali e livelli record di prestiti e spese federali. Il dollaro USA rimane un gigante e l’inflazione, pur essendo oggi maggiormente sentita, non sta causando le crisi apocalittiche della bilancia dei pagamenti viste negli ultimi anni in Argentina o in Grecia.

Le ragioni vanno al di là dell’economia convenzionale, che in genere non esamina il potere e la politica. La vera forza dietro l’onnipotenza del dollaro deriva dalla conquista imperiale e dalle regole e dalle istituzioni economiche che i vincitori avevano creato dopo la Seconda Guerra Mondiale. Alcuni chiamano questo sistema post-industrialismo, globalismo o neoliberismo, ma tutti descrivono lo stesso programma: il mondo deve commerciare in dollari, denominare i propri debiti in dollari, liberalizzare i propri mercati e continuare a chiedere prestiti a condizioni spesso usurarie ai banchieri statunitensi.

Questo nuovo ordine era stato stabilito alla conferenza di Bretton Woods del 1944. In quella riunione a cui avevano partecipato 44 nazioni, due Ebrei – Harry Dexter White e Henry Morgenthau – avevano istituito il Fondo Monetario Internazionale (FMI), che avrebbe agito a livello globale come struttura di prestito predatoria e centrata sul dollaro.

Non tutti erano entusiasti di questo radicale trasferimento di potere, compresi alcuni membri della Grande Alleanza. A Bretton Woods, White e Morgenthau avevano incontrato la resistenza dell’economista britannico John Maynard Keynes, che aveva suggerito l’istituzione di una banca centrale globale che avrebbe emesso una valuta neutrale, il Bancor, per evitare il prevedibile abuso del monopolio valutario di cui Washington e New York avrebbero goduto con il sistema del FMI. Sebbene Keynes fosse di gran lunga più conosciuto, più rispettato a livello internazionale e più persuasivo nel dibattito contro White e Morgenthau, la sua idea era stata scartata a causa del fatto che, con il Lend-Lease Act, l’America era diventata creditrice nei confronti dell’Impero Britannico. L’Unione Sovietica si era categoricamente rifiutata di firmare questo accordo, ma la sua economia era stata devastata dalla guerra e quindi non aveva alcuna influenza. Con il marco tedesco e il franco francese distrutti o in crisi, le superpotenze europee, esauste e distrutte, non avevano avuto altra scelta che accettare la dittatura del dollaro.

Era stato a questo punto che White e Morgenthau, fortemente motivati dalla loro identità etnica ebraica, avevano messo a punto il grimaldello che avrebbe permesso al mondo dell’alta finanza, dominato dagli Ebrei, di essere incoronato re del mondo.

I peggiori timori di Keynes si erano avverati subito dopo la fine della guerra. Dopo la vittoria sul Giappone, gli Stati Uniti avevano improvvisamente tagliato tutte le linee di credito alla Gran Bretagna e avevano chiesto di rinegoziare il prestito in cambio della continuazione degli aiuti al presunto alleato, militarmente esaurito e in bancarotta. I termini estorsivi del nuovo prestito includevano l’apertura alle imprese statunitensi dei vasti mercati protetti dell’Impero Britannico, la neutralizzazione della sterlina attraverso attacchi alla sua convertibilità e varie riforme volte a smantellare l’impero del Regno Unito e il tenore di vita dei lavoratori britannici. Il prestito anglo-americano, come era stato chiamato, richiedeva ora il pagamento di interessi e un accordo che avrebbe permesso di ospitare basi militari statunitensi nei territori britannici. La Camera dei Lord aveva protestato per questa acquisizione da parte del potere militare e monetario statunitense, ma il malato e demoralizzato Keynes era stato costretto a capitolare dal fragile governo laburista di Clement Atlee. Il Regno Unito avrebbe impiegato 50 anni per ripagare questi debiti.

Washington, con una solida e salda base manifatturiera, si era trovata di fronte ad una serie infinita di opportunità dopo la sottomissione militare delle potenze industriali di Germania e Giappone e la trasformazione della Gran Bretagna in uno Stato vassallo. Era nato l'”ordine liberale basato sulle regole”, in cui Washington fa le regole e le infrange quando lo ritiene opportuno.

Con l’accordo iniziale di Bretton Woods, Washington aveva promesso che, per impedire lo sfruttamento della moneta americana, il nuovo ordine economico avrebbe agganciato il valore del dollaro all’oro. Questo non sarebbe durato.

