DI GREGORY MAUZÉ
Michelcollon.info
Sotto la copertura della
crisi, un’offensiva senza precedenti contro le esperienze sociali minaccia
i cittadini europei. Per ogni risposta, la stampa generalista sembra
optare per un tono compiacente e fatalistico. Una linea di condotta
che solleva importanti domande sul ruolo che deve rivestire l’informazione
nella società.
Questi ultimi decenni sono stati quelli
della scomparsa progressiva della stampa di opinione, a beneficio di
informazioni più consensuali destinate a toccare un maggior numero
di persone. Spesso si attribuisce questa tendenza alla fine delle ideologie
e al trionfo di un consenso intorno ai valori della democrazia liberale.
Nessuno sembra preoccuparsene:se la stampa ritiene di dover essere il
riflesso dell’opinione pubblica, l’impoverimento della diversità dei
punti di vista nei media non manifesta l’erosione del pluralismo
sul quale si basa il nostro sistema politico?Questa domanda è di una bruciante
attualità. E la copertura mediatica della crisi nella zona Euro ce
ne offre un esempio eloquente. La maggioranza delle redazioni sembra
navigare a gonfie vele nella direzione delle raccomandazioni antisociali
delle istanze europee e dei governi nazionali, assumendo le posizioni
degli attori economici dominanti. Questo scenario si rivelerebbe in
situazioni normali in tutta la sua banalità [1] se non si verificasse in un periodo determinante,
quando potrebbe essere superata una soglia critica di separazione tra
i popoli e le sue élite.
Inquietanti unanimità
L’annuncio di un referendum in Grecia,
rara opportunità per una popolazione colpita dai piani di austerità
per potersi esprimere, ha rivelato l’ampiezza del malessere. E la difficoltà
per la gran parte dei quotidiani nazionali di analizzare seriamente
le strategie che si allontanerebbero dalle ricette neoliberiste. Anche
se probabilmente tutto si è basato solamente su un calcolo politico
del primo ministro Papandreou, questo annuncio di una consultazione
popolare ha avuto comunque il merito di rimettere al centro i cittadini,
fino a quel momento emarginati dal centro dell’azione politica. Ma è
stata presentata dalla schiacciante maggioranza delle redazioni con
un taglio ben differente: “pericoloso tentativo di poker politico”,
“minaccia per l’Europa e la
Borsa”, “panico per I mercati” [2]. Un’unanimità
tanto più inquietante quanto sembra ricalcata sulla reazione dei decisionisti
politici ed economici, ulcerati all’idea che una strategia elaborata
in alto sia “prendere in ostaggio” per un fattore
tanto triviale che il rinnegamento del popolo.
Il metodo è spesso lo stesso:
dopo essere sparsi si sulla legittimità di principio che ha il popolo
greco a pronunciarsi sull’avvenire del suo paese, si giudica, come un
giornalista del quotidiano belga La Sera, ” inammissibile
che la pratica della democrazia possa rompere la macchina europea
tutta intera” [3]. Il piano proposto non rispondendo ad una
scelta politica ma a ” semplici considerazioni economiche”
[4], inutile di rievocare altre piste che queste raccomandate per
le istituzioni europee ed il FMI. Riflettere alle piste di finanziamento
che risparmierebbero più sguarniti, prime vittime delle economie imposte
da questi piani, (per esempio aumentando le ricette vicino alla chiesa,
primo proprietario terriero del paese, o dagli armatori navali, tutti
due attualmente esonerati di tasse, o ancora tagliando nel bilancio
dell’esercito – il 4% del PIL,
o proporzionalmente il secondo
al mondo – di cui i primi fornitori sono peraltro delle imprese che
appartengono ai paesi che hanno imposto il contenuto delle diverse cure
di austerità [5]) è dunque
fuori proposito.
La reazione della stampa all’arrivo
di personalità proveniente dal mondo degli affari alla testa del governo
greco, poi di quello italiano, parla da sola. Certo, in molti hanno
evidenziato rialzato i legami che uniscono Papademos e Monti a Goldman Sachs – un’associazione peraltro
difficile da eludere – e manifestato alcune inquietudini sulle derive
che può generare questa sostituzione della politica con il mercato.
Ma si è cercato solitamente di sottolineare come un male necessario
“questa sospensione della democrazia”,
vista l’incapacità degli eletti a prendere le “decisioni necessarie,
nell’interesse generale” [6]. Il fatto che la popolazione greca
e quella italiana rifiutino con decisione le cure di austerità applicate
da questi “tecnocrati indipendenti” non sembrano
disturbare oltre misura: dopotutto, come ha evidenziato un editorialista
di Le Monde, “un paese che ha perso la sovranità di bilancio
non ha perso la sua libera scelta?”
“Propagandisti del sistema”
Del resto, quando si tratta di spiegare
le ragioni profonde della crisi, la stampa riserva particolare attenzione
alle posizioni degli economisti ortodossi. Come riportato da Bertrand
Rothé del settimanale Marianne, la maggior parte delle analisi
proposte dai quotidiani di riferimento a proposito della crisi finanziaria
fa spesso appello agli stessi uomini di finanza: “In agosto
dieci articoli di Le Monde hanno parlato delle cause del problema nelle
pagine di analisi. In questi dieci articoli, sedici provengono da individui
legati alle istituzioni finanziarie e sei da individui non legati direttamente
alla finanza” [7]. Sfruttando abilmente le carenze dei fondi
assegnati dalle redazioni ai giornalisti, gli economisti legati alle
banche si fanno in quattro per comunicare le loro analisi ai giornalisti
precari, messi sotto pressione per produrre sempre di più, rapidamente
e al minor costo possibile. È quindi meno stupefacente leggere nelle
colonne di Le Monde che la crisi
“non risulta da un eccesso
speculativi dei mercati, ma dell’impotenza della politica e dalla mancanza
di leadership” [8].
Si potrebbe obiettare che i media
hanno avuto, nella quasi totalità, parole molto dure riguardo al ruolo
nefasto rivestito dall’alta finanza e dagli speculatori nello scoppio
della crisi. Nessuno lo può contestare. Si può comunque manifestare
dei dubbi quando alla pertinenza del livello di analisi. L’economista
Federico Lordon rivela invece che questa posizione centrata sulle responsabilità
individuali fa deviare lo sguardo dalle vere ragioni della crisi: “Oltre
ad essere il mezzo più sicuro per non comprendere della crisi, questo
procedimento elude l’attribuzione di responsabilità a quelli che hanno
reso questo sistema possibile, e a coloro che ne hanno beneficiato”
[9]. Per questo specialista della crisi, puntare il dito contro
i responsabili
palesi (traders e banchieri) consente ai media di
scaricarsi dalle proprie responsabilità parlando di quello che ha portato
alla crisi: “Mentre i poteri politici hanno sostenuto il ruolo
degli architetti delle strutture della mondializzazione finanziaria,
gli esperti e i media che hanno dato loro la versione ne hanno svolto
il ruolo della propaganda“. Questa denuncia nei confronti della
gran parte dei media si può rivelare tuttavia insufficiente
per farci dimenticare il lavoro di trincea che hanno svolto da una trentina
di anni contro le posizioni e i progetti politici troppo critici verso
la deregolamentazione finanziaria e la concorrenza generalizzata.
Certo, sarebbe assurdo generalizzare
o considerare le redazioni come blocchi monolitici. Non si può rimproverare
allo stampa generalista di aver lasciato spazio al dibattito, perché
talvolta alcune acerbe critiche contro i piani di austerità introdotti
a livello europeo, e in senso più allargato al sistema politico ed
economico, si sono talvolta inserite nella vulgata dominante.
Resta il fatto che questi punti di vista, spesso relegati nelle rubriche
sulle “idee”, sulle “controversie“, sono spesso annegati
nel flusso delle false evidenze sostenute dai poteri politici nazionali
ed europei che inondano questi giornali. E, alla fine, sono quest’ultime
che contribuiranno a forgiare l’opinione pubblica sulla questione.
Silenzio di connivenza
Così, alla subordinazione del mondo
politico agli imperativi economici dettati dal mondo degli affari, i
media rispondono con queste segnalazioni ripetute che liberano l’immaginario
collettivo da ogni alternativa ai piani di austerità. Ciò contribuisce
a legittimare questi ultimi, perché diventano l’unica soluzione ragionevole.
Questa apatia rivela una visione politica dove la nozione di “governance”
si è imposto a poco a poco e ha preso il posto di quella di “governo”
[10]. Detto
in altro modo, il potere non fonda più la sua legittimità sul consenso
popolare, ma sull’ efficacia delle proprie azioni, senza interrogarsi
sulle sue questioni politiche (a cominciare dal carattere democratico). Non è
da allora esagerato dire che, per il loro silenzio o quanto meno per
la loro compiacenza nei confronti delle spiegazioni ufficiali su aspetti
essenziali come l’austerità, il debito o l’euro, i media a grande
diffusione danno supporto alla versione dei poteri politici ed economici
dominanti che verrà così ritenuta vera. Partecipano quindi a una gigantesca
offensiva contro le esperienze democratiche, e questo sia a livello
politico che economico.
Una politica, ora quanto mai, dove
i dirigenti si sono liberati dall’esigenza fondante della democrazia
secondo cui l’azione pubblica deve basarsi sulla sovranità popolare.
La gestione efficace delle domande economiche sociali – e quindi politiche
– viene considerata un campo troppo importante che lasciarla confinata
alla scelta democratica. Al cittadino, percepito come irresponsabile,
si privilegiano gli agenti economici e i noti esperti indipendenti.
La nomina di due personalità provenienti dell’alta finanza alla testa
di governi di unione nazionale incaricati di applicare le riforme necessarie
è in questo caso davvero eloquente.
Postulando che queste riforme non rispondano
a una scelta ma a una necessità, questo visione manageriale della gestione
pubblica non lascia spazio ad altri modi possibili per uscire dalla
crisi, dissuadendo le persone dall’interrogarsi sugli interessi che
soddisfano. Ben lontane dall’essere neutre, queste riforme derivano
in realtà da scelte politiche e corrispondono agli interessi ben identificati
di una élite economica che si rifiuta di vedersi toccare i propri privilegi.
Non c’è bisogno di precisare che questi interessi non si sovrappongono
a quelli della maggioranza dei cittadini. Da qui la volontà di allontanare
questi ultimi dalle istanze che sono state da loro decise. Poteri economici,
perché i piani di austerità presentata dai media e dai governanti
come misure necessarie alla creazione di un ambiente stabile, generatore
di crescita e di lavoro, toccano la questione essenziale della ripartizione
delle ricchezze. Questi piani si inseriscono in un’offensiva più allargata,
e di molto anteriore alla crisi, contro le conquiste sociali ottenute
dalle società occidentali per una ripartizione della ricchezza relativamente
soddisfacente per i salariati. Dal dopoguerra fino agli anni ’70 il
rapporto tra capitale e lavoro ha permesso di raggiungere importanti
conquiste sociali che hanno preservato il salario dai rischi del mercato:
sicurezza sociale, ferie pagate, redistribuzione dei proventi della
crescita sotto forma di aumenti dello stipendio, eccetera (11). In questa
ottica, le crisi sono viste come una manna poiché l’ipotetica necessità
di riguadagnare la fiducia dei mercati giustifica l’attacco a queste
esperienze sociali (12). E permette alle élite economiche di assicurarsi
una ripartizione delle ricchezze a loro più favorevole.
Deviando il dibattito o attribuendo
a tale questione un posto marginale, i media screditano agli
occhi dell’opinione pubblica ogni soluzione che esce dalla cornice di
riferimento promossa da Bruxelles e dal FMI, a cominciare dall’introduzione
di una fiscalità più equa e di una tassazione più forte per il capitale
finanziario. Tutto questo provoca la rassegnazione della maggioranza,
convinta che bisognerà pagare presto o tardi, indipendentemente dalle
responsabilità di ognuno in nome del principio di realtà. Con grande
soddisfazione dei mercati e del grande capitale che, di fatto, preserveranno
nei loro privilegi.
L’atteggiamento dei media riguardo
al potere resta un argomento di ricerca vasto e complesso. È difficile
valutare la loro influenza con esattezza, così come il loro grado di
indipendenza dal potere. È comunque certo che nei periodi di svolta
nella storia hanno sempre svolto, positivamente o negativamente, un
ruolo negativo nella piega presa dagli avvenimenti. Nel momento in cui
le esperienze sociali e politiche sono sempre più minacciate, non sarebbe
il caso che la stampa ripristinasse il suo ruolo illuminante di contropotere,
essenziale al funzionamento di una società democratica? Altrimenti
rischia di farsi carico di una pesante responsabilità.
Note:
1. I media nazionali non sono
stati unanimi a proposito della necessità della riforma delle pensioni
nel 2010 o di quella del “Sì” al referendum sul trattato
costituzionale europeo nel 2005?
2. Per un panorama delle reazioni dei
media nazionali francesi all’indomani dell’annuncio del referendum,
vedi Frederic Lemaire, “Consulter
le peuple grec ? Les gardiens autoproclamés de la démocratie s’insurgent“,
4 novembre 2011.
3. Martin, Pascal, “Papandréou et la fragilité
des Européens“,
4 novembre 2011.
4. Thomas, Pierre-Henri, “It’s the economy : la Grèce
n’a pas le choix“,
Le Soir, 3 novembre 2011.
5. Chavigné, Jean-Jacques, e Filoche,
Gerard, “Crise
grecque : pour un audit public de la dette“,
Marianne, 13 giugno 2011.
6. Bourton, William, “11h02 : « La démocratie
n’est pas encore en danger »“,
Le Soir, 16 novembre 2011
7. Rothé, Bertrand, “Comment la finance contrôle
le débat économique“,
Marianne, 16 novembre 2011.
8. Baverez, Nicolas, “Fin de partie“, Le Monde, 28 novembre 2011.
9. Lordon, Frederic, « Les médias et la crise
», par Frédéric Lordon (« Jeudi d’Acrimed », vidéo)“, Jeudì de Acrimed, Conferenza
tenuta alla Borsa del Lavoro, Parigi, 2009.
10. Durand, Pascal, “Les nouveaux
mots du pouvoir. Abécédaire critique”, ed. Aden, Bruxelles,
2007.
11. Gobin, Corinne, “Les
politiques de réforme de la Sécurité sociale au sein de l’Union européenne :
La sécurité collective démocratique en péril” , in “L’homme
et la société”, n° 155, L’harmattan, 2005,
12. Sull’argomento, vedi Klein,
Naomi, Shock
economy. L’ascesa
del capitalismo dei disastri, Milano, Rizzoli, 2007.
Fonte: Les médias et la crise de l’Euro : inépuisable pensée unique
05.12.2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE