CELSO AMORIM, IL MINISTRO SCOMODO CON I PIEDI PER TERRA E… NELLE SCARPE
DI AZUL
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Celso Amorim è un uomo che già
all’apparenza ispira fiducia: uno sguardo simpatico, barba e capelli
ben curati, un tono di voce sempre misurato, un sorriso cortese e una
peculiare nonchalance, che ostenta opportunamente in tutte le
occasioni in cui si rende necessario sdrammatizzare qualche intricata
situazione politica, alternata però a volte, da concise e inequivocabili
battute taglienti, oltre a una innata capacità di riconoscere con rapidità
i cambiamenti dello scenario internazionale e di adattarsi ad essi con
competenza e coraggio.
Laureato all’Accademia Diplomatica
di Vienna nel 1966 e allievo del laburista Ralph Milliband a Londra,
dopo una esperienza nel mondo del cinema come presidente della Embrafilme
tra il 1979 e il 1982 e una come professore universitario, iniziò una
lunga carriera diplomatica che lo portò a ricoprire importanti incarichi,
come Ministro degli Esteri nel governo Itamar Franco (1993-95), incarichi
all’ONU, come ambasciatore brasiliano a Londra (2001) e ancora Ministro
degli Esteri nel governo Lula (2003-2010) e oggi come Ministro della
Difesa nel governo Dilma Roussef.
Sin dagli inizi, la carriera diplomatica
di Amorim venne seguita dagli USA con molta attenzione. Agli occhi del
servizio diplomatico degli Stati Uniti, specialmente nell’era Bush,
la posizione indipendente del Ministero degli Esteri brasiliano, capitanato
appunto da Celso Amorim, sembrava una costante provocazione. Ciò era
ben noto e veniva confermato da varie “rivelazioni” di Wikileaks,
sulle quali era però lo stesso Celso Amorim a glissare, dimostrandosi
ben conscio del fatto che l’importanza delle rivelazioni del sito di
Assange fosse l’equivalente della scoperta dell’acqua calda. È così
che, con molta calma, l’ex Ministro degli Esteri commentava qualche
tempo fa la pubblicazione di alcuni cablogrammi “segreti” che mostravano
i tentativi americani di sabotarne l’opera di politica estera ricorrendo
anche alle ottime relazioni con altri due, allora, ministri (Tarso Genro
e Nelson Jobim): “Devo dire che non mi sento tanto emozionato
come la maggior parte di voialtri per le migliaia di documenti diplomatici
degli USA rivelati dal sito,” disse Amorim, “la maggior
parte di quelli che ho letto li conoscevo già, oppure sono poco rilevanti.”
E ancora: “Non discuterò le percezioni di agenti diplomatici
americani. Sinceramente, il tono che un diplomatico americano utilizza
per fare le sue considerazioni è qualcosa che non mi interessa.”
Oppure: “Voi credete in tutto quello che si dice nei telegrammi?“
Celso Amorim come Ministro degli Esteri
formava nel governo Lula un triunvirato di politica estera particolarmente
inviso agli Stati Uniti per “le sue inclinazioni anti-americane”,
costituite da un ministro (Amorim) “nazionalista”, un segretario
generale “anti-americano virulento” (Samuel Pinheiro Guimarães)
e un “accademico di sinistra” (Marco Aurélio Garcia), consigliere
di politica estera del presidente Lula.
Ma per comprendere meglio la politica
estera del Brasile e i suoi rapporti con gli Stati Uniti oggi, dobbiamo
perlomeno risalire agli anni del governo di Fernando Henrique Cardoso
(1995-2003).
La politica estera di FHC era quella
del “allineamento automatico” con gli USA, contraria a qualsiasi
postura sovrana di fronte all’impero.
Lo storico Luiz Alberto Moniz Bandeira,
considerato il maggior esperto mondiale delle relazioni USA – America
Latina, comprova, con abbondante documentazione, come la politica estera
brasiliana arretrò negli otto anni di governo di FHC. In questo periodo
“nefasto”, il paese non aderì al trattato neocoloniale degli Stati
Uniti, l’Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA), soltanto in
virtù della reazione contraria della società. Questa resistenza evitò
anche che Alcântara, nello stato del Maranhão, diventasse una base
militare yankee.
Tra gli altri casi vessatori della
politica di FHC, Moniz Bandeira ricorda il sommario esonero dell’ambasciatore
Samuel Pinheiro Guimarães dell’Istituto di ricerca delle Relazioni
Internazionali (IPRI), per questi aver allertato il governo sui gravi
rischi dell’ALCA. Cita l’attitudine codarda dell’ex ministro Celso Lafer
di fronte alle pressioni USA per allontanare l’ambasciatore brasiliano
José Maurício Bustani dalla direzione dell’Organizzazione per la Proibizione
di Armi Chimiche, legata all’ONU, per avere questi tentato evitare la
guerra genocida in Iraq. Ricorda ancora i discorsi dell’ex ministro
di FHC, proponendo la partecipazione del Brasile alla guerra in Iraq,
con base nel draconiano Trattato Interamericano di Assistenza Reciproca
(TIAR).
Sempre durante il governo di FHC, un
altro episodio emblematico fece sì che si raggiungesse l’apice
di questa postura servile. Scrive Moniz Bandeira: “Il 31 gennaio
del 2002, Celso Lafer, ministro degli Esteri del Brasile, si sottomise
e accettò di togliersi le scarpe e di rimanere scalzo, al fine di essere
perquisito dal personale della sicurezza dell’aeroporto, all’arrivo
in Miami. Questa vergogna, egli accettò
nuovamente di subire prima di prendere l’aereo per Washington, e ancora
una volta mancò di rispetto a se stesso e disonorò
non solo la carica di ministro, come anche lo stesso governo che serviva.
Infine, all’arrivo a New York, si tolse ancora le scarpe, sottomettendosi,
per la terza volta, allo stesso trattamento umiliante.”
Dopo questa lunga fase di sottomissione
all’impero, le relazioni Brasile-Stati Uniti tornarono a essere tese.
Sotto il governo Lula, Moniz Bandeira registra vari discorsi idrofobi
della destra statunitense e non esclude manovre astute e violente per
sabotare l’autonomia nazionale brasiliana. Sembra confermare questa
fase critica lo stesso Celso Amorim, nominato Ministro degli Esteri
da Lula, che secondo il giornale O Globo, avrebbe subito avvisato
l’ambasciata USA, che per nessuna ragione al mondo avrebbe accettato
di togliersi le scarpe e sottomettersi a una perquisizione in qualunque
aeroporto americano. Il dilemma del Brasile allora come oggi, secondo
Moniz Bandeira, era questo: sottomissione o sovranità nazionale?
Nel giugno del 2003, Amorim contribuì
a creare il Forum di Dialogo India-Brasile-Africa del Sud (Ibas).
Intorno a questo asse, con l’appoggio della Cina, si articolò
il G-20 che bloccò le pretese americane ed europee nei negoziati
dell’OMC.
Poco dopo, smantellata l’ALCA, progetto
degli USA che sembrava solido e inevitabile, si seguì con l’articolazione
dell’Unione Sud Americana (Unasul), la formalizzazione del gruppo BRICS
e l’azione diplomatica indipendente del Brasile in Honduras e in Medio
Oriente. Nello stesso periodo il presidente della Banca Mondiale, Roberto
Zoellick, arrivò a dire che se il Brasile non fosse entrato nell’ALCA,
avrebbe dovuto “esportare in Antartide”.
Nel novembre del 2004, l’ambasciatore
americano John Danilovich si sfogava con queste parole: “Mantenere
relazioni politico-militari col Brasile richiede un’attenzione costante
e, forse, uno sforzo superiore a quello richiesto da una qualsiasi altra
relazione bilaterale nell’emisfero.”
Fu egli stesso che, in una riunione
nel marzo del 2005, cercò di convincere Amorim della minaccia
“sempre maggiore” che il Venezuela rappresentava nella regione.
La risposta “chiara” e “secca” del ministro degli esteri deluse
però l’americano: “Noi non vediamo Chavez come una minaccia. Non
vogliamo fare nulla che rovini la nostra relazione con lui.” E
tagliò netto il discorso. In un’altra occasione Amorim arrivò a dichiarare:
“Gli Stati Uniti credono di risolvere tutto con un’attitudine da
cowboy.”
Fra il 2006 e il 2007, Amorim riuscì
a risolvere positivamente le tensioni che si erano create con Bolivia
e Ecuador per delle controversie che riguardavano le attività svolte
in quei paesi da imprese brasiliane (in modo particolare la Petrobras).
Il fine ultimo e prioritario fu quello di salvaguardare gli ottimi rapporti
con i due paesi, arrivando anche a sacrificare alcuni interessi immediatamente
commerciali delle imprese coinvolte.
Nel 2008 il Ministero degli Esteri
si oppose al trasferimento di trenta agenti della DEA, l’agenzia americana
contro la droga, che erano stati espulsi dal presidente boliviano Evo
Morales e che avrebbero dovuto stabilirsi alle frontiere brasiliane
per azioni di “controllo”. Evo Morales dichiarò: “La DEA
è uno strumento che gli Stati Uniti usano per ricattare i Paesi che
non rispettano capitalismo e imperialismo.” “La lotta
alla droga e al traffico internazionale di stupefacenti
è guidata solo da interessi geopolitici.”
Nel 2009, durante una conferenza stampa,
Amorim palesò tutte le preoccupazioni brasiliane riguardo possibili
ingerenze estere e minacce alla sovranità dello stato: “Il
Brasile ha un area (l’Amazzonia) che
è spesso oggetto di speculazioni straniere; quando io sono entrato
in questo ministero, ho incontrato progetti dell’Hudson Institute degli
USA per allagare la foresta al fine di facilitare l’estrazione di minerali
[…] il Brasile deve essere capace di difendere le proprie ricchezze,
come le importantissime scoperte di petrolio dell’area del Presal“;
riferendosi poi alla presenza di basi militari americane in Colombia:
“Avere una presenza militare di una superpotenza prossima ai propri
confini è un qualcosa che preoccupa molto, perché
non si sa come questa forza militare potrebbe essere usata in un dato
momento […] non esistono garanzie di diritto internazionali al riguardo,
garanzie che non possono essere sostituite dalle dichiarazioni tranquillizzanti
della Colombia che oltre a non avere alcuna valenza, sono smentite dal
White Paper della forza aerea americana sul reale utilizzo delle basi
americane in Colombia. Il WP prevede, oltre al fine della guerra al
narcotraffico (che noi volenti o nolenti, dobbiamo accettare), anche
la finalità del sostegno militare ad operazioni umanitarie senza specificare
in modo chiaro dove, potendo finire quindi per attrarre dentro una regione
un problema di fuori.”
Nel 2010 Moniz Bandeira confermerà
queste preoccupazioni di Amorim parlando del candidato filoamericano
alla presidenza Serra (poi sconfitto da Dilma Roussef): “Molto
probabilmente José Serra venderebbe anche i territori dell’Amazzonia,
dove agiscono 100 mila ONG, molte delle quali, con interessi occulti,
esercitano attività illegali, come il traffico di droga, di armi e
persone, riciclaggio di denaro e persino spionaggio, sotto la
copertura della difesa dei diritti degli indios.”
Da ricordare, sempre nel 2010, la brillante
operazione diplomatica capitanata da Amorim col supporto della Turchia,
che raggiunse con l’Iran un importante accordo in tema di utilizzo di
energia nucleare. Accordo che recepiva, fra l’altro alcuni dei punti
fermi che lo stesso Obama, in una lettera a Lula, aveva indicato come
essenziali. Il risultato diplomatico fu poi però vanificato dagli USA,
che votarono comunque le sanzioni all’Iran.
Lo stesso anno, superato al secondo
turno José Serra, Dilma Roussef divenne la prima presidente donna del
Brasile. Dilma nominò ministro degli esteri il vice di Amorim, Antonio
Patriota. Molto si è discusso sulla mancata riconferma di Celso Amorim.
Per alcuni sarebbe dovuta alla posizione di eccessiva tolleranza mostrata
da Amorim sul caso della donna iraniana condannata al linciaggio, sul
quale invece Dilma aveva dimostrato una certa sensibilità. Per altri,
il cambio sarebbe dovuto a un tentativo di riavvicinamento diplomatico
con gli USA, culminato in seguito con l’incontro tra i due presidenti,
per il quale riavvicinamento la nomina di un ministro degli esteri ritenuto
più moderato come Patriota era considerata opportuna.
La stessa Dilma, comunque, pochi mesi
dopo, riequilibrò le posizioni, dimettendo il ministro della difesa
filoamericano Nelson Jobim e sostituendolo con Celso Amorim.
Il resto è storia dei nostri
giorni. Quello che sembra chiaro, comunque, è lo sforzo del governo
brasiliano per evitare che la politica estera brasiliana, vista anche
la rivendicazione ad un seggio permanente nel consiglio di sicurezza
dell’ONU, venga tacciata di antiamericanismo. Il limite di questo sforzo
è tuttavia ben definito dalle parole di Celso Amorim: ”Gli Stati
Uniti non devono confondere l’antiamericanismo con la necessità
inderogabile di difendere la nostra sovranità
nazionale.”