Il dollaro aureo, finché era durato, era stato una costante fonte di costernazione per New York e Washington, ma, negli anni Sessanta, la situazione era precipitata.

Nel periodo immediatamente precedente al suo rovesciamento, durante la famigerata rivoluzione colorata guidata dagli Ebrei del 1968, il generale Charles De Gaulle aveva cercato di riaffermare la sovranità francese contro l'”esorbitante privilegio” del dollaro statunitense, scaricando le riserve nazionali di dollari in cambio del loro controvalore in oro. Anche se De Gaulle era stato detronizzato nel 1969, la sua ribellione contro il dollaro era riuscita ad esaurire le riserve auree del Tesoro statunitense. Questo aveva scatenato la corsa a cambiare dollari in oro – il “Nixon Shock” – che, nel 1971, aveva costretto la Casa Bianca, disperata, a porre fine arbitrariamente al gold standard di Bretton Woods per evitare il collasso economico.

Da allora, contrariamente alle aspettative, il dollaro ha continuato a crescere. L’economia post-industriale americana, guidata dalla finanza, ha portato in patria a gravi sofferenze economiche per la classe operaia e media, ma, allo stesso tempo, ha fornito agli oligarchi di tutto mondo un allettante incentivo ad “arricchirsi velocemente”. Gli stranieri possiedono oggi il 40% delle azioni degli Stati Uniti, il che rende l’acquiescenza ai capricci politici e imperiali di Washington e New York un prezzo che molti sono disposti a pagare.

Per i governi e le élite straniere, avversi al rischio, è anche redditizio e sicuro acquistare il debito americano. Quando un debitore possiede la macchina che può stampare il denaro che gli è dovuto, è una scommessa sicura presumere che i creditori saranno ripagati, con gli interessi. Nel caso della Cina, mantenere il dollaro USA forte e svalutare lo yuan acquistando il debito di Washington è tradizionalmente vantaggioso per tutti, in quanto mantiene alta la domanda di beni cinesi da parte dei consumatori americani.

Con l’aumento dell’aggressività e della misantropia delle forze plutocratiche di Washington, molte nazioni stanno iniziando a rivedere la loro alleanza con l’Impero Americano. La politicizzazione e l’uso come arma del dollaro statunitense e del potere americano sulle istituzioni finanziarie, come si è visto negli ultimi anni con i regimi di sanzioni totali e il congelamento dei beni nei confronti di Paesi come l’Iran e la Russia, sta portando molti a mettere in discussione il loro rapporto con l’economia statunitense.

È solo una questione di tempo prima che i sempre più numerosi nemici dell’America decidano di togliere il tappeto da sotto i piedi dell’economia statunitense. Una simile manovra potrebbe causare il caos nella finanza e nel commercio globale, ma le conseguenze più gravi saranno riservate alla classe dirigente americana in patria, quando il tenore di vita della gente comune precipiterà.

I tassi di interesse senza precedenti hanno dato l’impressione che il dollaro sia più forte che mai, ma si tratta di un’illusione costruita attraverso la cannibalizzazione dell’Europa e del Giappone. Di per sé, l’economia americana deindustrializzata non è né competitiva né sostenibile.

Il declino del tenore di vita

È ormai assodato che una delle principali fonti di instabilità politica (populismo, disperazione, rivoluzione, ecc.) è la disuguaglianza della ricchezza. Oggi gli Stati Uniti hanno la distribuzione della ricchezza più sbilanciata del mondo sviluppato, con un coefficiente Gini di 41,5 (rispetto ai due rivali del “secondo mondo”: 36 in Russia e 38,2 in Cina).

Il vero stato dell’economia statunitense è nascosto sotto pile di libri contabili e titoli propagandistici esagerati come “La sorprendente crescita economica dell’America sale di un’altra marcia“, ma questo riesce a malapena a nascondere gli aneddoti che fanno decine di milioni di visualizzazioni, come le donne dei canali TikTok che dichiarano che il nuovo “sogno americano” è emigrare.

Parte della disillusione di massa nei confronti dell’economia statunitense è radicata nel modo in cui essa è strutturata nel 2024, rispetto all’età dell’oro della classe media, gli anni Cinquanta. La percezione generale è che il tenore di vita sia peggiorato per la maggior parte delle persone.

