DI ALFREDO JALIFE-RAHME
La Jornada
La crisi di Dubai e la feroce lite finanziaria tra il Kuwait ed il sinistro Gruppo Carlyle –controllore del nepotismo texano della dinastia Bush-, hanno favorito il nuovo accordo per il lancio del “gulfo”, nonostante il timore del Kuwait, paese da noi riconosciuto come “il benzinaio anglosassone nel deserto”, ma che inizia ora a spezzare le catene della dipendenza, come è stato evidentemente dimostrato nel corso della conferenza annuale FIKR (“pensiero” in arabo), e durante la quale è stata fatta una chiara esposizione del declino economico degli Stati Uniti.
Il solito “piccolo Medio Oriente” – da non confondere con il “grande Medio Oriente” quello dei geostrateghi israeliani che, se dipendesse da loro, si estenderebbero fino al Kashmir, al Caucaso, la Mauritania e la Somalia (il corno d’Africa) – fa mostra di un nuovo ordine a cinque cardini regionali, che sposta il suo centro di gravità più a nord-nordest (il mar Caspio: la terza riserva mondiale di petrolio), composto di tre nuove potenze annesse – Egitto, Arabia Saudita e Israele -, situate nel centro-sud, e due nuove emergenti potenze nel centro nord (Turchia ed Iran).
La debolezza di Turchia e l’Iran, due mezze potenze militari, è radicata nell’ambito finanziario ancora controllato dagli anglosassoni (e dal loro alleato israeliano), contrariamente all’Arabia Saudita che rappresenta la massima potenza finanziaria nel mondo arabo ed islamico, grazie alla sua saggia gestione del petrolio (al contrario del “Messico neoliberista”, rimasto praticamente senza banca nazionale, ciò a dimostrazione della validità del nostro inseparabile binomio “petrolio-banca”) e sotto la cui ombra hanno trovato riparo le restanti cinque petromonarchie arabe del Golfo Persico, sempre le stesse che hanno creato l’unione commerciale CCPAG (Consiglio di Cooperazione dei Paesi Arabi del Golfo), ma escludendo due paesi costieri: uno arabo, l’Iraq (occupato dagli anglosassoni), e l’altro persiano, l’Iran, tutti due a maggioranza sciita.
Non c’è nulla di nuovo: nel nostro libro Verso la deglobalizzazione (Jorale Editori, 2007), avevamo già parlato della tendenza a nuove “regionalizzazioni” nelle quali spiccavano progetti di monete comuni, sia quelle del Mercosur come quelle della CCPAG, che cercano di concretizzare, entro il 2010, il lancio della moneta unica “gulfo”, così come è emerso nel recente summit celebrato in Kuwait (An-Nahar, 16.12.09)
La crisi di Dubai e la feroce lite finanziaria tra il Kuwait e il cupo Gruppo Carlyle- controllore del nepotismo texano della dinastia Bush (il cui rappresentante locale è Luis Téllez Kuenzler, che tanto danno a causato al Messico in beneficio degli Stati Uniti)-hanno catalizzato la nuova strategia per il lancio del “gulfo”, non del tutto in sintonia il Kuwait, da noi sempre segnalato come “il benzinaio anglosassone nel deserto” ma che inizia ora a liberarsi dalle manette della dipendenza, come si dimostrò nel corso della conferenza annuale FIKR (“pensiero” in arabo), e durante la quale fu fatta una chiara esposizione del declino economico statunitense.
Inutile dire che l’ ormai fallito gruppo petroliero texano Carlyle ha frodato enormi capitali al Kuwait (Arabfinance, 2.12.09). Ma a quanto ammonterà il saccheggio da loro effettuato al “Messico Neoliberale”?
Le sei monarchie petrolifere della CCPAG- Arabia Saudita, Kuwait, Qatar, Bahrain, Oman e gli Emirati Arabi Uniti (con Dubai e Abu Dhabi)- formatesi 28 anni fa, occupano un territorio vasto quasi 2,7 milioni di Km quadri, con una popolazione di 40 milioni di abitanti, un PIL (nominale) di 1,1 miliardi di dollari, e soprattutto, con il possesso di circa il 40% delle riserve petrolifere e il 20% di riserve di gas a livello mondiale.
Nella fase di “siccità creditizia” mondiale, la somma delle riserve di valuta estera pone la CCPAG al 4° posto nel mondo con 476.943 milioni di dollari, dietro alla Cina, al Giappone e alla Eurozona, ma davanti a Russia, India, Corea del Sud e Brasile.
L’Arabia Saudita, da sola (che occupa già, da sola, il quarto posto mondiale) contribuisce con l’83% di tutte le riserve; da ciò scaturisce il fatto che la sua capitale Ryad sia la sede della nuova banca centrale della unione monetaria della CCPAG.
Il discusso analista britannico Ambrose Evans-Pritchard, portavoce ufficioso degli interessi finanziari della City, considera il “Gulfo”, sulla base del modello euro, come “la minaccia più recente per l’egemonia del dollaro” (The Daily Telegraph, 15.12.09).
Sicuramente il peggio è che “potrebbe spostare (sic) il dollaro come valuta di contratto nei prezzi di negoziazione del petrolio”, oltre a godere di una grande “influenza negli scambi mondiali di valuta e nei mercati di capitale”. A suo parere “il suo peso finanziario sarebbe pari a quello della Cina” il che suona molto esagerato.
Ambrose Evans-Pritchard fascia le solite ferite che dividono sunniti e sciiti, come fra arabi e persiani: “i paesi sunniti (sic) del Golfo sono assai preoccupati rispetto alle grandi (sic) ambizioni del potere sciita iraniano e le loro ricerche di armi nucleari, così tanto che la prospettiva di una possibile guerra (super sic!) fra Iran e una coalizione (sic) di paesi a capo l’Arabia Saudita, suscita scalpore nei mass-media”.
Evans-Pritchard è ugualmente ossessionato da una terza guerra mondiale come da una guerra regionale mediorientale, finalizzata a prevaricare gli interessi economici anglo-israeliani.
Si sbaglia soltanto a nominare scorrettamente, come “sunnita” la CCPAG, quando l’isola di Bahrain è notevolmente a maggioranza sciita (quasi il 70% di sciiti in confronto al 30% di sunniti nel totale islamico), ammesso persino dal governo britannico (British Foreign and Commoweath Office) che non è stato, però, consultato nella sua audace propaganda bellica.
Nella zona ha peso ed attira l’attenzione la strategia militare di The Daily Times (del Pakistan: grande alleato della Arabia Saudita; 16.12.09), il quale afferma che le sei monarchie petrolifere arabe “alleate degli Stati Uniti” (sic), che “condividono i timori di Washington sul programma nucleare iraniano”, hanno accettato di formare una forza comune d’ intervento veloce contro le minacce alla loro sicurezza”, come già succede nello Yemen.
Al Jazeera (15.12.09), con sede in Qatar, mostra molto interesse sulla unione monetaria della CCPAG, che produce 15 milioni di barili al giorno, ma senza ignorare che molti di loro “ospitano basi militari statunitensi”- aggiungendo l’ultima base militare francese negli Emirati Arabi Uniti (vedere “Radar Geopolitico”, Controlinea, 13.12.09)- e “hanno speso miliardi di dollari per rafforzare l’apparato bellico dopo l’invasione irachena del Kuwait”.
Ne consegue, paradossalmente, una grande vulnerabilità militare, in una grande potenza geoeconomica.
Il quotidiano libanese An-Naher (16.12.09) è maggiormente incentrato a sminuire le minacce economiche dell’Iraq “di aumentare massicciamente la sua produzione”, che andrebbe a produrre, nei prossimi anni, da 2.5 a 12 milioni di barili al giorno, alla pari dell’Arabia Saudita.
Il culmine della CCPAG è stato esibire, in un gioco di equilibrio, il sostegno incondizionato verso l’Arabia Saudita nella sua lotta contro la secessione della tribù “houthi” sciita dello Yemen (presumibilmente sostenuta dall’Iran) e “l’opposizione a qualsiasi azione militare contro l’Iran” in ritorsione al suo programma nucleare.
Nel bel mezzo di una situazione assai complessa, si affaccia il trionfo dell’Iran sull’Iraq (a maggioranza arabo sciita), il nuovo rivale religioso-petroliero dell’Arabia Saudita, mentre la guerra di Israele contro l’Iran, con la tacita benedizione degli Stati Uniti e la NATO, nuocerebbe alla CCPAG come a nessun altro.
Nulla è così linearmente manicheo né semplicistico nel Golfo Persico e nemmeno nel Mar Rosso. Soprattutto quando è in ballo il lancio di una moneta a portata mondiale come il “gulfo”, che colpisce interessi di “supremazia”.
Titolo originale: “”Gulfo”, petrodivisa árabe del CCPAG para desplazar al dólar”
Fonte: http://www.jornada.unam.mx/
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22.12.2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di MARISA CRUZCA