GUERRA SENZA UMANI

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DI BARBABA EHRENREICH
Counterpunch.org

Per essere un libro sulle “passioni di guerra” tutte umane, il mio lavoro del 1997 “Blood Rites” termina con una nota stranamente inumana, dove suggerisco che, qualsiasi qualità umana la guerra esorti – onore, coraggio, crudeltà, e così via – potrebbe essere utile smettere di pensare alla guerra in termini esclusivamente umani. Dopo tutto, certe specie di formiche si fanno la guerra, e i computer possono simulare “guerre” rappresentandole
su schermo senza alcun intervento dell’uomo.

Più in generale, quindi, dovremmo
definire la guerra come un modello auto-replicante di attività che
possono o meno richiedere la partecipazione umana. Per quanto riguarda l’essere umano, sappiamo che è in grado di diffondersi geograficamente ed evolversi rapidamente – qualità che, come ho suggerito in maniera un po’ fantasiosa, fanno della guerra un successore metaforico degli animali predatori, che come prima cosa hanno plasmato gli uomini in combattenti.

Una quindicina di anni dopo, queste
riflessioni non sembrano più così vaghe ed astratte. La tendenza, alla fine del XX secolo, sembra essere ancora un uso massiccio di esseri
umani in guerra – dagli eserciti da decine di migliaia di elementi del
diciottesimo secolo, alle centinaia di migliaia del diciannovesimo, fino ai milioni di elementi delle guerre del ventesimo secolo.

È stata la portata sempre maggiore
della guerra che in origine ha richiamato l’esistenza dello stato-nazione
come una unità amministrativa capace di mantenere grandi eserciti e
infrastrutture – per la tassazione, la produzione di armi, trasporto, ecc. – che richiedono. La guerra è, e ci aspettiamo che sia, il più grande progetto collettivo che l’essere umano abbia mai intrapreso. Ma si è evoluto rapidamente nella direzione in cui l’essere umano ha un ruolo sempre più marginale.

Un fattore che ha portato a questo
cambiamento è stato l’emergere di un nuovo tipo di nemico, i cosiddetti
“attori non appartenenti allo stato”, ovvero insurrezioni
popolari e reti internazionali di combattenti, nessuna delle quali probabilmente ha truppe numerose ed arsenali costosi da mantenere. Di fronte a questi nuovi nemici, impersonati in al-Qaeda, gli eserciti enormi
di stati-nazione sono piuttosto inefficaci, sono ingombranti nel dispiegamento, difficili da manovrare, e da un punto di vista domestico, troppo dipendenti da una popolazione che sia disposta, ed in grado, di combattere, o che almeno lo siano i suoi figli.

Eppure, così come i cadetti dell’esercito degli Stati Uniti, a dispetto della realtà militare, continuano a osteggiare spade e uniformi militari, i nostri leader, sia militari
che politici, tendono ad aggrapparsi all’idea di guerra come ad un grande sforzo, come durante la Seconda Guerra Mondiale. Solo lentamente, e con una certa riluttanza quasi fobica, i leader dei maggiori paesi hanno cominciato a capire che questo approccio militare sarà presto
obsoleto.

Consideriamo la più recente guerra

degli Stati Uniti contro l’Iraq. Secondo l’allora presidente George

W. Bush, il casus belli fu l’attacco terroristico dell’11 settembre.

Il legame tra l’evento terroristico ed il nostro nemico prescelto,

l’Iraq, è stato impercettibile a tutti, esclusi gli intellettuali

più scrupolosi su Washington. Diciannove uomini hanno dirottato degli

aeroplani e si sono schiantati contro il Pentagono e il WTC – 15 Sauditi,

nessun Iracheno – e noi dichiariamo guerra all’Iraq?

Nella storia militare non ci sono altri

precedenti di una simile sfrenata ritorsione. Le analogie più vicine

vengono dall’antropologia, che fornisce abbondanti casi di società

in scala ridotta dove la morte di qualsiasi membro, per qualsiasi motivo,

deve essere “vendicata” con un attacco contro un villaggio

o una tribù scelti a caso.

Perché l’Iraq? Le ambizioni imperialiste

dei Neocon sono state invocate per la spiegazione, cosi come la sete

di petrolio americana, o anche come un complesso di Edipo di George

W. Bush verso il padre. Senza dubbio c’è qualcosa di vero in tutte

queste spiegazioni, ma la scelta dell’Iraq rappresentava anche una

risposta disperata e irrazionale ad una situazione militare di assoluta

confusione per Washington.

Abbiamo affrontato un nemico senza

stato – diffuso geograficamente, senza uniformi ne bandiere, invulnerabile

all’invasione della fanteria ed ai bombardamenti, apparentemente in

grado di rigenerarsi a spese minime. Dal punto di vista del Segretario

alla Difesa Donald Rumsfield e dei suoi compari alla Casa Bianca, tutto

questo non andava bene.

Dal momento che gli Stati Uniti erano

abituati a combattere altri stati-nazione – le entità geopolitiche

con bersagli identificabili come capitali, aeroporti, basi militari,

e depositi di munizioni – dovevamo trovare una nazione-stato da combattere,

o come dice Rumsfeld, un “ambiente ricco di bersagli”. L’Iraq,

gonfiato da presunte “arme di distruzione di massa”, è diventato

il sostituto designato di un nemico che si rifiuta di giocare al nostro

gioco.

Gli effetti di questa guerra atavica

si stanno ancora contando: in Iraq, dovremmo includere le morti civili,

stimate attorno alle centinaia di migliaia, la distruzione delle infrastrutture

civili, e lo scoppio di devastanti violenze settarie che, come abbiamo

imparato dalla dissoluzione della Jugoslavia, possono facilmente seguire

la morte o la rimozione di un dittatore nazionalista.

Ma gli effetti della guerra per gli

Stati Uniti ed i suoi alleati potrebbero essere quasi tragici. Invece

di punire i terroristi che hanno attaccato gli Stati Uniti, la guerra

sembra esser riuscita ad aumentare il reclutamento di forze irregolari,

giovani uomini (e in alcuni casi donne) disposti a morire, pronti a

commettere nuovi atti terroristici o di vendetta. Insistendo nel combattere

uno stato-nazione scelto a caso, gli Stati Uniti non possono che aumentare

le minacce da non-stati.

Eserciti poco maneggevoli

Qualunque cosa si pensi su quello che

gli Stati Uniti ed i suoi alleati abbiano fatto in Iraq, molti leader

nazionali stanno cominciando a riconoscere che le convenzioni militari

stanno diventando, nel senso strettamente militare, quasi ridicolmente

anacronistiche. Non solo sono inadatte per sconfiggere le insurrezioni,

le piccole bande di terroristi e i combattenti irregolari, ma i grandi

eserciti sono semplicemente troppo scomodi da disporre in tempi brevi.

Nel gergo militare, sono appesantiti

nel rapporto “denti-coda”, una misura del numero di combattenti

effettivi rispetto al personale di supporto e l’equipaggiamento richiesto.

Sia i falchi che i liberal-interventisti desiderano realizzare un ponte

aereo che porti decine di migliaia di soldati in luoghi molto distanti

in una sola notte, ma questi soldati dovranno essere preceduti o accompagnati

da tende, mense, furgoni, attrezzature mediche, eccetera. Il “sorvolo”

dovrà essere concessa dai paesi vicini; spazi aerei ed eventuali basi

dovranno essere costruite; dovranno essere creati e difesi i rifornimenti,

e tutto questo può richiedere mesi per la realizzazione.

La lentezza di questa massa militare

enorme è diventata una fonte costante di frustrazione per i leader

civili. Irritata dall’esitazione del Pentagono di mettere “piede

sul suolo” Bosniaco, l’allora Segratario di Stato Madeline Albright

fece questa famosa domanda al Segretario della Difesa Colin Powell:

“A cosa ci serve questa meravigliosa forza militare se non la usiamo

mai?”. Nel 2009 l’amministrazione Obama ha proposto senza pensarci

un aumento delle truppe in Afghanistan, seguito da un ritiro entro un

anno e mezzo, il che richiedeva che alcune truppe di iniziassero a fare

le valige appena arrivati. Ai militari americani ci sono voluti due

mesi per organizzare il trasporto di 20000 soldati ad Haiti in seguito

al terremoto del 2010 – e dovevano viaggiare per sole 700 miglia, per

una missione di soccorso umanitario, non una guerra.

Un altra cosa che fa arrancare i grandi

eserciti è la crescente riluttanza delle nazioni, in particolare quelle

più democratiche, a rischiare un gran numero di vittime. Non è più

accettabile guidare uomini in battaglia sotto minaccia o chieder loro

di badare a se stessi in territorio straniero. Una volta che migliaia

di soldati sono stati gettati in un “teatro”, devono essere

poi difesi dalla gente del posto potenzialmente ostile, un progetto

che spesso finisce per sostituire la missione originale.

Potremmo non essere in grado di articolare

con chiarezza quello che le truppe Americane avrebbero dovuto fare in

Iraq o in Afghanistan, ma senza dubbio una parte del loro lavoro è

di “proteggere le forze armate”. In quello che potrebbe essere

considerato l’opposto di una “missione strisciante”, invece

di espandersi, la missione ora ha la tendenza a svolgere un ruolo di

auto difesa.

Alla fine, i grandi eserciti dell’era

moderna, con sistemi d’armamento sempre più costosi, diventano un

peso economico inaccettabile per gli stato-nazione che li supportano

– un fardello che potrebbe mettere a repentaglio gli stessi militari.

Consideriamo quello che è successo all’unica superpotenza militare

del mondo, gli Stati Uniti. Al momento, l’ultima stima del costo delle

guerre in Iraq e Afghanistan è di 3200 miliardi di dollari, mentre

la spesa totale dell’esercito Americano è uguale a quella di altri

15 paesi messi assieme, ed è pari a circa il 47% delle spese militari

mondiali.

A questo si deve aggiungere il costo

della cura dei feriti e dei veterani, che sta cresce velocemente così

come il progresso della medicina permette alla maggior parte dei feriti

di sopravvivere. L’esercito degli Stati Uniti è stato al riparo dalle

conseguenze della sua stessa proliferazione grazie ad un supporto politico

bipartisan che lo ha magicamente tenuto fuori dai tagli di budget, anche

se il debito pubblico si sta gonfiando a livelli giudicati insostenibili.

La destra in particolare ha fatto una

campagna senza tregua contro il “big government”, a quanto

pare senza accorgersi che i militari sono un pezzo consistente di questo

colosso. Nel dicembre del 2010 ad esempio, un senatore repubblicano

dell’Oklahoma tuonava contro il debito nazionale con questa dichiarazione:

“Siamo davvero in guerra. Ora combattiamo su 3 fronti: Iraq, Afghanistan,

e la tsunami finanziario [derivato dal debito] che ci sta minacciando”.

Solo di recente abbiamo alcuni legislatori affiliati ai Tea Party

che hanno rotto con la tradizione ed hanno dichiarato la loro volontà

di tagliare le spese militari.

Come il Warfare State è diventato Welfare State

Se la spesa militare è ancora per la maggior parte sacrosanta, sempre

più tagli alla spesa sono richiesti per diminuire il “big government”.

Allora quello che rimane è tagliare la spesa interna, specialmente

i programmi sociali per i poveri, che non hanno i mezzi per finanziare

i politici, e troppo spesso neanche l’incentivo al voto. Dagli anni

di Reagan in poi, il governo degli Stati Uniti ha tagliato dozzine di

programmi che aiutavano il sostegno di sottopagati e disoccupati, inclusi

i sussidi per la casa, assicurazioni sanitarie statali, trasporto pubblico,

sussidi ai genitori single, aiuti per le tasse scolastiche, e progetti

di sviluppo economico cittadini.

Anche le infrastrutture – ponti, aeroporti, strade e gallerie – usate

da ogni tipo di persona sono stati lasciati a livelli di abbandono pericoloso.

Manifestanti anti-guerra tristemente fanno notare, anno dopo anno, che

i soldi usati per le nostre armi high-tech, la nostra rete mondiale

di oltre 1000 basi militari, e i nostri vari “interventi”,

potrebbero essere usati

per i bisogni interni della popolazione. Ma senza alcun risultato.

L’attuale sacrificio del welfare domestico a vantaggio della “prontezza”

militare rappresenta un’inversione di tendenza storica. Fin dall’introduzione

di grandi eserciti nell’Europa del XVII sec, i governi hanno generalmente

capito che sottopagando ed affamando le proprie truppe – e le persone

che li riforniscono – c’è il rischio di avere le armi puntate dalla

parte contraria a quella suggerita dagli ufficiali.

Infatti, i moderni stati assistenziali, per quanto inadeguati, sono

in piccola parte il prodotto della guerra – ovvero il tentativo del

governo di placare i soldati e le loro famiglie. Negli Stati Uniti ad

esempio, la Guerra Civile ha portato all’istituzione dei benefici

per le vedove, il predecessore al welfare con i suoi aiuti ai single

con figli a carico. Fu il bellicoso leader tedesco Otto Von Bismarck

che per primo istituì l’assicurazione sanitaria nazionale.

La Seconda Guerra Mondiale ha dato il via a benefici per l’educazione

e sostegni al reddito per i veterani Americani e ha portato, nel Regno

Unito, ad un welfare piuttosto generoso, comprendendo l’assistenza

sanitaria gratuita per tutti. Nozioni di giustizia ed equità sociale,

o almeno il timore di insurrezioni della classe operaia, hanno certamente

fatto la loro parte nello sviluppo del welfare durante il XX secolo,

ma allo stesso tempo c’era una motivazione pragmatica da parte dei

militari: se una popolazione giovane viene cresciuta per poi essere

arruolata, questa dovrà essere in salute, ben nutrita e ragionevolmente

istruita.

Negli Stati Uniti, il progressivo inaridimento dei programmi sociali,

che potrebbero nutrire le truppe future serve, ironicamente, per giustificare

l’aumento delle spese militari. In assenza di un programma federale

per il lavoro, i rappresentanti del Congresso sono diventati feroci

sostenitori dei sistemi di armamenti che il Pentagono stesso non usa

più, fino a che la fabbricazione di queste armi può fornire lavoro

per alcuni dei loro elettori.

Con la diminuzione dei fondi per l’educazione superiore, il servizio

militare diventa un’alternativa meno triste per un giovane lavoratore

rispetto ai lavori sottopagati che lo aspetterebbero. Gli Stati Uniti

hanno ancora un welfare civile che consiste in gran parte in programmi

per anziani (Medicare e Social Security). Per molti giovani americani,

comunque, così come per i vecchi veterani, l’esercito è il welfare

– ed una fonte, sebbene temporanea, di lavoro, alloggio, assistenza

sanitaria ed istruzione.

Alla fine comunque, l’incapacità degli Stati Uniti di investire in

risorse umane – spendendo per la sanità, istruzione, etc. – mette in

pericolo lo stesso esercito. Durante la Prima Guerra Mondiale, gli esperti

di salute pubblica rimasero sconvolti nello scoprire che un terzo dei

coscritti veniva scartato perché fisicamente non idoneo al servizio

militare, era troppo debole o invalidato dagli incidenti sul lavoro.

Diverse generazioni dopo, nel 2010, il Segretario all’Istruzione degli

Stati Uniti ha riferito che “il 75% dei giovani Americani, tra

i 17 ed i 24 anni, non possono arruolarsi nell’esercito perché non

hanno preso il diploma, hanno precedenti penali o non sono adatti fisicamente”.

Quando una nazione non è più in grado di generare abbastanza giovani

idonei al servizio militare, quella nazione ha due scelte: può, come

alcuni generali in pensione stanno sostenendo, reinvestire nel suo “capitale

umano”, soprattutto nella salute e nell’istruzione per i poveri,

oppure rivalutare seriamente il suo approccio alla guerra.

Nebbia di Guerra (Robotizzata)

Dato che le attitudini anti-governative della destra nella politica

americana escludono la prima ipotesi, gli Stati Uniti hanno sviluppato

una forma di guerra meno intensiva. Questo in Afghanistan e Iraq può

dimostrare di essere il sistema definitivo: se questi conflitti non

danno vantaggi geopolitici, hanno certamente fatto da laboratorio per

le future forme di guerra impegnando meno personale, o almeno meno personale

governativo.

Un primo passo in questa direzione

è stato l’uso sempre maggiore dei contractors forniti da aziende

private, che può essere visto come una rinascita dell’uso di mercenari

come nei tempi passati. Sebbene la maggior parte delle funzioni appaltate

alle compagnie private – tra cui il servizio di ristorazione, lavanderia,

trasporto, e costruzione – non implicano il combattimento, sono però

molto pericolose, dato che certi contractors hanno il ruolo di sorvegliare

i convogli e le basi militari.

I contractors sono uomini e

donne che sanguinano e muoiono, e i numeri che sorprendono sono proprio

quelli delle loro morti. Durante i primi sei mesi del 2010 in Afghanistan

e Iraq, per la prima volta le morti del personale privato hanno superato

quelle dei militari. Ma il Pentagono ben ha poca responsabilità, se

non addirittura nessuna, per l’addestramento, l’alimentazione e

la cura dei contractors privati. Se ferito fisicamente o psicologicamente,

il contractor americano deve, come qualsiasi altro lavoratore

civile infortunato, riferirsi al Workers’ Compensation, quindi

l’impressione è quella di un “esercito usa e getta”. Dal

2009 la tendenza alla privatizzazione è andata così avanti che il

numero dei contractors ha superato il numero delle truppe americane

in Afghanistan.

Un approccio alternativo è quello

di eliminare, o ridurre drasticamente, la dipendenza dalle persone per

l’esercito. Questa proposta sarebbe stata impensabile solo poche decine

di anni fa, ma le tecnologie impiegate in Iraq e Afghanistan hanno spogliato

l’essere umano del suo ruolo. I droni, manovrati negli Stati Uniti

occidentali, distanti anche 7.500 miglia, stanno rimpiazzando i piloti

umani.

Videocamere posizionate sui droni sostituiscono

gli scout umani per le informazioni. I robot disinnescano

le bombe per le strade. Quando le forze americane hanno invaso l’Iraq

nel 2003, non avevano con se nemmeno un robot; dal 2008 ce ne

sono 12.000. Solo una manciata di droni fu usata nelle fasi iniziali

dell’invasione; oggi, l’esercito americano ne ha oltre 7000, dal

famoso Predator ai piccoli Raven e Wasp usati per

la trasmissione di immagini e video dei fatti che avvengono sul campo.

Macchine da guerra molto strane sono in costruzione, come ad esempio

uno sciame di letali “insetti cyborg” che potrebbero rimpiazzare

la fanteria umana.

Questi sviluppi non sono certo limitati

agli Stati Uniti. Il mercato globale della robotica militare e dei veicoli

senza pilota è in rapida crescita, comprende Israele, un pioniere nel

campo, Russia, Gran Bretagna, Iran, Sud Corea e Cina. Secondo alcuni

resoconti la Turchia si sta organizzando con una forza robotica per

attaccare i ribelli curdi; Israele spera di pattugliare il confine con

Gaza con robot “see-shoot” che abbatteranno non appena

individuate le persone percepite come trasgressori.

Non è facile predire quanto l’automazione

della guerra potrà sostituire la presenza umana. Da una parte gli umani

hanno il vantaggio di avere una maggiore supervisione visiva. Nonostante

decenni di ricerche nel campo dell’intelligenza artificiale, i computer

non possono fare certe semplici distinzioni che gli esseri umani possono

fare in una frazione di secondo, ad esempio determinare se una mucca

di fronte ad un fienile sia un’entità separata o parte integrante

del fienile.

Così, finché non c’è nessun incentivo

a evitare la morte di civili, gli esseri umani devono essere coinvolti

nell’elaborazione delle informazioni visive che portano, ad esempio,

alla selezione dei bersagli dei droni. Finché non migliorerà la vista

dei computer, gli esseri umani continueranno ad avere un ruolo nella

guerra, se non come cani guida.

D’altra parte, il cervello umano

non riesce ad elaborare tutti i dati che gli confluiscono, soprattutto

perché le nuove tecnologie moltiplicano questi dati. Nello scontro

di grandi eserciti tradizionali, sotto una pioggia di frecce e proiettili,

i combattenti umani spesso venivano travolti e si confondevano, una

condizione attribuita alla “nebbia di guerra”. La nebbia sta

diventando sempre più spessa. Gli ufficiali dell’esercito americano,

ad esempio, danno la colpa al “sovraccarico di informazioni”

per l’uccisione di 23 civili afghani nel febbraio 2010, e il New York

Times ha riportato che:

“Per i militari

il flusso di dati è aumentato; dall’attacco dell’11 settembre,

il numero di informazione raccolte da droni telecomandati e da altre

tecnologie di sorveglianza è cresciuto del 1600 per cento. Sul campo

le truppe usano sempre più dispositivi palmari per comunicare, ottenere

indicazioni e impostare le coordinate dei bombardamenti. Gli schermi

dei jet sono così pieni zeppi di dati che certi piloti li chiamano

“drool buckets” (secchi per la saliva), perché dicono che

lo sguardo gli si perde dentro quei monitor pieni di numeri.”

Quando i dati sensoriali che arrivano

al soldato vengono amplificati da un flusso di altri dati trasmessi

istantaneamente da videocamere remote e motori di ricerca, non c’è

altra scelta che rimpiazzare la scarsa interazione cervello-software

degli umani con un sistema robotico di risposta istantanea.

Guerra senza Umani

Una volta impostata l’automatizzazione

della guerra è difficile da fermare. Gli esseri umani si aggrappano

al loro posto “nel ciclo delle cose” per quanto possono, insistendo

sul fatto che le alte decisioni – se andare in guerra e contro chi –

debbano essere riservate ai leader umani. Ma è precisamente ad alti

livelli che il processo decisionale potrebbe aver bisogno di automazione.

Un capo di stato deve considerare una miriade di fattori: analogie storiche,

informazioni di intelligence satellitare, e devono valutare la disponibilità

di potenziali alleati. In più, come il nemico automatizza il suo esercito,

o nel caso di un “non-state actor“, che si adatta semplicemente

al nostro livello di automazione, il tempo per una risposta effettiva

sarà sempre minore. Perché non ci affidiamo a dei supercomputer?

È difficile da immaginare una macchina intelligente che, in risposta

agli attacchi del 11/9, decida di invadere l’Iraq.

Così, dopo almeno diecimila anni di

lotte – di terra bruciata, villaggi rasi al suolo, città razziate,

cadaveri ammucchiati, così come tutti i grandi poemi epici della letteratura

umana – dobbiamo affrontare la possibilità che l’istituzione della

guerra potrà non avere più bisogno di noi. I desideri umani, specialmente

per la disponibilità sempre minore di risorse sulla Terra, continueranno

a istigare guerre, ma né il coraggio né la sete di sangue degli uomini

verranno portati sul campo di battaglia.

I computer valuteranno le minacce e

calibreranno le risposte; i droni individueranno i nemici; i robot potrebbero

agire per le strade di città ostili. A parte la singola battaglia o

lo scontro minore, anche le decisioni su come combinare l’attacco

e il contrattacco, o se usare una nuova tecnologia letale, potranno

essere cedute a menti aliene.

Questo non dovrebbe sorprenderci. Proprio

come la guerra ha plasmato le istituzioni sociali degli uomini per millenni,

così li ha messi da parte, proprio come la tecnologia militare in continua

evoluzione li ha resi inutili. Quando la guerra si faceva con spade

e uomini a cavallo, veniva favorito il ruolo delle élite aristocratiche

guerriere. Quando le armi usate in combattimento diventarono a lungo

raggio come archi o fucili, le vecchie élite hanno dovuto inchinarsi

al potere centrale dei re, che, a loro volta, sono stati annullati dalle

forze di democratizzazione scatenate dai nuovi grandi eserciti.

Anche il patriarcato non può dipendere

dalla guerra per la sua sopravvivenza nel lungo periodo, dal momento

che le guerre in Iraq e Afghanistan hanno, almeno all’interno dell’esercito

americano, stabilito il valore delle donne come combattenti. Nei secoli,

le qualità umane richieste per combattere – potenza muscolare, virilità,

intelligenza, giudizio – sono diventate via via obsolete o sono state

cedute alle macchine.

Cosa è successo allora alle “passioni

di guerra”? Esclusi atti individuali di martirio, la guerra rischia

di perdere il suo lustro e la sua gloria. L’analista militare P.W.

Singer ha citato un capitano dell’aeronautica pensieroso sul fatto

che l’uso di nuove tecnologie “vorrà dire che uomini e donne

coraggiose non rischieranno più la vita in combattimento”, solo

per rassicurare se stesso del fatto che “ci sarà sempre bisogno

di anime intrepide in volo”.

Forse, ma ad un discorso del 2010,

ai cadetti dell’Air Force Academy, un sottosegretario delle difesa

ha dato la “cattiva notizia”: molti di loro non avrebbero

guidato aeroplani, dato che sono sempre più privi di equipaggio. La

guerra continuerà ad essere fatta contro gli insorti per “scovare”

istallazioni militari, centri di comando, e città di stati canaglia.

Potrà continuare ad affascinare i suoi sostenitori, proprio come nei

videogiochi, ma non ci saranno parate trionfali per degli insetti killer

robotici, non ci saranno racconti epici su aeroplani telecomandati,

non ci sarà nessun monumento ai robot caduti.

E proprio in questo può risiedere

la nostra ultima speranza. Con il declino dei grandi eserciti e il possibile

rimpiazzo da parte delle macchine, potremmo finalmente vedere che la

guerra non è solo un’estensione delle nostre esigenze e passioni,

nobili o non. Nemmeno sembra essere un test per il nostro coraggio,

abilità, o unità nazionale. La guerra ha una sua dinamica – e nel

caso suoni troppo antropomorfico – ha i suoi truci algoritmi da risolvere.

Dato che ha sempre meno bisogno di noi uomini, forse potremmo finalmente

scoprire che nemmeno noi abbiamo più bisogno di lei. Possiamo lasciarla

alle formiche.

***************************************************

Fonte: http://www.counterpunch.org/ehrenreich07112011.html

11.07.2011

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di REIO

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