Nell’immediato dopoguerra, l’economia statunitense rappresentava il 45% del PIL mondiale, grazie soprattutto alla produzione di beni materiali di alta qualità. Oggi, questa quota di ricchezza mondiale è scesa al 25%, il che è ancora impressionante, ma la distribuzione di questa attività economica è cambiata.

La radicale finanziarizzazione dell’economia, promossa dalle teorie dell’economista ebreo Milton Friedman negli anni ’80, aveva inaugurato un nuovo sistema che aveva iniziato a centralizzare il potere economico e politico nelle mani di forze non produttive del settore finanziario, assicurativo e immobiliare (FIRE).

Secondo i dati raccolti da Greta Krippner, nel 1954 quasi il 40% della popolazione attiva americana era impiegata nel settore manifatturiero, mentre circa il 5% partecipava alle attività FIRE. Già dopo la Prima Guerra Mondiale gli Stati Uniti avevano superato economicamente l’Impero Britannico e, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la necessità globale di prodotti americani aveva reso il Paese una superpotenza esportatrice.

Nello stesso periodo, il 40% dei lavoratori del settore manifatturiero creava il 35% del PIL statunitense, mentre il mercato FIRE rappresentava circa il 13% dell’economia.

Questa influenza sull’economia aveva permesso ai lavoratori americani di esercitare una notevole influenza sul capitale. Nel 1954, il 35% dei lavoratori salariati statunitensi era iscritto a un sindacato.

In seguito all’attuazione del Friedmanismo durante la “Rivoluzione di Reagan”, questa sinergia socio-economica si era capovolta.

Nel 2022, il Bureau of Labor Statistics aveva riferito che solo il 12,8% dei lavoratori americani era impiegato nel settore della produzione di beni (edilizia, miniere e manifattura). D’altra parte, ben il 70% degli americani lavora oggi nel settore dei servizi, rispetto al 15% del 1954.

Meno del 10% dei lavoratori statunitensi (circa 30 milioni) è impiegato nel mercato FIRE e nei servizi professionali alle imprese che lo servono (commercialisti, avvocati, consulenti, promotori finanziari, ecc.). Tuttavia, la percentuale del PIL controllata da questo settore è aumentata drasticamente dal 13% all’attuale 33%.

La spesa pubblica (11,6%) ha superato il settore manifatturiero (11%) in termini di contributo al PIL. Questo dato è fortemente correlato al crollo dei tassi di sindacalizzazione, che sono scesi al 10%, anche se, in questo caso, circa la metà della forza lavoro sindacalizzata è iscritta ai sindacati del settore pubblico, che sottraggono denaro ai contribuenti. Anche altri fattori, come l’immigrazione di massa e l’esternalizzazione – punti fermi di una politica neoliberista antidemocratica e antipatriottica – giocano un ruolo sostanziale nel ridurre il potere dei lavoratori.

Questa disuguaglianza è aggravata dal piano economico “finance-first” dell’élite al potere negli Stati Uniti. Il mese scorso è stato reso noto che il 10% degli americani possiede il 93% di tutte le azioni. del mercato finanziario. Quando si tratta di bilanci, il codice fiscale statunitense punisce il lavoro produttivo (imposta sul reddito) e incentiva le attività speculative (basse imposte sulle plusvalenze), il che significa che i ricchi diventano più ricchi mentre la classe lavoratrice diventa più povera.

La stagnazione nella generazione di ricchezza per i dipendenti e i salariati, insieme all’attività moralmente criticabile del settore FIRE sostenuto dalla Fed, ha reso sempre più difficile per la gente comune permettersi beni di prima necessità come la casa e il cibo.

Sulla carta, i lavoratori americani sono tra i più ricchi del pianeta, con un reddito medio tra i 55 e i 60 mila dollari all’anno. Ma questo è un dato politico creato per omissione, piuttosto che un riflesso degli standard di vita reali.

Ad esempio, un lavoratore che guadagna 50.000 dollari all’anno porta a casa solo 39.129 dollari al netto delle tasse. I lavoratori statunitensi della fascia media (da 50 a 100.000 dollari) pagano il 22% di tasse sul reddito, una percentuale inferiore alla media OCSE (34%), ma in cambio del pagamento di un terzo in più, i cittadini di altre nazioni sviluppate godono di trasporti pubblici di alta qualità, assistenza sanitaria universale e istruzione gratuita, mentre i lavoratori americani devono pagare tutto questo di tasca propria, spesso attraverso prestiti ad alto interesse e carte di credito. Il risultato è che una famiglia media negli Stati Uniti ha un debito di 128.824 dollari (17,3 trilioni di dollari in totale), di cui una parte crescente deriva dall’eccessivo ricorso alle carte di credito per far quadrare i conti.

Affinché una famiglia americana sia plausibilmente “di classe media”, è necessario che abbia due redditi, ma questo non è una garanzia. Nel 2019 il 44% degli americani aveva un lavoro che rendeva 18.000 dollari all’anno o meno. Per questa popolazione – i lavoratori poveri e gli indigenti – lo Stato fornisce cibo, assicurazione sociale, sussidi per l’assistenza sociale e per l’assistenza sanitaria, mettendo ulteriormente a dura prova la bilancia dei pagamenti.

Ciò ha portato a uno sviluppo imbarazzante, in cui i Paesi percepiti come secondo mondo, tra cui la Russia, rivale degli Stati Uniti, hanno iniziato a recuperare il livello di vita a lungo invidiato degli americani.

A parità di potere d’acquisto (PPP), un lavoratore russo che percepisce uno stipendio medio di 19.200 dollari all’anno a Mosca può permettersi lo stesso stile di vita di un lavoratore americano che guadagna 72.000 dollari all’anno in una grande città americana (Chicago, Los Angeles, New York, ecc.).

I lavoratori russi pagano sul loro reddito una flat tax del 13%, che, in cambio, permette loro di avere ottimi trasporti pubblici e assistenza sanitaria universale. Secondo le statistiche del 2017, la Russia ha un tasso di sindacalizzazione quasi tre volte superiore a quello degli Stati Uniti (27,5%). I lavoratori russi godono di 28 giorni di ferie pagate all’anno, contro una media di 11 giorni per le loro controparti americane. Il 23% dei lavoratori russi è impiegato nei settori della produzione di beni, con un ulteriore 5,8% che partecipa al settore agricolo (la produzione agricola russa è raddoppiata dall’inizio delle sanzioni occidentali nel 2022).

In Russia la distribuzione sbilanciata della ricchezza è ancora un problema, ma il governo di Vladimir Putin ha migliorato drasticamente la situazione. Quasi tutti i “Sette Oligarchi“, eminentemente Ebrei, che, ad un certo punto, negli anni ’90 controllavano metà della ricchezza della Russia e praticamente tutti i suoi media, sono stati imprigionati o costretti all’esilio dal governo di Putin.

I difensori del dominio economico di Washington sul mondo citano spesso il miliardo di persone liberate dalla povertà dal 1990. Tuttavia, la maggior parte di questo lavoro di lotta all’indigenza è avvenuto in Cina, dove 800 milioni di persone sono uscite dalla povertà. Gran parte della crescita della ricchezza reale è stata trainata dal settore manifatturiero cinese, che impiega il 28% dei lavoratori. Il raddoppio della classe media cinese dal 2012 al 2022 ha permesso allo Stato di iniziare a riorientare l’economia verso il consumo interno, mentre si intensifica la guerra commerciale con gli Stati Uniti.

Dimensioni, bilancia commerciale e debito

I media statunitensi hanno continuato a prevedere l’imminente crollo dell’economia cinese, ma, nel 2023, la Cina ha registrato una crescita del PIL del 5,2%, rispetto al 2,5% degli Stati Uniti.

Tra coloro che scommettono sul fatto che l’economia cinese continuerà a crescere ad un ritmo doppio rispetto a quella americana ci sono alcuni industriali statunitensi, altamente antipatriottici. Tim Cook di Apple, Elon Musk di Tesla e altri nel 2023 hanno più volte visitato la Cina per annunciare l’espansione della loro partecipazione economica nel Paese, nonostante gli sforzi di Pechino per monitorare e regolamentare da vicino gli investimenti stranieri.

Per i capitalisti occidentali, perdere l’accesso al mercato cinese è impensabile. Se si adegua il PIL alla parità di potere d’acquisto, l’economia cinese ha da tempo superato quella statunitense. Nel 2023, la Cina si attesterà a 30,3 trilioni di dollari, mentre gli Stati Uniti sono secondi con 25,4 trilioni di dollari.

Un fatto meno noto è che, l’anno scorso, la Banca Mondiale ha riferito che l’economia sanzionata della Russia (5,32 trilioni di dollari) ha tranquillamente superato quella della Germania (5,30 trilioni di dollari) diventando la più grande economia in Europa e la quinta più grande del pianeta. Se la Russia supererà lo stagnante Giappone (5,7 trilioni di dollari) nel prossimo anno o due, tre delle quattro maggiori economie del mondo apparterranno ai BRICS.

Ad un esame più attento, va notato che ci sono serie differenze nello stato di salute di queste rispettive economie. La Cina, il cui sistema economico è pianificato per esportare più di quanto importa, gode attualmente di un surplus commerciale di 877 miliardi di dollari, mentre i russi, ricchi di risorse, hanno registrato un attivo di 140 miliardi di dollari grazie al riorientamento del loro mercato petrolifero verso l’Asia. Per contro, gli Stati Uniti hanno registrato un deficit commerciale di 773 miliardi di dollari nel 2023, anche se si tratta comunque di un miglioramento relativo rispetto al buco di quasi mille miliardi di dollari dell’anno precedente.

Il debito del PIL americano è attualmente pari al 112%, rispetto al 66,5% della Cina e al 15,1% della Russia. Il più importante protettorato asiatico dell’America, il gigante economico giapponese, è sostenuto da un debito sempre meno sostenibile, pari al 232% del suo PIL.

Se da un lato il “privilegio esorbitante” del dollaro statunitense può consentire all’America di importare molto più di quanto esporti, dall’altro la sua base manifatturiera, ormai svuotata, la pone in una posizione di grave svantaggio in un’epoca di concorrenza tra grandi potenze.

Tra l’enorme potenziale manifatturiero della Cina e le abbondanti risorse naturali della Russia, stiamo arrivando ad un punto in cui le sanzioni e le guerre commerciali lanciate dal G7 danneggiano più gli aggressori che gli aggrediti.

Secondo il Supply Chain Vulnerability Index, gli Stati Uniti sono il Paese più suscettibile alle interruzioni del commercio globale. Questa interdipendenza, dove gli Stati Uniti consumano senza produrre, rivela un’enorme disparità con i cinesi, completamente autosufficienti. I dazi dell’era Trump su 300 miliardi di dollari di merci cinesi, confermati dall’amministrazione Biden, hanno causato molti più danni ai capitalisti americani che alle imprese cinesi.

Questa dinamica si fa sentire anche nel campo dei conflitti cinetici, come si è visto con gli sviluppi della guerra in Ucraina. La capacità dell’industria russa di resistere alle sanzioni globali e  produrre rapidamente armi ha sconcertato la NATO. Il blocco atlantista non è stato in grado di continuare a fornire al regime di Zelensky gli armamenti necessari per mantenere all’Ucraina lo status artificiale di pari militare nei confronti della Russia nel 2022 e in parte del 2023.

Detronizzare il Re Dollaro

Il dollaro americano, insolitamente potente, è una fonte di miseria sia per gli americani comuni che per gran parte del mondo.

L’elevato tasso di cambio del dollaro (e, in misura minore, dell’euro) rispetto alle altre valute mondiali è uno dei principali motori dell’immigrazione di massa dal Sud del mondo verso l’Occidente, in quanto le rimesse degli immigrati hanno un grande impatto sulle economie dei loro Paesi d’origine. Gli immigrati che pagano ingenti somme di denaro ai contrabbandieri per essere portati in Occidente spesso puntano su dollari ed euro, un investimento che non varrebbe la pena di fare se queste valute si indebolissero fino a raggiungere un tasso di cambio più realistico e competitivo.

A livello nazionale, al di là dei profitti record di cui hanno goduto le prime sette aziende (in gran parte aziende tecnologiche sopravvalutate e impegnate in operazioni improduttive di data-mining come Meta e Google) dello S&P 500, le imprese americane, generalmente non redditizie, sono state duramente colpite dall’aumento dei tassi di interesse. Nel 2023, la mancanza di un flusso di credito a basso costo ha causato una impennata di fallimenti, la peggiore degli ultimi 13 anni, nonché il più grande fallimento bancario dalla crisi del 2008.

A ciò in Occidente si aggiunge l’incentivo a mantenere i salari il più bassi possibile e ad esternalizzare le attività produttive, a causa della necessità del capitalismo americano di mantenere i prezzi dei suoi marchi (Tesla, iPhone, ecc.) accessibili alle classi medie superiori del mondo meno sviluppato. Se da un lato, grazie a questo rapporto, le importazioni sono a buon mercato, dall’altro il rovescio della medaglia è che gli americani faticano a comprare beni di prima necessità che devono essere acquistati in patria.

Alla riunione del G10 del 1971, il Segretario del Tesoro statunitense John Connally aveva detto agli “alleati” europei che il dollaro era “la nostra valuta e il vostro problema”. Il dollaro forte permette a Washington di evitare i problemi politici causati da un’inflazione incontrollata e costringe l’Europa e l’Asia orientale a subirne le conseguenze. Le nazioni industriali povere di risorse, come il Giappone e la Germania, sono costrette ad importare materie prime – di solito in dollari – e questo, con il crollo delle forniture di materie prime causato dalle sanzioni alla Russia, ha fatto lievitare i prezzi dei loro prodotti al punto da provocare massicce contrazioni in entrambe le economie.

In altre parole, il dollaro danneggia quasi tutte le parti interessate, tranne l’élite statunitense, prevalentemente ebraica. Negli ultimi anni, questa elite ha gettato la maschera, utilizzando il controllo della valuta di riserva mondiale e delle istituzioni finanziarie per sferrare attacchi geopolitici volti ad affamare l’Iran e la Russia fino al collasso.

Per gran parte dell’élite mondiale, gli asset americani (azioni, immobili, ecc.) sono attraenti per il loro alto tasso di redditività rapida. Questo ha tradizionalmente dato agli Stati Uniti un alto grado di influenza economica sui Paesi stranieri, ma la guerra in Ucraina ha fatto sì che molti Paesi riconsiderassero i loro investimenti. Anzi, si potrebbe dire che stanno cercando una via di fuga.

Nel 2022, gli Stati Uniti e i soggetti del G7 avevano confiscato unilateralmente 300 miliardi di dollari in beni russi detenuti nei loro territori su istruzione di Washington e New York. A ciò si era aggiunta l’espulsione di Mosca dallo SWIFT, controllato dagli Stati Uniti. L’obiettivo di questo sforzo era il sabotaggio economico: rendere impossibile alla Russia l’adempimento dei suoi obblighi finanziari e quindi “trasformare il rublo in carta straccia“. Frustrata dalla mancanza dei risultati desiderati, la vendicativa Segretaria del Tesoro americano, l’ebrea Janet Yellen, ha recentemente ventilato l’idea di dare all’Ucraina tutto il denaro rubato alla Russia.

Naturalmente, la maggior parte del mondo – la maggioranza che si è rifiutata di partecipare alle sanzioni contro la Russia – è stata turbata da questa arma della potenza economica statunitense. Le superpotenze energetiche e manifatturiere Russia, Cina e Iran hanno già ampiamente de-dollarizzato i loro scambi bilaterali, soprattutto per necessità, ma ciò che dovrebbe allarmare maggiormente i politici di Washington è che ora nazioni che sono parte integrante del successo del dollaro, come la Francia e l’Arabia Saudita, stanno iniziando a firmare accordi commerciali pagati attraverso swap valutari e yuan.

La minaccia più grave al dominio finanziario degli Stati Uniti proviene dai BRICS, che quest’anno hanno ufficialmente aggiunto cinque nuovi membri. Tre di questi nuovi partecipanti – Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti – sono potenze produttrici di petrolio. Sommati insieme, i membri dei BRICS controlleranno ora oltre il 30% del mercato energetico globale, superando gli Stati Uniti con il 21%. I BRICS consumano anche il 31% dell’energia mondiale (la dipendenza energetica dell’India è il motivo principale per cui si è rifiutata di sanzionare la Russia), il che, già di per sé, crea enormi incentivi per abbandonare il dollaro.

Anche l’Iraq, che produce un ulteriore 5% della fornitura mondiale di petrolio, è desideroso di entrare nei BRICS, ma questo sforzo è bloccato dall’occupazione militare statunitense del Paese. Nelle circostanze attuali, l’economia petrolifera irachena è interamente gestita dalla Federal Reserve di New York. Se l’Iraq e l’Iran collaboreranno per espellere l’esercito statunitense dal Paese, è improbabile che Baghdad rimarrà nella sfera d’influenza di Washington.

I Paesi BRICS hanno espresso interesse nella creazione di una nuova moneta con cui commerciare, sostenuta da un paniere di valute locali e dalle rispettive risorse e capacità produttive. Oggi, i Paesi del G7 contribuiscono solo al 30% circa dell’attività economica mondiale, se aggiustata in base alle PPA.

Tuttavia, tra i paesi BRICS esistono diverse barriere e differenze inconciliabili. Gli Stati Uniti possono fare ciò che vogliono nella loro parte dell’ordine sempre più multipolare grazie alla loro potente presa militare e finanziaria sulle economie europee, giapponesi, taiwanesi e coreane, mentre tra i BRICS nessun Paese è interessato o capace di questo tipo di egemonia. Si sta diffondendo la voce che alla conferenza dei BRICS, che si terrà quest’anno in Russia, verrà presentata una valuta ammazza-dollaro, ma questa notizia va presa con le molle.

In generale, una valuta BRICS non è necessaria e sarebbe sciocco dare per scontata la prevalenza del dollaro USA, indipendentemente da ciò che accadrà. Piuttosto che una moneta unica contrapposta, è più probabile che il mondo aumenti il commercio bilaterale attraverso le valute nazionali fino a quando il dollaro non verrà ucciso da una morte per mille tagli.

La procrastinata corsa dei responsabili politici dell’industria americani al reshoring e al nearshoring negli Stati Uniti è un indizio del fatto che Washington si sta preparando al peggio.

Bidenomics: perché il reshoring fallirà

La maggior parte dei problemi imperiali dell’America potrebbe essere risolta perseguendo una politica autarchica. Con la sua vasta popolazione, e le barriere naturali che la difendono dai rivali, una cosa del genere sarebbe possibile, quindi il problema è la volontà.

Ecco che entra in scena la Bidenomics, un insieme di disegni di legge del valore di 100 miliardi di dollari che hanno l’obiettivo di discostarsi dal “Washington consensus” neoliberista e di togliere le ragnatele dall’industria americana. Finora, questo progetto ha prodotto risultati miseri.

Prendiamo ad esempio il CHIPS and Science Act del 2022. Nell’interesse di sconfiggere a livello globale la Cina nei settori dell’IA e dei semiconduttori, il governo statunitense sta fornendo enormi sussidi e agevolazioni fiscali ad aziende come Intel, TSMC, Nvidia, ecc. affinché investano in ricerca e sviluppo, portino la produzione negli Stati Uniti e lascino la Cina nella polvere.

I limiti dell’economia capitalistica americana, incentrata sugli azionisti, stanno venendo alla luce. Nel caso di Nvidia, l’azienda ha avviato un massiccio piano di riacquisto di azioni per 25 miliardi di dollari, che ha indotto alcuni analisti a dubitare dell’impennata del valore delle azioni dell’azienda, che è falso e slegato dalla sua redditività. La legge CHIPS vieta alle aziende di rubare i sussidi forniti dai contribuenti attraverso questo tipo di attività speculativa, ma non ci sono vincoli impediscono di fare una cosa del genere, se l’azienda ha investito il minimo indispensabile. Ciò significa che [queste aziende] stanno giocando in borsa nell’interesse di un mercato auto-referente, piuttosto che fare uno sforzo in buona fede per investire nello sviluppo e nella possibilità di ottenere profitti a lungo termine.

Nvidia ha persino speso denaro per cercare di aggirare le sanzioni degli Stati Uniti sui semiconduttori prodotti in Cina (il principale consumatore mondiale di tali dispositivi), un vero e proprio teatro dell’assurdo, con sovvenzioni pubbliche utilizzate per trovare soluzioni che vanno a vantaggio dei nemici del governo americano.

Intel è un altro colpevole in materia di riacquisti di azioni. Dal 2022 al 2023, l’azienda ha aumentato il suo riacquisto di azioni del 91%, pari a 5,5 miliardi di dollari. Parte di questo ciclo di avidità e stagnazione è guidato da avventurieri che cercano aggressivamente di vendere allo scoperto le azioni Intel, che si sono dimostrate piuttosto volatili. Lo Stato cinese ha neutralizzato gli effetti negativi sull’economia delle vendite allo scoperto semplicemente vietandole, ma una mossa così assertiva da parte dello Stato americano richiederebbe un potere di controllo sulla finanza che manca alla nostra plutocrazia.

Per quanto riguarda l’impianto da 40 miliardi di dollari della Taiwan Semiconductor Manufacturing Company a Phoenix, i festeggiamenti sono arrivati prima dei risultati. L’intero progetto ha costantemente subito notevoli ritardi. TSMC ha recentemente annunciato che non sarà in grado di avviare la produzione di semiconduttori prima del 2025 a causa della mancanza di manodopera qualificata.

Parte della sfida economica che l’America deve affrontare è la relativa mancanza di laureati in materie scientifiche. Secondo il libro Facing Reality di Charles Murray, gli americani bianchi hanno un quoziente intellettivo medio di 103, mentre i mesoamericani si attestano a 94 e i neri a 91. Sulla base di questi dati, possiamo concludere che i drastici cambiamenti nella composizione razziale degli Stati Uniti negli ultimi 40 anni hanno sostanzialmente abbassato il QI nazionale.

Ma il QI non deve essere necessariamente un destino. Il quoziente intellettivo dell’Iran è inferiore a quello degli Stati Uniti (98), ma lo Stato iraniano ha investito molto nell’identificazione e nell’educazione di studenti dotati per sopravvivere agli incessanti attacchi alla sua sovranità e agli omicidi dei suoi scienziati da parte dell’ordine mondiale sionista. Il risultato di questa politica prudente si riflette nell’inaspettata e improvvisa ascesa dell’Iran come produttore di armi sofisticate, compresi i missili ipersonici. Attualmente, il 41% degli studenti cinesi si laurea in materie STEM, il 37% in Russia e il 33% in Iran, mentre gli Stati Uniti sono in ritardo con il 20%.

Bisogna anche considerare il disprezzo che l’élite americana, fortemente ebraica, nutre nei confronti degli americani bianchi. Un esempio è la bizzarra disposizione contenuta nella legge CHIPS, che impone ai beneficiari di boicottare i fornitori e i lavoratori di origine europea. Nell’istruzione superiore, che negli Stati Uniti è un’impresa costosa e a scopo di lucro, praticamente tutte le borse di studio in ingegneria richiedono che i candidati siano donne o appartenenti a minoranze.

La decisione dell’anno scorso della Corte Suprema degli Stati Uniti di invertire l’Affirmative Action nell’istruzione superiore sembra essere stata concepita per cercare di reclutare i bianchi per combattere Russia, Iran e Cina. Non si sa fino a che punto ciò avverrà nella pratica, poiché la maggior parte delle università americane d’élite sembra ideologicamente impegnata ad escludere i bianchi non ebrei e ci sono poche risorse legali a cui gli studenti bianchi possono far ricorso.

Problemi identici si riscontrano nell’area manifatturiera, dove la generosità dello Stato porta ad un’iniziale espansione dell’attività industriale, che poi si spegne subito dopo. Sembra che, indipendentemente dalla quantità di denaro che il governo spende, non esista alcun meccanismo per costringere i capitalisti ad investire nell’aumento della produzione o nella crescita dei mercati al di fuori di settori onerosi (come la tecnologia e la finanza).

Questa è una conseguenza della corruzione intrinseca che affligge ogni sistema capitalistico liberale.

Per quanto riguarda la Cina e la Russia, le economie sono pianificate centralmente in base all’autosufficienza, in misura diversa. Entrambi i Paesi sono affetti da corruzione, ma la combattono in modo aggressivo, utilizzando anche la pena di morte, che, in Cina, viene regolarmente comminata a oligarchi e funzionari statali colpevoli.

Gli Stati Uniti divergono radicalmente. In America è legale per i funzionari ricevere tangenti dal settore finanziario (attraverso “lobbying”, PAC e altre pratiche vietate negli Stati concorrenti) e questo riduce l’indipendenza dello Stato e rende difficile per i rappresentanti politici disciplinare il capitale.

È impossibile ipotizzare quante frodi finanziarie e contabili si stiano verificando nell’economia statunitense in questo momento, ma l’attuale scarsità di procedimenti penali contro i colletti bianchi dovrebbe essere interpretata come una strizzata d’occhio a Wall Street.

Per quanto tempo ancora il mondo sopporterà tutto questo è la domanda da porsi. Una sola folata di vento potrebbe far crollare l’intero castello di carte dell’economia e lanciare l’America in acque completamente sconosciute e pericolose. Una classe dirigente razionale avrebbe accettato l’inversione di tendenza e avrebbe iniziato a ricucire i rapporti con Cina, Iran e Russia.

Invece, l’oligarchia di Washington-New York-California sta continuando a negare i fatti e intensifica le sue azioni minacciose sia contro i popoli del mondo che contro quelli di noi che hanno la sfortuna di essere sotto di loro.

Joseph Jordan

Fonte: littoria.substack.com
Link: https://littoria.substack.com/p/the-collapse-of-the-american-empire-eb8
05.03.2024
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org

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