DI IVAN DELLA ROY E SOPHIE CHAPELLE
BASTA!
Possiedono compagnie petrolifere, gasdotti, miniere, acciaierie e anche i media. Influenzano governi e istituzioni per impedire qualsiasi regolamentazione che sia troppo stringente. E sono tra le persone più ricche al mondo. Un rapporto di un centro di ricerca degli Stati Uniti li considera, a causa del loro potere e dell’inquinamento generato dalle loro attività, la più grande minaccia che pesa sull’ambiente e sul clima. Chi sono questi multimiliardari che costruiscono la loro fortuna ipotecando l’avvenire del pianeta?
Sono cinquanta. Cinquanta miliardari su cui viene puntato il dito per la loro responsabilità nella degradazione del clima. Traggono le loro ricchezze da attività molto inquinanti e non esitano a spendere milioni per influenzare i governi e la pubblica opinione. Le loro ricchezze cumulate assommano a 613 miliardi di euro. In 50 hanno un peso finanziario superiore ai i Fondi europei di stabilità che sono stati creati per difendere l’eurozona – 17 paesi – contro la speculazione. Questo per dire la forza che possiedono. È questa aberrante concentrazione di potere che viene denunciata da rapporto del Forum Internazionale della Globalizzazione (IFG), un istituto indipendente insediato a San Francisco che raggruppa economisti e ricercatori tra cui l’indiana Vandana Shiva o il canadese Tony Clarke, noti per le loro battaglie contro gli abusi delle multinazionali.
Il loro voluminoso rapporto, Outing The Oligarchy [1], ha l’obiettivo “di attirare l’attenzione del pubblico sugli individui ultraricchi che traggono sempre più profitto – e che sono più responsabili – dell’aggravamento della crisi climatica“. Per l’inquinamento da loro provocato e dalle pressioni che esercitano per difendere i combustibili fossili, questo gruppo di miliardari costituisce, secondo l’IFG, “la più importante minaccia che pesa sul nostro clima“. L’istituto ha deciso di fare i nomi di coloro che formano questa minaccia. Siccome è il 99% a subire le conseguenze del loro arricchimento smisurato – per riprendere la formula del movimento Occupy Wall Street – deve sapere chi stiamo parlando. Una sorta di “outing” forzato.
L’uomo che valeva 63,3 miliardi
Questi cinquanta miliardari sono statunitensi, russi, indiani o messicani. Ma anche brasiliani, cinesi, di Hong Kong o israeliani. Alcuni sono molto conosciuti in Europa: Lakshmi Mittal, Presidente del gigante della metallurgia ArcelorMittal, Rupert Murdoch, il magnate dei media anglosassoni, Silvio Berlusconi, l’ex Primo ministro italiano con 6 miliardi di dollari, Roman Abramovich, proprietario del club calcistico del Chelsea. Altri sono anonimi per chi non è un lettore assiduo della classifica delle grandi ricchezze pubblicate dalla
rivista Forbes. Da anonimi riescono a non farsi notare. Possiedono compagnie petrolifere, miniere, media, un esercito di guardie del corpo.
Prendete il Messicano Carlos Slim,
l’uomo più ricco del mondo (63,3 miliardi di dollari) che ha approfittato pienamente della privatizzazione della compagnia pubblica Telmex. Detiene 222 imprese in tutto il mondo – nelle telecomunicazioni, nel settore bancario, nell’industria mineraria, nell’energia, nella ristorazione
o nel campo sanitario – che impiegano 250.000 persone e generano un fatturato annuo di 386 miliardi di dollari. Tanto che è “quasi impossibile trascorrere una giornata in Messico senza contribuire ad arricchire Carlos Slim, sia che una persona stia telefonando, mangiando
in uno dei suoi ristoranti o depositando del denaro in banca“. È come se ogni Messicano gli versasse 1,5 dollari al giorno.
“Una gran parte dalla ricchezza
di Carlos Slim deriva dalle sue holding industriali devastanti in campo ambientale“, denuncia il rapporto. Trasferimento forzato delle popolazioni per costruire le dighe, contaminazione di suoli con l’arsenico,
distruzione di villaggi, pessime condizioni lavorative. Sembra che le
industrie di Carlos Slim non indietreggino davanti a niente. “Le sue collaborazioni, come le sue attività in campo sanitario col governo spagnolo e l’influente Bill Gates, gli permettono di costruirsi e di curare un’immagine positiva dietro la quale può dissimulare l’evidenza dei danni ambienti e umani dei suoi progetti minerari o petroliferi“, denunciano i ricercatori dell’IFG.
Le nuove oligarchie emergenti
Perché questi cinquanta e non Bill Gates (secondo patrimonio al mondo) o Bernard Arnault (il più ricco francese, quarto mondiale)? I miliardari che corrispondono a tre criteri hanno attirato l’attenzione degli analisti: la ricchezza complessiva (misurata dalla rivista Forbes), i danni ecologici e le emissioni di carbonio generati dalle loro attività economiche [2] e il loro sostegno, palese o nascosto, ai politici che favoriscono le attività con forti emissioni di CO2, come l’industria petrolifera. Risultato: i miliardari dei paesi emergenti sono quelli più rappresentati. Si contano solamente due europei, Russia a parte – Silvio Berlusconi e il cipriota (ex-norvegese) John Fredriksen, un armatore che ha costruito la sua fortuna grazie alla sua flotta di petroliere – tra cui ci sono 13 russi, 9 indiani, 3 messicani e 2 brasiliani.
I grandi ricchi europei sarebbero più virtuosi dei loro omologhi dei paesi emergenti? Non necessariamente.
La deindustrializzazione e la finanziarizzazione delle economie del Nord le hanno resi meno inquinanti. E i nuovi megaricchi dei vecchi poteri industriali costruiscono oggi la loro fortuna sulla speculazione finanziaria o le nuove tecnologie dell’informazione (Internet). Ciò non rende il loro accumulo di ricchezza meno osceno, solo un po’ meno devastatore. Gli autori del rapporto non esonerano quindi le vecchie dinastie industriali europee dalle loro responsabilità in materia ambientale. Ma, a parte alcuni magnati petroliferi statunitensi, non fanno più parte di questa nuova “oligarchia dei combustibili fossili” che tenta di dettare legge nel campo della produzione energetica, dell’estrazione mineraria e dell’inquinamento. Alcuni miliardari della vecchia scuola, come Warren Buffet, adottano anche delle posizioni piuttosto progressiste se comparate al cinismo ambientale che regna in seno alla loro casta.
Da Goldman Sachs ad ArcelorMittal
Il prototipo di questi nuovi miliardari
senza scrupoli: Lakshmi Mittal. Malgrado una fortuna stimata in 19,2 miliardi di dollari, il padrone di Arcelor continua a svuotare di operai gli altiforni francesi ed europei. Non per la preoccupazione di inquinare meno, ma per ” razionalizzare” i costi e approfittare dei paesi dove la regolamentazione pubblica è debole o inesistente. La sua rete di influenza è tentacolare, e arriva fuori dal campo siderurgico: a Wall Street, dove siede nel consiglio di amministrazione di Goldman
Sachs, una delle banche più potenti del mondo; in Europa (consiglio di amministrazione di EADS), passando dall’Africa meridionale, il Kazakistan o l’Ucraina.
Come si esercitano concretamente le influenze e la lobby di questi cinquanta mega-inquinatori? Dagli Stati
Uniti alla conferenza sul clima di Durban, i fratelli Koch sono diventati degli esperti in materia. Con una fortuna stimata in 50 miliardi di dollari, David e Charles Koch sono alla testa di un vasto conglomerato di imprese che operano principalmente nel settore petrolchimico. I loro dollari si accumulano per milioni grazie alle loro partecipazioni negli impianti che trasportano il petrolio, il gas, i prodotti petroliferi raffinati o anche i concimi chimici. La maggior parte delle attività di Koch Industries, la cui sede è in Kansas, sono ignorate del grande pubblico, eccetto alcuni prodotti come i cotoni DemakUP® o ancora la carta igienica Lotus®. Charles e David Koch hanno alle spalle una lunga storia di impegno politico conservatore e libertariano. Suo padre, Fred Koch, fu uno dei membri fondatori del John Birch Society che sospettava il presidente Eisenhower di essere un agente comunista. Nel 1980 i due fratelli hanno finanziato la campagna del candidato Ed Clark che si presentava alla destra di Reagan. Il loro programma suggeriva l’abolizione dell’FBI, della Sicurezza Sociale o del controllo sulle armi.
I milioni per gli scettici del clima
Considerata come uno dei “primi dieci inquinatori dell’atmosfera negli Stati Uniti” dall’università del Massachusetts, Koch Industries è stata denunciata sotto l’amministrazione Clinton per più di 300 sversamenti in mare in sei Stati federati, prima di accordarsi per una multa di 30 milioni di dollari nel gennaio del 2000. I fratelli Koch riservano un sostegno incondizionato alla cerchia degli scettici del clima che negano il cambiamento climatico. Tra il 2005 e il 2008 hanno speso più denaro della compagnia petrolifera statunitense Exxon Mobil – 18,4 milioni di euro – per finanziare alcune organizzazioni che, secondo Greenpeace, “diffondono notizie errate e false a proposito della scienza del clima e delle politiche in materia energetica“.
In occasione della riunione di Durban, Greenpeace ha inserito i fratelli Koch tra i primi dodici dirigenti di imprese inquinanti che operano in sintonia per minare un accordo internazionale sul clima. Concedono enormi sovvenzioni alle associazioni industriali come l’American Petroleum Institute, un organismo che rappresenta le compagnie petrolifere americane. Anche se il loro ruolo nei negoziati del clima è importante, i fratelli Koch vogliono rimanere nell’ombra. Charles Koch ha dichiarato che bisognerebbe “passargli sul corpo” prima di vedere la sua società quotata in Borsa. Senza una quotazione, la società non ha l’obbligo di pubblicare le sovvenzioni accordate alle diverse organizzazioni. Una situazione ideale per praticare nell’ombra un lobbying intenso. L’azienda ha versato così più di un milione di dollari all’Heritage Foundation, un “pilastro della disinformazione sui problematici climatici e ambientali“, secondo Greenpeace.
I fratelli Koch avrebbero largamente partecipato all’amplificazione del “Climategate” nel
novembre del 2009. Questo scandalo era stato scatenato dalla pirateria e dalla diffusione di una parte della corrispondenza dei climatologi dell’università britannica di East Anglia. I Koch hanno finanziato alcuni organismi, come il think tank della destra radicale Cato Institute – di cui sono cofondatori – per montare questa iniziativa,
mettendo in dubbio l’esistenza del riscaldamento. Altro fatto essenziale: in risposta al documentario del vicepresidente Al Gore sul cambiamento climatico, i due miliardari hanno versato 360.000 dollari al Pacific
Research Institute for Public Policy per il film An Inconvenient Truth… or Convenient Fiction, un libello assolutamente climatoscettico.
Il petrolio nel Tea Party
Koch Industries ha anche iniziato un
anno fa una campagna referendaria che vuole impedire l’entrata in vigore della legge californiana per la lotta al il cambiamento climatico (la
“AB32”). La loro posizione: lo sviluppo di energie proprie in California costerebbe molti fondi allo stato. Insieme ad altri gruppi petroliferi, i fratelli Koch ci hanno investito un milione di dollari. La loro proposta è stata alla fine rigettata e la legge impone oggi alla California una riduzione del 25% delle emissioni di gas ad effetto serra di qui al 2020 (per tornare al livello del 1990). Malgrado questa sconfitta, il comitato di azione politica di Koch Industries, KochPac, ha continuato a praticare intense pressioni a Washington per ostacolare ogni legge che limitasse le emissioni di gas serra. Secondo il rapporto di Greenpeace, il comitato ha speso più di 2,6 milioni di dollari nel 2009-2010 per condizionare il voto sulla legge Dodd-Frank che ha l’obbiettivo di una maggiore regolazione finanziaria.
I fratelli Koch finanziano anche il
Tea Party dei conservatori e partecipano al gruppo Americans for Prosperity (AFP). Creato nel 2004, l’AFP è all’origine di numerose
manifestazioni contro l’amministrazione Obama, in particolare contro il suo progetto di tassa sul carbonio. Siccome la Corte Suprema ha tolto nel gennaio 2010 i limiti al finanziamento delle campagne elettorali nazionali da parte delle imprese, i Koch sembrano pronti a investire
ancora più denaro nel Tea Party in vista delle elezioni del 2012. Il loro lobbying è così tentacolare che sono soprannominati
“Kochtopus”, un gioco di parole che unisce il loro cognome a quello della piovra (octopus in inglese).
Il 99% sacrificato dall’1%?
Per restringere il potere di queste
nuove plutocrazie e di queste ricchezze smisurate, il rapporto dell’IFG
raccomanda una serie di misure fiscali per assicurare una vera distribuzione della ricchezza: indicizzare gli alti stipendi a quelli più bassi,
aumentare l’imposizione sugli alti redditi o tassare le transazioni finanziarie. Sono quindi necessarie nuove leggi per impedire queste enormi concentrazioni societarie e per evidenziare i danni ambientali
che provocano.
C’è un’urgenza: “Un aumento di 4°C della temperatura mondiale […] è una condanna a morte per l’Africa, per i piccoli Stati insulari, per i poveri e le persone vulnerabili
di tutto il pianeta, avverte Nnimmo Bassey, presidente degli Amici Internazionali della Terra a Durban: “Questa riunione ha amplificato l’apartheid climatico. L’1% più ricco del pianeta ha deciso che era accettabile sacrificare il 99%“. Ciò significa che gli Stati, i governi e i cittadini devono riprendere in mano la situazione. Nel frattempo, sono sempre più sotto pressione di quei “mercati finanziari” di cui questi cinquanta multimiliardari sono attori imprescindibili.
Note:
[1] Outing The Oligarchy, billionaires who benefit from today’s climate crisis, International Forum on Globalization.
[2] Grazie principalmente agli indicatori di
sviluppo durevole come il Dow Jones Sustainability Index o il CSR Hub Rating che misurano la responsabilità sociale delle imprese.
Fonte: Ces milliardaires qui spéculent sur l’avenir de la planète
13.12.2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE