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La Redazione

 

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I DESAPARECIDOS DELL'IMPERO

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A cura di supervice
Il 13 Gennaio 2012
52 Views

DI ATILIO BORON
Rebelion.org

Ci sono attualmente due paesi che attirano la maliziosa attenzione dell’impero: Iran e Venezuela, per puro caso padroni di immense riserve petrolifere.

Un articolo recente firmato da John
Tirman, direttore del Centro di Studi Internazionali del Massachusetts
Institute of Technology
(MIT) e pubblicato sul Washington Post, espone con crudezza una riflessione su un aspetto poco studiato delle politiche di aggressione dell’imperialismo: l’indifferenza della Casa Bianca e dell’opinione pubblica per le vittime delle guerre che gli Stati Uniti dispiegano all’estero (1).

Da accademico “benpensante” Tirman si astiene dall’utilizzo della categoria “imperialismo” come chiave interpretativa della politica estera del suo paese; la sua analisi, invece, rivela chiaramente la necessità di ricorrere a questo concetto e alla teoria che gli attribuisce senso. L’autore esprime nel suo articolo la preoccupazione che prova, da cittadino che crede nella democrazia e nei i diritti umani, per l’incoerenza in cui è incorso Barack Obama – non dimentichiamolo, un Premio Nobel per la Pace – quando, nel discorso pronunciato a Fort Bragg il 14 Dicembre del 2011 per rendere omaggio ai membri delle forze armate che avevano perso la vita nella guerra in Iraq (circa 4.500), non riuscì a dire una parola sulle vittime civili e militari irachene morte a causa dell’aggressione nordamericana.Aggressione, conviene ricordarlo, che

non ha avuto niente a che fare con l’esistenza di “armi di distruzione

di massa” in Iraq o con l’inverosimile complicità dell’antico

alleato di Washington, Saddam Hussein, con le malefatte presumibilmente

compiute da un altro ex alleato, Osama Bin Laden.

L’obiettivo esclusivo di questa guerra,

come quella che si minaccia di iniziare contro l’Iran, fu quello di

impadronirsi del petrolio iracheno e di stabilire un controllo territoriale

diretto su una zona strategica, dato che per l’approvvigionamento di

greggio sarebbe stato meglio affidarsi all’efficacia dissuasiva delle

armi invece che alle norme di quello che alcuni spiriti ingenui nell’Europa

del secolo XVIII chiamarono “il dolce commercio”.

Nel suo articolo Tirman ricorda che

le principali guerre scatenate dagli Stati Uniti dalla fine della Seconda

Guerra Mondiale – Corea, Vietnam, Cambogia, Laos, Iraq e Afghanistan

– hanno prodotto, con le sue parole, una “macelleria colossale“.

Una stima che l’autore considera molto conservatrice ipotizza il numero

di almeno sei milioni di morti causati dalla crociata lanciata da Washington

per portare la libertà e la democrazia in quei paesi sfortunati. Se

si contassero anche le operazioni militari su scala minore – come le

invasioni a Grenada e Panama o l’intervento appena dissimulato dalla

Casa Bianca nelle guerre civili del Nicaragua, El Salvador e Guatemala,

per non parlare di simili soprusi ad altre latitudini planetarie –

il dato sarebbe senz’altro superiore (2).

Nonostante tutto, e a dispetto delle

dimensioni di questa tragedia – a cui bisognerebbe sommare i milioni

di sfollati per i combattimenti e la devastazione sofferta dai paesi

aggrediti – né il governo né la società nordamericana hanno palesato

la minima curiosità, preoccupazione, tanto meno compassione, per informarsi

dell’accaduto e per fare qualcosa al riguardo. I milioni di vittime

sono stati semplicemente cancellati del registro ufficiale del governo

e, peggio ancora, dalla memoria del paese nordamericano, mantenuto impudicamente

nell’ignoranza o sottomesso alle interessate tergiversazioni informative.

Come lugubremente ripeteva il criminale dittatore argentino Jorge R.

Videla alle angosciate richieste dei parenti della repressione, anche

per Barack Obama le vittime delle guerre statunitensi “non esistono“,

sono sparite“, “non ci sono“.

Se l’olocausto perpetrato da Adolf

Hitler con lo sterminio di sei milioni di ebrei caratterizzò il suo

regime con un’aberrante mostruosità o come una sbalorditiva incarnazione

del male, quale sorta di categoria teorica bisognerebbe utilizzare per

definire i vari governi degli Stati Uniti che hanno seminato morte in

modo analogo, se non maggiore?

Peccato che il nostro autore non formuli

a sé stesso questa domanda, perché qualunque risposta avrebbe

messo in discussione la fede nordamericana che garantisce che gli Stati

Uniti siano una democrazia. Addirittura l’incarnazione perfetta della

“democrazia” in questo pianeta.

Tirman osserva invece con costernazione

il disinteresse pubblico per i costi umani delle guerre statunitensi,

un’indifferenza rafforzata dal premeditato occultamento che si fa

di quelle morti nella voluminosa produzione di film, romanzi e documentari

che hanno per tema centrale la guerra; dal silenzio della stampa per

questi massacri – va ricordato che, dopo il Vietnam, la censura sui

fronti delle battaglie è stata totale e non si possono mostrare vittime

civili e neppure soldati nordamericani feriti o morti – , e si chiede

anche perché le innumerevoli inchieste che vengono realizzate quotidianamente

negli Stati Uniti non indagano mai il grado di conoscenza o l’opinione

degli intervistati sulle vittime provocate all’estero dalle avventure

militari dell’impero.

Questa pesante cappa di silenzio si

spiega, secondo Tirman, con la persistenza di quello che lo storiografo

Richard Slotkin chiamava il “mito della frontiera”, una

delle costruzioni di senso più radicata della cultura nordamericana,

secondo cui una violenza nobile e disinteressata – o interessata solo

a produrre il bene – può essere esercitata senza colpa o senza pesi

sulla coscienza su chi si intromette nel “destino manifesto

che Dio ha riservato agli statunitensi e che, con pia gratitudine, i

dollari ricordano su tutti i suoi tagli.

Solo le “razze inferiori”

o i “popoli barbari” che vivono al margine della legge, potrebbero

rifiutarsi di accettare i progressi della “civiltà”.

La devastazione violenta subita dai

popoli originari delle Americhe, sia nel Nord che nel Sud, fu giustificato

da questo mito della frontiera razzista e fu edulcorato dalle menzogne.

All’estremità meridionale del continente, in Argentina, la bugia

fu quella di nominare “conquista del deserto” l’occupazione

territoriale a ferro e fuoco del habitat, che non esattamente

un deserto, dei popoli nativi.

In Cile si identifica con il termine

pacificazione dell’Araucanía” la assolutamente sanguinosa

e violenta sottomissione del popolo mapuche. Nel nord l’oggetto

della rapina e della conquista non furono le popolazioni indigene, ma

solo un punto cardinale: il West. In tutti i casi, come rimarcato

dallo storiografo Osvaldo Bayer, la “barbarie” degli sconfitti,

che rendeva necessaria la perentoria missione civilizzatrice, era dimostrata

dal… mancato riconoscimento della proprietà privata!

In sintesi, questa serie di credenze

– razziste e classiste fino al midollo – presidiò la fenomenale

devastazione di cui furono oggetto i popoli originari e dette il via

ai pii cristiani che perpetrarono il massacro di senso di colpa. In

realtà, le vittime erano umano solo in apparenza. Questa ideologia

riappare ai giorni nostri, indubbiamente in modo trasfigurato, per giustificare

l’annichilimento dei selvaggi contemporanei. Continua a “opprimere

il cervello dei vivi“, per utilizzare una formulazione classica,

e a fomentare l’indifferenza popolare per i crimini commessi dall’imperialismo

nelle terre lontane. Con l’inestimabile contributo dell’industria culturale

del capitalismo, la condizione umana viene negata ai palestinesi, agli

iracheni, agli afghani, agli arabi, ai discendenti degli africani e,

in generale, ai paesi che costituiscono l’ottanta per cento della popolazione

mondiale. Tirman ricorda, come già l’aveva fatto prima Noam Chomsky,

il suggestivo nome che è stato assegnato all’operazione destinata ad

assassinare Osama Bin Laden: “Geronimo”, il capo degli

apache che si oppose alla rapina praticata dai bianchi. Anche il

linguista nordamericano ha asserito che anche alcuni degli strumenti

di morte più letali delle forze armate del suo paese hanno nomi che

alludono ai popoli originari: l’elicottero Apache, il missile

Tomahawk, e così via.

Tirman conclude la sua analisi dicendo

che questa indifferenza per i “danni collaterali” e

per i milioni di vittime delle avventure militari dell’impero minano

la credibilità di Washington quando pretende di essere campione dei

diritti umani. Aggiungeremmo: mina “irreparabilmente

questa credibilità, come fu eloquentemente dimostrato nel 2006 quando,

l’Assemblea Generale dell’ONU istituì il Consiglio dei Diritti umani,

in sostituzione della Commissione per i Diritti umani, col voto quasi

unanime degli stati membri e il solo rifiuto diStati Uniti, Israele,

Palau e delle Isole Marshall (3).

Lo stesso è avvenuto pochi anni

più tardi quando l’Assemblea Generale condannò a maggioranza

assoluta il blocco criminale imposto dagli Stati Uniti a Cuba.

Ma non è in gioco solo la credibilità

di Washington. È ancora più grave che l’apatia e il sopore morale

che rendono invisibile il problema delle vittime garantisce l’impunità

a chi continua a perpetrare crimini di lesa umanità contro le popolazioni

civili indifese (come nel caso di My Lai in Vietnam o di Haditha in

Iraq, per non parlare che dei più conosciuti). Ma la cosa arriva da

lontano: ricordatevi della patetica indifferenza della popolazione nordamericana

per le notizie del bombardamento atomico su Hiroshima e Nagasaki, e

i telegrammi inviati dal corrispondente del New York Times in

Giappone, dove assicurava che non c’erano tracce di radioattività

nella zona bombardata. Un’impunità che incoraggerà atrocità future,

velocizzate dall’inesauribile voracità dei benefici richiesti dal complesso

militare-industriale, per il quale la guerra è una condizione necessaria,

imprescindibile, dei suoi profitti. Senza guerre, senza scalate militarista

il commercio andrebbe in perdita, e la cosa è inammissibile. E sono

i guadagni di questi loschi commerci, non dimentichiamolo, che finanziano

le carriere dei politici nordamericani (e Obama non fa assolutamente

eccezione) e che sostengono agli oligopoli mediatici coi quali si disinforma

e si addormenta la popolazione.

Non è un caso che gli Stati Uniti

abbiano guerreggiato incessantemente negli ultimi sessanta anni. I preparativi

per nuovi conflitti sono palesi e inoccultabili: si inizia con la demonizzazione

dei dirigenti detestati, che vengono presentati all’opinione pubblica

come figure dispotiche, quasi mostruose; si prosegue con un’intesa

campagna pubblicitaria di stigmatizzazione dei governi nemici e dei

popoli disubbidienti; poi arrivano le condanne per presunte violazioni

dei diritti umani o per la complicità di questi leader e governi

col terrorismo internazionale o con narcotraffico, fino al momento in

cui la CIA o qualche squadrone speciale delle forze armate si incarica

di architettare un incidente che permetta di giustificare all’opinione

pubblica mondiale l’intervento degli Stati Uniti e dei suoi complici

per porre fine a così tanta malvagità.

Nei tempi recenti è avvenuto

in Iraq e poi in Libia. In questo momento due paesi che attirano la

maliziosa attenzione dell’impero: Iran e Venezuela, per puro caso padroni

di immense riserve petrolifere. Ciò non significa che la funesta

storia dell’Iraq e della Libia debbano necessariamente ripetersi, perché,

come ha anche osservato Noam Chomsky, gli Stati Uniti solamente paesi

deboli, quasi indifesi, e isolati in ambito internazionale. Washington

ha fatto l’impossibile per dispiegare un “cordone sanitario

che isoli Teheran e Caracas, finora senza successo. E non sono paesi

distrutti da un blocco pluriennale, o che si sono disarmati volontariamente,

come nel caso della Libia, sedotta dalle ipocrite dimostrazioni di affetto

di una nuova covata di imperialisti. Fortunatamente, né l’Iran né

il Venezuela si trovano in questa situazione. In ogni caso, bisogna

rimanere vigili.

Note:

1. “Why do we ignore the civilians

killed in American wars?”, The Washington Post, 5 dicembre 2011.

(2) Alcuni esperti internazionali

assicurano che il numero di vittime causate dagli Stati Uniti in Vietnam

è attorno ai quattro milione di persone. La stima totale di sei milioni

sottovaluta di parecchio il massacro provocato dall’imperialismo nordamericano

nei suoi svariati conflitti.

(3) Aggiungiamo un dato molto significativo:

quando l’Assemblea Generale dovette decidere la composizione del Consiglio

il 9 Maggio del 2006, gli Stati Uniti non raggiunsero i voti necessari

per essere nominati uno dei 47 paesi che ne dovevano far parte. Un’ottima

definizione della credibilità internazionale degli Stati Uniti come

difensore dei diritti umani.

**********************************************

Fonte: Los “desaparecidos” del imperio

12.01.2012

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE

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